Dopo la pandemia, i nuovi equilibri internazionali

Di Massimo D'Alema Mercoledì 20 Maggio 2020 10:39 Stampa
 

La bufera del coronavirus ha scosso il mondo. Nulla – si dice – sarà come prima. (…) Anzitutto perché questa crisi ha un’inedita dimen­sione antropologica. La pandemia minaccia la salute e la vita delle persone, sconvolge le abitudini e gli stili di vita di miliardi di esseri umani, cambia radicalmente le relazioni interpersonali e il rapporto con il lavoro. In secondo luogo perché (…) colpisce l’economia reale e il lavoro e non soltanto la finanza. Essa si presenta come un contem­poraneo collasso della domanda e dell’offerta. Si tratta di una crisi di tipo nuovo: il rischio non è solo il rallentamento delle catene del va­lore globale, ma anche che alcune di esse vengano tagliate irrevocabil­mente. Difficile davvero pensare di tornare semplicemente allo status quo ante. È possibile – io ritengo necessario – cogliere questa dram­matica occasione come un’opportunità per il cambiamento. (…)

Le democrazie e in particolare l’Occidente escono ulteriormente in­deboliti da questa drammatica prova. Bisogna domandarsi perché nelle società più avanzate e più ricche l’impatto del virus sia stato così devastante. Non lo si potrebbe comprendere se non considerando che gli ultimi vent’anni di globalizzazione e di egemonia neoliberista hanno reso enormemente più fragili le nostre società. Non si tratta solo dell’indebolimento dei sistemi sanitari, pubblici e universalisti­ci. Né soltanto della riduzione del welfare e della spesa sociale in generale. Si tratta della crescita delle diseguaglianze e delle aree di emarginazione sociale. Si tratta, più in generale, di quel processo di atomizzazione della società, di lacerazione di un tessuto di corpi in­termedi, di comunità e di relazioni umane che ha investito la nostra parte del mondo. Tutto ciò ha reso la società più liquida, ma anche più fragile e precaria, meno ricca di protezione e di anticorpi.

La bufera del Covid-19 ha messo a nudo queste debolezze e insieme ha gettato una luce impietosa su un altro, non meno preoccupante, aspetto della crisi delle nostre democrazie. Cioè che società fragili, impaurite, prive di corpi intermedi e impoverite nelle loro basi cul­turali producono classi dirigenti sempre più casuali e improbabili. La depoliticizzazione, la martellante campagna ideologica contro la sfera pubblica e contro i partiti, l’esaltazione acritica della società che ben presto è degenerata nell’esaltazione della “gente” e nel populismo si è rivelata velenosa per la democrazia stessa.

Bisognerà pure riflettere sul perché molti paesi in Asia – non solo la Cina, ma anche tra gli altri Corea del Sud e Taiwan – abbiano saputo fronteggiare questa prova in modo più efficace rispetto a noi. Sarebbe semplicistico rispondere che ciò sia dipeso solo dal carattere autoritario di quei sistemi, e comunque non sarebbe vero per alcuni di questi paesi. Ha fatto la differenza un grado minore di individualismo, una maggiore coesione so­ciale e l’esistenza di reti comunitarie che nel nostro mondo non esistono più. Pesa il fatto che in Occidente, dopo decenni di liberismo sfrenato e di progressivo indebolimento della sfera pubblica, abbiamo ormai non più soltanto un’economia di mercato, ma anche una società di mercato.

Non deve stupire se è proprio la grande poten­za americana ad apparire il paese più indifeso di fronte alla pandemia e che rischia di pagare il prezzo più alto. Mentre, dall’altra parte, la Cina sembra essere in grado di tornare a parlare al mondo. La crisi ha messo in luce i difetti e le qualità del socialismo con caratteristiche cinesi. Il ritardo nell’allarme è il prezzo pagato alla mancanza di libertà. La forza della risposta, la coesione e la disciplina con cui i cinesi hanno saputo arginare l’epi­demia e rimettersi in cammino dimostrano non solo l’efficacia di un sistema in cui la politica è in grado di prendere decisioni ed eseguirle, ma anche la robustezza delle radici culturali e civili della potenza cinese. (…) Si potrebbe dire che l’esperienza della pandemia porti alla luce e, per certi aspetti, accentui quella tendenza a un declino relativo dell’Occidente che era già in atto. Mostrando il venire meno del ruolo propulsivo, centrale e ordinatore dell’alleanza occidentale tra gli Stati Uniti e i paesi europei. Questo mutamento dei rapporti di forza è sottolineato dalla cre­scente perdita di influenza del mondo occidentale nelle istituzioni internazionali – il contributo americano al finanziamento degli orga­nismi internazionali, pur rimanendo il più rilevante, tende significa­tivamente a ridursi negli ultimi anni, così come crescono le ragioni di tensione e di polemica fra l’amministrazione Trump e le Nazioni Unite e le agenzie che da esse dipendono. Da ultimo la polemica verso l’OMS, giunta al di là del grado di fondatezza, certamente nel momento meno opportuno dell’emergenza sanitaria. Negli ultimi quindici anni invece è cresciuta dall’8 al 12% la quota del contributo cinese e soprattutto la Cina esercita un’influenza sui vertici e la strut­tura di numerosi organismi attraverso la crescente presenza di propri funzionari o quella di personalità di paesi amici. E la rete dei paesi amici si è grandemente allargata per la crescente forza economica della Cina e in particolare per l’influenza sempre più significativa in Africa. (…)

