Le mappe politiche del disagio sociale

Di Carlo Buttaroni Mercoledì 20 Maggio 2020 11:55 Stampa

Quando l’ufficiale giudiziario, inviato dal tribunale per eseguire lo sfratto, aprì la porta, trovò il cadavere di Maria Carmela riverso per terra, con addosso il pigiama di casa, il viso mummificato e gli oc­chiali ancora sul naso. Era morta almeno da due anni ma qualche metro più in là i fornelli della cucina erano ancora accesi, a rappre­sentare una quotidianità improvvisamente spezzata. E la sua immen­sa solitudine. Chissà quanto tempo ha aspettato, incapace di muo­versi, ascoltando ogni rumore che veniva dagli appartamenti vicini, separati da pareti talmente sottili – “foratelle” come le chiamano a Roma – dove passano tutti i suoni e gli odori delle esistenze distratte che li abitano. Aveva 63 anni. Insegnante di educazione artistica, dopo la pensione anticipata per motivi di salute, era andata a vivere nella periferia est di Roma, tra la Prenestina e la Collatina. Un appar­tamento semplice in un palazzo che non ti aspetti, perché l’estetica non è quella delle periferie più degradate della città: cinque piani con garage, cinque appartamenti a piano, balconi e qualche aiuola. Il condominio aveva convissuto con il cadavere della professoressa per due anni, sigillando con il nastro da imballaggio, e con la propria in­differenza, la sua porta, per proteggersi dagli odori acuti della morte e della putrefazione che non sapeva riconoscere.

Quella di Maria Carmela è una storia simile a molte altre. Storie di solitudine, legami rarefatti e provvisori, amicizie dimenticabili e persone sole che vanno avanti nelle loro singole unità abitative. Una moltitudine sola con la sensazione di sentirsi “insieme ad altri” senza esserlo realmente. Il neuroscienziato John Cacioppo, nel suo libro “Solitudine”, scrive: «Una marea che sale può sollevare un insieme di barche, ma in una cultura d’individui socialmente isolati, atomizzati da sconvolgimenti sociali ed economici, separati da ampie disegua­glianze, può anche provocare l’annegamento di milioni di persone». Basta camminare per le strade di alcuni quartieri dell’estrema peri­feria di una grande città per rendersi conto di cos’è la solitudine e cosa sono le diseguaglianze. Anche quando tutto sembra ordinato e “a posto”. Persino le discontinuità che segnano le tappe di passag­gio generazionali sembrano mancare nel palinsesto della vita quo­tidiana: la fine del percorso d’istruzione e formazione, l’entrata nel mercato del lavoro, l’indipendenza abitativa dalla famiglia d’origine, la costituzione di una relazione stabile di coppia, l’esperienza della genitorialità. Un deficit di futuro che si traduce in uno stato di co­stante incertezza, di sfiducia e rassegnazione. Certo, non tutti coloro che ci abitano soffrono gli stessi problemi e non tutte le periferie sono uguali. Ma la percezione è quasi sempre di un contesto sociale frammentato e fragile, dove le diverse traiettorie d’impoverimento moltiplicano le forme di disagio.

Dal dopoguerra a oggi la geografia urbana delle grandi città italiane è profondamente cambiata ma la sensazione è che i problemi si siano solo spostati, magari cambiando nome e forme. Ci siamo lasciati alle spalle le città racchiuse nei perimetri storici; le periferie degli anni Sessanta sono diventate, in molti casi, i quartieri del nuovo ceto medio; le attuali periferie sono molto più lontane dal centro di quelle di allora. Aree isolate e un po’ a sé stanti, spesso senza adeguati servizi e comu­nicazioni. Dove è più facile “adattarsi” a vivere piuttosto che cercare improbabili vie di fuga. Insomma, nulla di nuovo sotto questo punto di vista. Ma le periferie, si è detto, non sono tut­te uguali. Anche se la città è una, le mappe che la rappresentano sono molteplici e si può vivere meglio in certe zone periferiche che non in alcu­ni quartieri centrali. Ma “periferia” è un paradig­ma che inevitabilmente rappresenta qualcosa di più di una semplice collocazione urbana. Vivere in periferia o sentirsi periferia sono concetti che esprimono non solo una sofferta geografia dei luoghi ma anche una marginalità sociale legata alle opportunità e alle aspirazioni, alle relazioni e alle scelte. Questi “non luoghi”, caratterizzati da più forme di povertà, nella grande maggioranza dei casi sono in periferia. La ricerca Tecnè è significativa sotto questo punto di vista. Il 20% degli intervistati percepisce un alto livello di disagio sociale nel pro­prio quartiere di residenza, il 15% addirittura “molto alto” e la quasi totalità abita in zone molto o abbastanza periferiche rispetto al cen­tro della città. Al contrario, il 6% degli intervistati dichiara di vivere in quartieri dove il disagio sociale è molto basso o quasi assente, e tra questi solo il 3% abita in una periferia (Tabella1).

