Sei quesiti per gli IRI-entusiasti

Di Massimo Mucchetti Mercoledì 20 Maggio 2020 10:39 Stampa
 

Evocare l’IRI, sia pure con l’aggiunta dell’aggettivo “nuovo”, è una presa di posizione politica che ormai ricorre spesso in casa cinque stelle e anche, sia pure in modo più prudente, in casa PD. È un’evoca­zione non supportata né da una decente analisi delle alterne vicende dell’Istituto per la Ricostruzione Industriale (1933-2001) né da un approfondimento del significato di quell’aggettivo “nuovo” con cui si vorrebbe evitare l’accusa di antistoriche nostalgie. Viene in mente Francesco Cossiga quando criticava gli euro-entusiasti non perché lui fosse contrario al progetto europeo, ma perché gli entusiasmi acritici difficilmente portano buoni risultati. Ecco, di questo passo avremo gli IRI-entusiasti. E tuttavia, se vogliamo vedere il bicchiere mezzo pieno, agli IRI-entusiasti va riconosciuto il merito di contrastare la damnatio memoriae dell’IRI che – pure questo va detto – non pare meno superficiale di talune recenti riscoperte. D’altra parte, la rimo­zione tout court dell’esperienza dell’IRI aveva l’obiettivo di mettere fuori gioco l’idea stessa dell’intervento pubblico nelle grandi imprese per servire interessi di parte, più concreti che accademici.

Ora, la crisi gravissima dell’economia globalizzata, aperta dall’emer­genza sanitaria del Covid-19, ha sdoganato l’intervento statale nelle imprese come parte dell’inevitabile Big Government. Non di meno, un interventismo pubblico diffuso senza un disegno strategico-isti­tuzionale si rivelerebbe ben presto fonte di amare delusioni. Non basta contrastare la damnatio memoriae: per riempire l’altra metà del bicchiere, nella classe politica dovrebbero maturare adeguate risposte ai sei quesiti insiti nel concetto di un IRI di tipo nuovo.

PRIMO QUESITO: SERVE UN “NUOVO IRI”?

Nel 1933, il governo Mussolini fondò l’ente pubblico economico chiamato IRI per acquisire le grandi banche e le loro partecipazioni azionarie allo scopo di evitare una sequenza rapidissima, disordinata e altamente pericolosa di fallimenti che avrebbe travolto anche la Banca d’Italia. Non c’erano alternative.

Varare un “nuovo IRI”, invece, non è un’opzione così obbligata. Sa­rebbe una decisione politica, giustificabile con l’esigenza di avere una tecnostruttura capace di indirizzare e coordinare l’attività delle im­prese, delle quali lo Stato già detiene e continuerà a detenere il con­trollo di diritto o di fatto, e di altre partecipazioni, di diversa consi­stenza, che potrebbero arrivare e avere una permanenza variabile nel portafoglio del “nuovo IRI”. Ma se non avverte questa esigenza, lo Stato azionista può limitarsi alla Direzione partecipazioni del mini­stero dell’Economia e alla Cassa depositi e prestiti (CDP) così com’è, pensate entrambe come investitori puramente finanziari. E tuttavia non possiamo trascurare il fatto che l’interventismo pubblico è ri­preso sei anni fa, con il primo decreto Ilva, senza avere alle spalle una strategia e uno o più soggetti in grado di definirla. Dunque, una tecnostruttura capace, che per comodità chiamiamo “nuovo IRI”, servirebbe per governare interventi altrimenti casuali.

Nei cinque punti che seguono si individuano le criticità da risolvere.

SECONDO QUESITO: QUALE SARÀ IL

PERIMETRO DEL “NUOVO IRI”?

All’atto della fondazione, nel 1933, il perimetro dell’Iri era costituito dalle partecipazioni azionarie, che le banche universali in via di falli­mento avevano in portafoglio, e da Comit, Credit e Banco di Roma, alle quali, nel 1935, venne aggiunto il Banco di Santo Spirito, quat­tro grandi banche ridotte come tutte le altre al rango di banche com­merciali. La legge bancaria del 1936 aveva infatti riservato il credito finanziario e l’assunzione di partecipazioni a istituti bancari dedicati e alle sezioni di credito speciale delle maggiori banche pubbliche.

