Oltre la global city. Quali prospettive per le città medie?

Di Luca Garavaglia Mercoledì 20 Maggio 2020 11:54 Stampa
 

I nuovi assetti economici, caratterizzati dalle dimensioni globali dei mercati e da forme della produzione organizzate come filiere del valore lunghe, hanno determinato un profondo mutamento delle gerarchie urbane. I territori più competitivi, e in particolare i gran­di sistemi metropolitani che compongono la global city descritta da Saskia Sassen,1 si sono decontestualizzati rispetto alle economie na­zionali, riposizionandosi in reti di flussi globali e assumendo funzio­ni centrali di gestione e controllo delle reti economiche grazie alla presenza di conoscenze e servizi avanzati necessari per la competiti­vità delle imprese. Allo stesso tempo si sono definite nuove aree di marginalità nei territori meno connessi che mancano della capacità di attrarre lavoratori della conoscenza e infrastrutture avanzate indu­striali, dei trasporti, della comunicazione. Le prospettive di crescita economica dei luoghi dipendono da fattori economici e organizzativi che gli Stati nazionali riescono sempre meno a controllare: queste dinamiche hanno messo in crisi le forme di redistribuzione spaziale attuate dallo Stato nel precedente periodo fordista, e generato forti differenze nella qualità di molti servizi, a partire da quelli di welfare. I tagli all’autonomia finanziaria degli enti locali attuati da molti paesi hanno ulteriormente esacerbato queste disparità, causando proteste e conflitti: è il caso della sollevazione dei gilets jaunes in Francia, nata da periferie e aree interne che reclamano una maggiore redistribuzio­ne degli investimenti pubblici e una migliore accessibilità e qualità dei servizi pubblici essenziali a fronte di una politica nazionale e di un contesto di mercato che privilegiano Parigi e le città maggiori.

In Italia il modello interpretativo della global city ha permesso di spie­gare le performance economiche positive registrate da alcune grandi città metropolitane negli ultimi anni, e in particolare di evidenziare il ruolo apicale assunto da Milano nelle gerarchie urbane. Il capo­luogo lombardo attrae il 32% degli investimenti diretti dall’estero nel territorio nazionale2 e concentra il 37,4% degli addetti ai servizi ad alto contenuto di conoscenze per la competitività e l’innovazio­ne (soluzioni digitali e consulenza in ambito informatico, attività di direzione aziendale e di consulenza gestionale, pubblicità e ricer­che di mercato, ricerca scientifica e sviluppo) di tutto il Nord Italia, fungendo di fatto da piattaforma per la globalizzazione dell’econo­mia dell’intera macroregione. Nella classifica 2018 delle città globa­li compilata dal GaWC (Globalization and World Cities Research Network) della Loughborough University3 sulla base della presenza di uffici delle principali imprese multinazionali, Milano è undicesi­ma (classe Alpha). Roma appare in graduatoria, ma con un rango in­feriore (Alpha–) in virtù della minore dotazione di servizi finanziari e reti economiche: la capitale vanta però una forte dotazione di funzioni poli­tiche e di attività dei mass media.4 Le altre città italiane presenti nella lista GaWC, anche se in posizioni più arretrate, sono nell’ordine Torino, Firenze, Bologna, Genova, Napoli e Trieste.