L’Europa si trova a vivere il suo momento più difficile. (…) L’U­nione europea appare istituzionalmente e politicamente impreparata ad affrontare una sfida di questa portata. Era già apparso chiaro nel 2008 che tutto l’impianto delle regole e delle istituzioni dell’Europa del dopo Maastricht è stato concepito sotto il segno di un’egemonia liberista e, più precisamente, del pensiero ordoliberista di impronta tedesca. Secondo Michel Foucault «gli ordoliberali sostengono che bisogna porre la libertà di mercato come principio organizzatore e regolatore dello Stato (…). Detto altrimenti: essi vogliono uno Stato sotto sorveglianza del mercato, anziché un mercato sotto sorveglian­za dello Stato». Può apparire paradossale la definizione di Foucault, tuttavia io credo che questa impostazione abbia fortemente condizio­nato la costituzione materiale dell’UE. Basta pensare ai vincoli posti alla spesa pubblica, al blocco degli aiuti di Stato, a una normativa antitrust che, pur di garantire la concorrenza sul mercato interno, ha frenato la creazione di campioni europei in grado di competere sul mercato globale. In particolare, l’atto costitutivo della Banca centrale europea ne definisce rigidamente i compiti limitando la sua missione alla garanzia della stabilità monetaria e al contenimento dell’infla­zione, senza in alcun modo menzionare né l’obiettivo della crescita né quello dell’aumento dell’occupazione. Tutto questo impianto è l’espressione di una visione del rapporto tra economia e politica, di un’ideologia che ha imposto all’Europa una sorta di penitenza per i suoi trent’anni di keynesismo, sulla base della convinzione che solo una cura severa poteva metterci in grado di competere nell’era della concorrenza globale.

Si potrebbero analizzare a lungo i guasti determinati da questo ar­retramento dell’azione pubblica e del ruolo dello Stato in termini di crescita delle diseguaglianze e depauperamento dei grandi sistemi pubblici dell’istruzione, della ricerca, dei beni culturali, dei sistemi sanitari e altro ancora. Ma ciò che importa sottolineare è che questa impostazione che poteva anche avere un senso in una fase in cui la crescita era alimentata dalla globalizzazione e dall’apertura di nuovi mercati, si rivela totalmente inefficace e controproducente nel tem­po della stagnazione e della crisi. Ciò è chiaro o almeno dovrebbe esserlo per tutti, certamente a partire dal 2008. Non è un caso che da quel momento il processo di integrazione europea è entrato in crisi. L’Unione, in affanno, è stata incapace di una riforma coraggiosa e radicale delle sue regole e delle sue istituzioni, si è salvata decidendo di aggirare attraverso varie flessibilità regole che non funzionano più ma che non siamo in grado di cambiare. Anche la più rilevante azio­ne contro la crisi finanziaria, cioè il Quantitative Easing, deciso da Mario Draghi, è stata un’operazione certamente ai limiti – secondo alcuni oltre i limiti – dei poteri della BCE. Dopo il 2008, con fatica, si è messo un argine. Oggi senza una svolta coraggiosa non credo sarà possibile.

“The Era of Small Government Is Over”, ha intitolato “The New York Times”. Big Government significa un’azione pubblica in grado non solo di garantire la ripresa dal punto di vista delle risorse neces­sarie, ma anche di guidarla e orientarla in modo sostenibile. Questa è la vera sfida europea. La questione va oltre il tema della solidarietà. Non si tratta soltanto, quindi, di quanti soldi arriveranno all’Italia e agli altri paesi più colpiti dal virus. Questione reale, ma che non può essere affrontata in termini meramente rivendicativi anche perché senza l’acquisto massiccio di titoli pubblici da parte della BCE, senza il fondo europeo a sostegno della disoccupazione, senza i finanzia­menti alla sanità (purché siano senza condizioni) il nostro paese e gli altri più colpiti, andrebbero alla deriva. Il vero banco di prova è se l’Europa avrà il coraggio di un grande programma civile e di ripresa economica. Questo darebbe un senso agli eurobond o comunque si voglia chiamare uno strumento europeo per raccogliere il risparmio e indirizzarlo agli investimenti e alla ripresa.