Tranne le banche, quelle partecipazioni vennero assegnate all’IRI con l’obiettivo di ricollocarle in mani private. Ma la privatizzazione funzionò solo per le società elettriche. Fu così che nel 1937 l’IRI si stabilizzò con un portafoglio di pacchetti azionari acquisito in modo preterintenzionale, per effetto del salvataggio delle banche universali. Nell’età repubblicana, con la benedizione degli USA e l’ostilità del PCI, l’IRI venne riconfermato e in seguito si trovò sui propri libri, per effetto delle pressioni dei sindacati e dei partiti variamente legati ai vecchi proprietari, numerose aziende in stato fallimentare o in gra­vissima difficoltà. Caso esemplare, l’acquisizione della Teksid dalla Fiat. L’unica nazionalizzazione di imprese in salute fu quella elettrica nel 1962.

Certo, l’IRI non esauriva i settori d’intervento della mano pubbli­ca. Lo Stato dominava l’intero sistema bancario, era presente nelle assicurazioni vita con l’Ina, guidava la politica energetica con Eni ed Enel, tentava salvataggi con la Gepi, aveva altre attività industriali nell’Efim e attività minerarie minori nell’Egam. Alcuni servizi es­senziali come quello ferroviario, oggi societarizzati, erano in capo a direzioni ministeriali. Ma fu nell’IRI che prese corpo il progetto d’intervento di gran lunga più ampio, articolato e ambizioso.

Nel 2020, il perimetro dell’intervento pubblico è più ridotto, ma re­sta importante. La mano pubblica può contare sulla Cassa depositi e prestiti come banca a medio termine degli enti locali e come agenzia di sviluppo, sui pacchetti azionari di controllo, di diritto o di fatto, in 11 società quotate in Borsa, detenuti dal Tesoro e da CDP (Enel, Eni, Poste Italiane, Leonardo, Terna, Snam, Saipem, Italgas, Enav, St Microelectronics, Banca MPS), su società non quotate di suppor­to alle imprese (Sace e Simest), su società immobiliari del gruppo CDP, sul Fondo Strategico e sul Fondo per l’Innovazione sempre in capo a CDP, su un’agenzia di sviluppo (Invitalia), sul gruppo FS. E sicuramente nell’elenco si dimentica qualcosa. Ma il punto cruciale oggi è che questo coacervo sembra destinato ad allargarsi sia a un imprecisato numero di imprese da salvare attraverso misure di na­zionalizzazione, secondo molti osservatori inevitabili data la gravità della crisi post Covid-19, sia ad altre partecipazioni, in questo caso di minoranza, acquisibili – ma si tratta di una decisione tutta da prendere, e sarebbe una radicale innovazione – per sostenere disegni di politica industriale o anche solo per favorire sviluppi autonomi di grandi imprese ovvero per prevenire operazioni predatorie da parte di investitori puramente speculativi.

Il “nuovo IRI” potrebbe disegnare il proprio perimetro in modo meno preterintenzionale di quello toccato in sorte all’IRI storico, non essendoci nulla da ereditare da banche in dissesto. Si apre dun­que lo spazio per inserire questa nuova tecnostruttura in un disegno razionale, fondato sulla distinzione delle attività dello Stato neo-im­prenditore in quattro raggruppamenti: a) l’agenzia di sviluppo (per capirci, una parte di CDP, Fondo Innovazione, Invitalia, Sace, Si­mest); b) la banca degli enti locali (la parte tradizionale di CDP); c) la holding di partecipazioni (CDP Equity, partecipazioni del Tesoro, immobiliari, le future nazionalizzazioni, le nuove partecipazioni di minoranza); d) il gruppo FS e altre aziende di trasporti, logistica e infrastrutture (Anas).