Il fatto che solo Milano e poche altre grandi cit­tà abbiano una forte proiezione internazionale non significa che non ci siano più prospettive di sviluppo per le città medie, nelle quali risiede oltre il 54% della popolazione italiana5 e che in molte Regioni compongono una “galassia urbanoide”6 il cui ruo­lo è stato storicamente importante nelle economie territoriali e ha contribuito a generare originali modelli di produzione, a partire da quelli distrettuali.7 Anzi, negli ultimi vent’anni sono emersi in alcu­ne Regioni del Centro e del Nord assetti d’area vasta in cui anche le città medie e piccole sono state in grado di esprimere una buona crescita sia demografica che economica, sviluppando economie spe­cializzate in settori innovativi ad alto contenuto di conoscenze. Ciò è accaduto soprattutto lungo i principali assi infrastrutturali: la via Emilia e (con minore intensità) la dorsale adriatica dalla Romagna alle Marche, l’autostrada A4 da Novara fino a Venezia e Trieste, la Toscana centrale e l’asse Firenze-Roma. In queste aree, grazie alla possibilità di connessioni rapide tra loro e con i centri maggiori, le città medie sono parti di un sistema: le loro offerte di servizi per i residenti e per le imprese non duplicano ma integrano quelle delle grandi città, e contribuiscono a comporre uno scenario policentrico in cui la competizione territoriale è mitigata da una divisione del la­voro, in gran parte spontanea e non regolata, tra poli metropolitani, poli urbani e sistemi produttivi locali. In un simile contesto, le città medie riescono a essere attrattive sia per nuovi residenti che fuggono la congestione e gli alti costi delle aree metropolitane, sia per imprese e lavoratori della conoscenza in specifiche aree di attività (ad esempio lungo la via Emilia, Piacenza è specializzata nelle attività logistiche, Parma nei servizi per le filiere agroalimentari, Modena per quelli per meccanica e meccatronica), e non sono solo generatrici di pendolari­smo verso le città maggiori ma, in controtendenza rispetto a quanto accade nelle altre aree del paese, risultano inoltre ricettori di corposi flussi pendolari anche da distanze medio-lunghe.

Questi “corridoi territoriali”8 si sono organizzati lungo le principali arterie del traffico stradale e ferroviario, ma non sempre coincidono con i corridoi del sistema europeo TEN-T: oltre alle infrastruttu­re, per il loro assemblaggio pare anche necessaria la presenza di un tessuto urbano denso. Dove le infrastrutture per la mobilità non se­guono gli assi di urbanizzazione storici, ma sono mere connessioni tra grandi città che scavalcano i territori intermedi, allo sviluppo di strade e ferrovie non corrisponde la crescita di un sistema socioeco­nomico integrato: è quanto accade non solo in molte aree del Mez­zogiorno, ma anche sull’asse Milano-Torino (in cui le città a ovest di Novara sono disposte lungo l’arco prealpino, lontano dall’A4 e dalla linea ad alta velocità) e tra Firenze e Roma (dove i processi di urba­nizzazione non seguono il corso del corridoio europeo Scandinavia- Mediterraneo, che passa per Arezzo e Orvieto, disegnando invece un arco allargato a est che comprende le città umbre di Perugia, Spoleto, Terni).

Appare quindi cruciale la funzione delle città medie nel garantire la varietà e la ricchezza di tali sistemi: le differenze nello scenario nazionale non sembrano essere giustificate solo dal gap economico tra Nord e Sud del paese o dalla scarsa dotazione e qualità delle infra­strutture di mobilità in buona parte del Mezzogiorno, anche se come è ovvio entrambi tali fattori sono importanti nell’assemblaggio dei corridoi territoriali, ma vanno anche ricondotte a un differente ruolo delle città nei processi economici. I corridoi emergono in particolare tra Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna e Toscana, Regioni in cui è presente una fittissima trama urbana e in cui fin dal Medioevo le città minori hanno avuto modo di ritagliarsi una parte attiva nelle dinamiche economiche e politiche. Al contrario, le Regioni meri­dionali e insulari dove le dinamiche di corridoio appaiono deboli o assenti sono le stesse in cui, proprio nello stes­so periodo in cui le città del Nord iniziavano a fiorire, lo sviluppo delle economie urbane venne bruscamente arrestato dall’invasione normanna dell’XI secolo, a cui seguì la restaurazione di un sistema feudale fortemente centralizzato, avvian­do le città medie del Mezzogiorno verso modelli di sviluppo assimilabili a quello delle “città del consumo” descritte da Weber, poco attive dal punto di vista economico e scarsamente intera­genti le une con le altre, incapaci quindi di agire come “motori” per lo sviluppo del sistema d’area vasta.9