Più forme di povertà, si è detto, caratterizzano i non luoghi del disa­gio. Innanzitutto, la povertà economica, visto che laddove il disagio sociale è molto alto la metà degli intervistati è in una condizione di grave deprivazione. Povertà lavorativa, considerato che solo il 38% è occupato e il numero dei disoccupati è cinque volte più alto rispetto a chi vive in un quartiere dove il disagio è quasi assente. Povertà cul­turale, tenendo conto che appena il 40% ha un diploma o è laureato

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e solo il 44% ha adeguate competenze informatiche. C’è poi quella povertà più sottile che affievolisce le aspirazioni. È quella dei giovani che non lavorano e non sono impegnati nello studio o in attività formative. Li chiamano NEET, acronimo inglese di Not (engaged) in Education, Employment or Training, un nome che la dice lunga sulla loro biografia, visto che non definisce un’identità positiva ma ciò che non si fa (non lavorano e non studiano) e ciò che non si è. Giovani che vivono in un crescente stato di precarietà, una socialità imperfetta e provvisoria che si riflette sui progetti di vita individuali, quanto più si accompagna a disconoscimenti e incomprensioni da parte delle famiglie e delle istituzioni. Ospiti di un mondo che non offre certezze, se non condizioni di vita peggiori dei loro genitori, dai quali continuano a dipendere. Inciampano fra detriti di sogni infranti troppo precocemente, rassegnati a un deficit di speranza che li porta – per usare le parole di Sartre – a scegliere tra non essere nulla o fingere quello che si è. Sono il 36% nelle aree urbane a più forte degrado, rispetto al 9% dove il disagio è quasi assente. Un dato che si accompagna a un analfabetismo di ritorno che si rivela anche nell’impreparazione dei genitori quando sono alle prese con i com­piti di scuola dei figli.

Infine, c’è la povertà politica. Laddove il disagio è più forte la politica è quasi assente nei pensieri e nelle parole dei suoi cittadini, distanti più che disinteressati al dibattito pubblico. Solo il 37% segue la po­litica e si informa con una certa regolarità, il 30% in meno rispetto alle aree dove il disagio è più basso. Un deficit che si riflette, inevi­tabilmente, anche nella partecipazione elettorale, visto che solo un elettore su tre delle aree più degradate è andato a votare alle elezioni europee del 2019. La politica, perlopiù, è vista come inadeguata a intercettare i bisogni e a farsene carico. Soprattutto quando il disagio sociale si esprime nelle forme di una fragilità inedita, persino per chi la vive e fatica a rappresentarla. Uno scollamento che genera una pre­vedibile dinamica elettorale: chi riesce a proporsi come una novità, e intercettare quel sentimento di protesta, raccoglie maggiori consensi.

È la tesi anche dell’Istituto Cattaneo, che nella sua analisi delle ele­zioni politiche del 2018, ha rilevato che i risultati delle urne hanno visto rafforzarsi non soltanto la frattura tra città e campagna, ma anche quella – finora meno studiata – “intraurbana” che taglia oriz­zontalmente le singole realtà cittadine e separa gli interessi, le priorità o le preferenze degli abitanti dei quartieri centrali da quelli delle aree socialmente più svantaggiate. «Com’è ovvio – scrivono i ricercatori – queste divisioni geografiche e sociali che scorrono in lungo e in largo per il territorio italiano non escludono quella storica tra Nord e Sud del paese. Semplicemente, queste fratture si cumulano» (Tabella 2).

Ecco allora che nelle aree urbane del Nord, dove il disagio è più forte, il Partito Democratico perde il 6,8% dei voti rispetto a cinque anni prima. Nelle Zone rosse la flessione è del 9,6% e nel Centro-Sud dell’11,6%. Analoga dinamica accompagna il calo dei voti di Forza Italia.