Il “nuovo IRI” potrebbe essere costruito come la holding di cui al punto c), con funzioni di indirizzo e coordinamento in regime di dialogo con il governo.

TERZO QUESITO: IN QUALE CONTESTO

SI COLLOCA IL “NUOVO IRI”?

La decisione di costituire l’IRI venne presa in un mercato autarchico da un regime dittatoriale che poteva avvalersi di élite capaci e rispet­tate dallo stesso regime, grand commis e dirigenti con forte senso dello Stato e un indiscusso prestigio sociale. Dopo la seconda guerra mondiale, l’IRI venne riconfermato dal regime democratico in un contesto sociale ancora legato alle élite anteguerra, in un mercato domestico che si apriva al commercio internazionale, non alla libera circolazione dei capitali. In seguito, mentre l’Occidente sostituiva le politiche keynesiane dei Golden Thirty con quelle liberiste del­la Scuola di Chicago, il riformismo europeo avviava la costruzione ideologica e giuridica del mercato unico e la contemporanea libe­ralizzazione del mercato dei capitali su scala planetaria. In questo nuovo contesto, l’autonomia dell’IRI venne sempre più erosa dai partiti politici, il cui radicamento è per definizione nazionale. Tra politica, radicata nei luoghi, e Stato imprenditore, sfidato dai flussi finanziari globali, si genera, insomma, un ossimoro via via sempre più insostenibile. Accadde così che negli anni Novanta, spinti dalla Commissione europea e dalla fortissima crisi di liquidità dell’Istituto determinata dalle inframmettenze dei partiti, furono i governi di centrosinistra a smantellare e infine a liquidare l’IRI, sia pure con il sostanziale appoggio dell’opposizione. Le partecipazioni residue sono finite al Tesoro o alla CDP senza che né all’uno né all’altra sia stata attribuita la responsabilità di indicare gli indirizzi strategici di massima. Rimane tuttavia in capo al governo (e alle leadership dei partiti) il potere di nomina dei vertici delle aziende. Alle quali vie­ne richiesta, semplicemente, la massima remunerazione del capitale, una volta esaurita la volontà di indirizzo di Ciampi, Visco, Amato e del primo Tremonti. Lo Stato azionista aveva subìto una mutazione genetica: da Stato imprenditore a Stato “cassettista”.

Il “nuovo IRI” dovrebbe invece fronteggiare una crisi finanziaria ed economica, che deprime sia la domanda che l’offerta, in Italia e nel mondo. Una crisi dell’economia reale, di origine sanitaria e forse am­bientale, assai più grave ed estesa di quella del 2008, che ebbe origine dalla finanza e per questo venne paragonata a quella del 1929.

Il “nuovo IRI” continuerebbe a operare nel mer­cato unico europeo e sui mercati globalizzati, ma in un quadro che va cambiando, non sap­piamo quanto. Il free trade viene rallentato dal­la riscoperta dei dazi; alla globalizzazione delle filiere produttive si giustappone la tendenza al reshoring; la disciplina degli aiuti di Stato, fon­damento del mercato unico, è sospesa; i capitali circolano meno liberamente per effetto dei di­ritti di veto e di condizionamento che i governi si sono dati (golden share, golden power). Del resto, la sottoscrizione del debito pubblico e di buona parte del debito privato avviene a opera delle banche centrali, anche nell’eurozona. La globalizzazio­ne liberista, insomma, non è più il totem di prima. Ci si potrebbe addirittura chiedere se non sia arrivato il momento per riportare in­dietro di trent’anni le lancette dell’orologio. Ma non si dovrebbe mai dimenticare che la storia, quando si ripete, lo fa in forma di farsa. D’altra parte, la fase politica, entro la quale dovrebbe maturare la costituzione del “nuovo IRI”, è molto diversa dalle precedenti.