Nel dibattito europeo, così affannato e confuso nei giorni della cri­si, c’è un gap tra l’attenzione posta al tema – pur rilevante – della quantità delle risorse necessarie e quello invece della qualità degli investimenti e dello sviluppo. Tema che pare a me decisivo per il futuro. Ha scritto Gaël Giraud su “Civiltà cattolica”: «La pandemia ci sta costringendo a pensare che non esiste un capitalismo davvero praticabile senza un forte sistema di servizi pubblici. Si dovrà inve­stire su quei “beni comuni” che sono condizione non soltanto per tutelare e innalzare la qualità della vita ma per affrontare shock come quello che stiamo vivendo e altri che potranno venire». La ricostru­zione economica dovrà quindi essere «l’occasione inaspettata per attuare trasformazioni che sem­bravano inconcepibili a chi continua a guarda­re al futuro attraverso lo specchietto retrovisore della globalizzazione finanziaria». L’idea stessa di sviluppo sostenibile, che si è affermata come esi­genza di una rigorosa compatibilità fra crescita e ambiente, si arricchisce ormai di nuovi signi­ficati. Non c’è sostenibilità senza riduzione della diseguaglianza e cancellazione della povertà; né – come è così evidente oggi – può esserci sviluppo senza considerare la tutela della vita e della salute come una precondizione irrinunciabile.

Papa Francesco, la cui immagine nella solitudine di piazza San Pietro deserta resterà la più potente e significativa di questa ora buia, si è rivolto all’Europa con parole di grande signi­ficato: «Oggi l’Unione europea ha di fronte a sé una sfida epocale, dalla quale dipenderà non solo il suo futuro, ma quello del mondo intero. Non si perda l’occasione di dare prova di solidarietà, anche ricorrendo a soluzioni innovative. L’alternativa è solo l’egoismo degli interessi particolari e la tentazione di un ritorno al passato con il rischio di mettere a dura prova la convivenza pacifica e lo sviluppo delle prossime generazioni». Non vi è alcuna parola ridondante o inutile nell’appello di Francesco. È concreto il rischio che dalla crisi si esca con una regressione politica, culturale e persino antropologi­ca. Non è retorico evocare il pericolo per la pace. La guerra è stata spesso nella storia umana la via di uscita da una crisi come questa. E rappresenterebbe certamente il modo forse più rapido per rimettere in movimento gli apparati economici e industriali delle nazioni più forti. Le polemiche, le recriminazioni, lo scarico di responsabilità, la tentazione egoistica di un isolamento nazionalistico affiorano nelle reazioni e nelle decisioni di molti paesi.

Ho accennato alla decisione di Donald Trump di sospendere i finan­ziamenti all’OMS. Una decisione che appare sconcertante ai limiti della irresponsabilità. Questo giudizio vale al di là delle motivazioni; in questo caso, è evidente che la critica, pure in parte giusta alla Cina e all’OMS per il ritardo nell’allarme, ha ben poca credibilità da parte del presidente americano. (…)

Purtroppo miopia e nazionalismo non sono soltanto un male dell’A­merica di Trump. Il rischio che queste malattie dilaghino potrebbe essere uno dei più drammatici danni collaterali del virus. Si parla di fine della globalizzazione quando invece la vera sfida del dopo Covid-19 è quella di dare ordine al mondo globale e renderlo più umano. È evidente che non ci sarà nessuna ripresa sostenuta e dura­tura senza un formidabile passo in avanti nella integrazione e coope­razione internazionale. Altro che tagliare i fondi all’OMS, aumentare risorse e poteri degli organismi internazionali, coordinare l’attività di ricerca rendendo accessibili i farmaci e i vaccini a tutti, armonizzare le misure di prevenzione e di contenimento dei contagi, scambiare i dati e mettere a confronto le esperienze e le pratiche per far sì che tutti possano condividere le risposte più efficaci alla malattia: que­sti sono i compiti della comunità internazionale. Come si potrà, ad esempio, sostenere la ripresa economica senza che torni a esservi una piena mobilità delle persone oltre che delle merci? (…) L’alternativa è una spaventosa regressione autarchica, la chiusura dei confini, la crescente diffidenza e ostilità tra le nazioni e i popoli.