La sostituzione della rappresentanza sociale e politica della sinistra e del centro, agli occhi di chi vive la vulnerabilità della propria condi­zione sociale, si risolve nelle urne in favore di chi riproduce le parole d’ordine della novità e del riscatto. Nelle aree urbane degradate del Nord la Lega cresce del 18,4% mentre nel Centro-Sud il M5S ot­tiene un +19%. Entrambi aumentano i consensi nelle Zone rosse

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(rispettivamente +13,5% e +4%).

Anche l’idea di Europa, al netto del deterioramento attuale che con­traddistingue lo stato dell’Unione, ha accenti profondamenti diversi secondo il grado di disagio urbano. Laddove il disagio è basso o quasi assente il 51% degli intervistati considera l’Europa un’opportunità, mentre dove lo svantaggio è più forte prevale chi la ritiene una mi­naccia (Tabella 3).

Nelle aree dove lo skyline è disegnato dal degrado, dalla solitudi­ne e dalle diseguaglianze, prevale un sentimento di dissolvimento senza attesa, orfano della speranza che qualcosa di nuovo sostituirà realmente ciò che appare vecchio. Un sentimento che Giovanni Sar­tori ha definito “liquidismo”: rimuovere senza pretendere nulla in cambio. Un passo oltre la società liquida di Bauman, una società, cioè, che cambia troppo velocemente per solidificarsi e strutturarsi. Un sentimento che parla la lingua dell’antipolitica, ma che, per le domande che esprime, ha bisogno di risposte politiche più di quanto possa apparire a prima vista.

D’altronde non è la prima volta che questo sentimento si afferma, quasi fosse un istinto che rimane latente fino a quando circostanze particolari lo fanno riemergere, nutrendolo dei problemi irrisolti. Fu così anche negli anni del dopoguerra, con l’Uomo Qualunque di Giannini. Anche allora il qualunquismo, come il liquidismo oggi, anziché un insulto sembrava una virtù.

Il problema è proprio in quel sentimento che fa leva su un nichilismo lieve che favorisce le diverse forme di apatia politica, quando non di vera e propria ostilità, verso le stesse istituzioni democratiche. E

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per risolverlo la politica deve fare innanzitutto i conti con sé stessa, ripensando gli oggetti della sua azione, perché in tutte le sue forme, ideali o teoretiche, fenomenologiche o empiriche, conserva sempre una confluenza con le scelte che compie, con la capacità di creare idee e di produrre azioni. Se lo scopo dell’antipolitica è mettere in luce i difetti del sistema, denunciarli e tentare di correggerli, i fatti dimostrano che la “cattiva politica” si alimenta proprio dell’antipo­litica, mettendo radici tra i detriti di una società capovolta che ha perso i suoi riferimenti economici, sociali e politici.

Per vincere la sfida con il “liquidismo” occorre ridare forza e ruolo alla politica dopo anni di degenerazione e delegittimazione che han­no progressivamente eroso la fiducia nei partiti e nelle istituzioni, minando le basi stesse della democrazia.

Cosa fare allora? Occorre far tornare la politica alla responsabilità delle scelte. Perché, alla fine, il deficit non riguarda la domanda, ma l’offerta di politica. Una perdita che si rileva attraverso il suo riassor­bimento nel tessuto di una conflittualità eterogenea e multiforme, ad alta frequenza e bassa intensità. E il bisogno di politica è testimo­niato anche dai tanti piccoli rivoli sociali, che hanno preso il posto dei grandi invasi, e cercano risposte al “liquidismo”. Prova ne è che le pratiche che si moltiplicano aspirano a teorie in grado di spiegarle e darne un senso, così come le buone idee hanno bisogno di un’ope­ratività pratica capace di renderle reali e concrete.

In un momento in cui il sistema delle appartenenze stabili e radicate sembra non avere più molto da dire, ciò che si chiede alla politica è attenzione e sensibilità rispetto alla vita reale, un maggiore coinvolgi­mento nella progettazione e nella gestione delle politiche pubbliche. Questo è l’obiettivo che il sistema politico deve porsi per frenare l’e­rosione della partecipazione e per trasformare un’azione, come quella del voto, in partecipazione piena e consapevole. Proprio a partire dalle periferie. Per farlo deve ritornare a pensare dal basso perché le “grandi sfide” possono trovare risposte recuperando una dimensione partecipativa che in realtà non si è indebolita, ma ha soltanto cam­biato forma e modalità di espressione.