Le performance positive delle città appartenenti a sistemi di corridoio territoriale mostrano che è possibile definire prospettive di sviluppo urba­no indipendentemente dalle dimensioni: anche i centri minori sono in grado di generare attrattività per cittadini e imprese e di creare valore all’interno di un modello di “metropoli policentrica”10 in cui i sistemi sociali ed economici si organizzano su vasta scala. Esiste quindi una via alternativa alla contrapposizione global city/aree marginali, che è coerente con i percorsi storici di ur­banizzazione in Italia e che potrebbe consentire di evitare il divario tra centro e periferia che ha portato alle proteste sociali degli scorsi mesi in Francia. Per creare le condizioni che consentano alle piccole città di competere nel nuovo scenario non basta però garantire la loro accessibilità ai flussi materiali (infrastrutture viarie e ferroviarie) e immateriali (banda larga): occorre anche mettere le città nelle con­dizioni di costruire e valorizzare i propri specifici punti di forza e di collaborare le une con le altre per ridurre la competizione territoriale. Nelle aree di densi flussi in cui sono emersi i corridoi territoriali que­sto è finora avvenuto senza un progetto né una guida, sotto la spinta della concorrenza esercitata dalle città maggiori che ha incentivato le specializzazioni urbane e ha indotto i territori a differenziare la pro­pria offerta per residenti, imprese e city users. La sfida per questi si­stemi è ora quella di affrontare in maniera più governata le questioni emergenti di regolazione spaziale che non possono essere più definite solo al livello locale, connesse al consumo di suolo, alla protezione ambientale, ai bisogni sociali emergenti.

Negli altri territori, quelli meno densamente popolati, meno ricchi o più marginali rispetto ai grandi flussi di persone, di merci e di infor­mazioni, lo sviluppo di reti orizzontali tra città a scala d’area vasta va sostenuto con specifici programmi e incentivi. Entrambe queste ti­pologie di policy impongono sia un ripensamento degli attuali assetti istituzionali di governo del territorio, sia una maggiore autonomia delle città nella definizione dei propri percorsi di sviluppo: autono­mia in termini finanziari, ma anche l’autonomia sostanziale che può nascere solo sulla base di una cultura delle reti che consenta alle pub­bliche amministrazioni locali di avviare collaborazioni strutturali tra loro e con gli attori privati del territorio così da mettere a sistema le conoscenze, le intelligenze e le risorse necessarie per avviare strategie sostenibili e coraggiose.


[1] S. Sassen, Città Globali, UTET, Torino 1997.

[2] CCIAA di Milano Monza Brianza Lodi, Rapporto Milano Produttiva 2017, disponi­bile su www.milomb.camcom.it/milano-produttiva-2017.

[3] Si veda GaWC-Globalization and World Cities Research Network, www.lboro. ac.uk/gawc/.

[4] P. J. Taylor, Milano città leader dell’Italia nel World City Network d’inizio ventunesimo secolo, in P. Perulli (a cura di), Nord. Una città-regione globale, il Mulino, Bologna 2012.

[5] Istat, Censimento della popolazione e delle abitazioni 2011, disponibile su www.istat. it/it/censimentipermanenti/censimenti-precedenti/popolazione-e-abitazioni/popo­lazione-2011.

[6] L. Fregolent, L. Vettoretto, M. Bottaro, F. Curci, Urban typologies within contempo­rary Italian urbanization, in A. Balducci, V. Fedeli, F. Curci (a cura di), Post-Metro­politan Territories. Looking for a new urbanity, Routledge, New York 2017.

[7] A. Bagnasco, La costruzione sociale del mercato, il Mulino, Bologna 1988.
[8] L. Garavaglia, Città dei flussi. I corridoi territoriali in Italia, Guerini, Milano 2017.
[9] C. Trigilia, Le città medie al Nord e al Sud. Una frattura di lunga durata, paper per il convegno “L’identità territoriale delle città medie italiane”, Scuola Nazionale di Sviluppo Locale “S.Brusco”, IX edizione, Asti, 27-28 novembre 2014.

[10] P. Hall, K. Pain, The Polycentric Metropolis. Learning from mega-city regions in Europe, Earthscan, Londra 2006.