«Stolto crede così, qual fora in campo/ cinto d’oste contraria, in sul più vivo/ incalzar degli assalti,/ gl’inimici obbliando, acerbe gare/ imprender con gli amici…». Così Giacomo Leopardi esprimeva la sua indignazione contro il suo secolo «superbo e sciocco». Egli au­spicava l’avvento – o il ritorno – di un pensiero illuminato capace di «ordinare l’umana compagnia» e di «confederare gli uomini ab­bracciandoli con vero amore». Dovrebbe essere l’Europa portatrice di questo pensiero illuminato che d’altro canto fa parte della nostra storia e civiltà. Certo, per esercitare questo ruolo a livello mondiale, l’Unione dovrebbe innanzitutto sciogliere con coraggio i nodi che ostacolano l’integrazione del nostro continente. La crisi che stiamo vivendo rafforza la consapevolezza che non ci sono alternative all’in­tegrazione. Nessuno può farcela da solo e se fossimo soli saremmo certamente in una situazione assai peggiore.

C’è chi lamenta l’eccessiva pervasività delle istituzioni europee e ri­vendica un pieno ripristino della sovranità nazionale. Nello stesso tempo, però, e dalla stessa parte, si rivendica l’emissione di euro­bond. Si tratta, con ogni evidenza, di una contraddizione insoste­nibile. Poche scelte sono così sovrane come l’emissione di titoli. Sostenere, giustamente, che questo potere deve essere esercitato dall’Unione significa andare nella direzione esattamente contraria al sovranismo nazionalista. Continuo a pensare che la ragione di fondo della impasse europea non stia nel conflitto tra vincoli comunitari e sovranità nazionali. Ciò che va cambiato radicalmente è l’imposta­zione politica e vorrei dire culturale delle scelte dell’Unione, espres­sione di un pensiero unico liberista che è stato imposto come una sorta di verità tecnico-scientifica alla quale non ci sono alternative. Ma non è così, le alternative ci sono; anzi è il momento di praticare una linea alternativa se non vogliamo che il progetto europeo venga soffocato. Ci si rende conto, quindi, che il problema non nasce dal fatto che l’Europa imponga dei vincoli ma dal fatto che questi vincoli sono a senso unico. Non ci sarebbe affatto da lamentarsi se l’Unione europea imponesse un coordinamento delle politiche fiscali in modo tale da impedire la scandalosa concorrenza per attrarre, attraverso la detassazione, capitali e imprese. Non farebbe scandalo se l’Unione stabilisse degli standard dal punto di vista dei diritti sociali in modo tale da evitare il dumping e soprattutto da offrire un quadro di ga­ranzie a tutti i cittadini europei. (…) La via da percorrere è quindi quella di rafforzare l’integrazione politica su basi più ampiamente democratiche attraverso la valorizzazione del ruolo del Parlamento europeo e un più stretto coordinamento del suo lavoro con quello dei Parlamenti nazionali. Nello stesso tempo si deve imprimere una svolta radicale alle politiche economiche e sociali nel senso di uno sviluppo che metta al centro le persone.

Qualcosa si muove negli Stati Uniti e in Europa. Nel dramma della pandemia i democratici americani hanno ritrovato la loro unità in­ torno a Joe Biden e la gestione della crisi ha rafforzato le ragioni e l’urgenza di un’alternativa. Non può sfuggire alla parte più avveduta della classe dirigente americana – neppure ai conservatori – il danno alla credibilità e al prestigio degli USA che l’attuale amministrazione sta producendo.

Anche in Europa si stanno muovendo passi nella direzione giusta. Certo ciò avviene con lentezza e in modo controverso sia per le resi­stenze conservatrici e rigoriste sia per l’insufficiente coraggio e l’at­tendismo della leadership tedesca. Un grande intellettuale tedesco, Thomas Mann, rivolgendosi ai giovani del suo paese li invitò con fermezza a rinunciare al sogno di un’Europa tedesca e a impegnarsi per una Germania europea. Questa espressione è entrata nel dibat­tito politico ormai da decenni e continua a rappresentare in modo significativo le due anime che vivono nella politica e nell’opinione pubblica della Germania. Non credo si possano avere dubbi sull’eu­ropeismo di Angela Merkel. Tuttavia la Cancelliera soffre di quello che un altro grande intellettuale del suo paese – Ulrich Beck – ha definito con un neologismo “merchiavellismo” mescolando il nome della cancelliera a quello di Machiavelli (…) per mettere in luce la tendenza ad aggirare i problemi e a fare prevalere la gestione dello status quo sul coraggio dell’innovazione. È un momento molto im­portante per la Germania, che esce relativamente rafforzata da questa crisi dove si è dimostrata la solidità dello Stato tedesco e l’efficacia del sistema sanitario di quel paese. Su questa base torna a crescere il con­senso interno verso le forze che guidano la Germania. È il momento di usare questa forza per imprimere una svolta in Europa.

È innegabile che si siano prodotte novità che sembravano impossibili e che si siano infranti tabù – come quello del Patto di stabilità – che sembravano intangibili. Ciò che ora è importante è che queste novità non siano considerate come misure legate all’emergenza, da mettere tra parentesi per ritornare poi alla “normalità”, ma l’avvio necessario di una fase nuova. Certamente lo schieramento che vuole una svolta è ampio come mai lo era stato e la posizione di Macron e della Francia – certo anche sotto l’incalzare dei problemi interni di quel paese – in­troduce una novità importante.

L’Italia può giocare un ruolo significativo. Dipenderà dalla capacità di mantenere una linea di condotta ispirata a un europeismo sincero e proprio per questo critico e riformatore, capace di costruire allean­ze e di ottenere risultati. La regressione verso un fondamentalismo nazionalista lamentoso e rancoroso non solo non aiuta il cambia­mento, ma è rischioso per l’Italia. Per chi predica: “prima gli italiani” diventa difficile negare le ragioni di chi sostiene “prima gli olandesi”. In questo modo si legittima l’egoismo nazionalista dei paesi econo­micamente e finanziariamente più solidi e si finisce per produrre un danno agli interessi nazionali.

Il Consiglio europeo del 23 aprile scorso ha sancito un complesso programma di aiuti finanziari per affrontare l’emergenza e sostenere la ripresa economica. Ora ciò che diventa veramente importante è vigilare per evitare che torni in campo la logica della condizionali­tà e dei vincoli che obbligano a politiche di austerità che sono im­pensabili in questa fase. In secondo luogo, l’idea importante di creare un grande fondo europeo per sostenere lo sviluppo richiede che si agisca perché questa decisione sia messa presto in pra­tica e perché questo fondo abbia la consistenza necessaria per aprire una nuova fase di crescita. Infine, dopo avere lungamente e giustamente discusso della quantità delle risorse, adesso l’at­tenzione deve essere rivolta alla qualità dei nuovi interventi sociali e ambientali per lo sviluppo che deve essere promosso.

I mesi che abbiamo di fronte e che comprendo­no il novembre delle elezioni americane saranno davvero cruciali per determinare il corso futu­ro. Il mondo cercherà lentamente di uscire dalla morsa della pandemia, con la consapevolezza che la convivenza con il virus sarà difficile prima che siano messe a punto terapie realmente efficaci e soprattutto un vaccino a tutti disponibile. Nel frattempo, come in un dopoguerra, si definiranno i caratteri del sistema di relazioni internazionali, economiche e politiche, che deve essere ricostruito.

Sarebbe necessario come non mai – ed è forse anche possibile – che una coalizione democratica sulle due sponde dell’Atlantico cercasse di dare il segno a una nuova fase dello sviluppo mondiale. Si tratta di arginare il rischio concreto di un processo di deglobalizzazione che porterebbe a un inasprimento di tutti i conflitti e a una regressione. Si tratta di imporre una nuova qualità dello sviluppo. Ciò richiede più dialogo e più cooperazione internazionale.

Il nuovo ordine internazionale non sarà più imperniato sull’Occi­dente. Ma l’Occidente resta un protagonista imprescindibile della governance del mondo. È lungo l’asse di un dialogo con l’Oriente che si deve costruire un nuovo equilibrio. L’interlocutore primario è la Cina. L’Occidente fatica a capire la Cina. (…) Da questa dram­matica crisi che non avrà vincitori, i cinesi usciranno probabilmente come i minori perdenti. Anche sul piano politico la Cina viene vista spesso come una variante del modello del totalitarismo sovietico sen­za comprendere nulla della complessità di quel sistema e delle radici che il modello politico cinese ha nella storia peculiare di una civiltà antica e straordinaria. Abbiamo davvero bisogno, noi cittadini del mondo occidentale, di una classe dirigente che possa rivendicare con orgoglio i valori della nostra democrazia ma che sappia anche senza arroganza e con la forza della cultura comprendere e rispettare i va­lori degli altri.1


[1] Questo articolo riprende l’Introduzione del volume M. D’Alema, Grande è la confusione sotto il cielo. Sei lezioni sulla crisi dell’ordine mondiale, Donzelli, Roma 2020.