Più ricca di protagonisti globali, anzitutto i BRIC, la fase politica in atto ha perso gli ancoraggi tradizionali a causa del neoisolazionismo americano e delle difficoltà della UE, e anche a causa dell’eclisse delle grandi ideologie. La fase politica in atto, inoltre, sconta un’allarman­te povertà di leadership in Italia come in molte altre democrazie. An­che per questo, fatica a stabilire rapporti positivi con le élite, a loro volta circondate da un diffuso discredito. E tuttavia, come dicevamo, il ricorso alla mano pubblica era iniziato già prima del Covid-19, avendo peraltro alle spalle attese miracolistiche laddove, invece, ser­virebbero una cultura e una strategia. QUARTO QUESITO: QUALE STRUTTURA

DOVREBBE AVERE IL “NUOVO IRI”?

L’IRI perfezionò la sua struttura dopo il 1937, quando fu chiaro al fondatore, Alberto Beneduce, e al suo committente, Benito Mus­solini, che non era possibile restituire ai privati le partecipazioni ereditate dalle banche. L’architrave del gruppo venne individuato in speciali subholding, le cosiddette finanziarie di settore, controllate dall’Istituto. A queste società facevano capo le aziende. A lato erano collocate le banche, sottoposte alla vigilanza e agli indirizzi della Ban­ca d’Italia più che a quelli dell’Istituto.

Alle subholding era affidato, anzitutto, il compito di elaborare la strategia industriale del settore, raccogliendo sia le informazioni in­dustriali e commerciali sia gli avanzamenti tecnologici che venivano dalle società operative. Alle medesime subholding spettava, come vedremo in seguito, la regia del finanziamento degli investimenti. La holding posta al vertice del gruppo, e cioè l’Istituto, coordinava le strategie delle subholding e ne sorvegliava i risultati. In teoria, le nomine più importanti competevano all’Istituto, ancorché dagli anni Settanta in poi l’influenza dei partiti divenne dominante nella designazione non solo del Consiglio di presidenza dell’Istituto, ma anche dei consigli di amministrazione delle finanziarie e delle società operative. Dall’IRI dei primi vent’anni, il “nuovo IRI” potrebbe re­cuperare, quale prerequisito, l’indipendenza della governance.

L’agenzia di sviluppo, la banca degli enti locali, la logistica articolata attorno alle FS vanno certo coordinate strettamente alla politica del governo, non foss’altro perché la prima ha l’incarico di gestire leggi di spesa, la seconda fa credito a soggetti pubblici e si finanzia con il risparmio postale e le FS quadrano i conti dell’esercizio e degli inve­stimenti solo grazie a cospicui contributi pubblici.

La holding di partecipazioni, invece, ha bisogno di essere indipen­dente, sia pure nel quadro degli indirizzi generali del governo, per poter spaziare negli investimenti secondo criteri di sostenibilità e per poterli finanziare senza gravare (o gravando il meno possibile) sul bilancio pubblico. In base alle regole correnti in CDP, sostenibilità significa limitare gli interventi alle società profittevoli. Ma se il go­verno vorrà nazionalizzare le imprese che ritiene di non lasciar fallire, un simile criterio prudenziale resterebbe al di qua delle necessità del paese. Naturalmente, il “nuovo IRI” correrebbe il rischio di ripercor­rere la strada della vecchia Gepi. Una deriva che potrà evitare solo se avrà in casa le competenze industriali e finanziarie utili per valutare le prospettive delle imprese in difficoltà (Ilva, Alitalia, Astaldi, Condot­te, per citare casi già noti) ovvero delle sempre rischiose intraprese di nuovo conio (Open Fiber). Valutare – questo punto deve essere chia­ro alla classe politica – significa poter far maturare i sì ma anche i no.

Se il “nuovo IRI”, disponibile ma non prono, dialogherà con il go­verno, ci si deve chiedere come ciò possa avvenire. Certo, il rappor­to Beneduce-Mussolini era assai efficiente. Si narra che il fondatore dell’IRI presentasse i problemi e le soluzioni al duce mentre questi si radeva di buon mattino e il più delle volte questi approvava. Ma gli anni Trenta erano il tempo di una dittatura che non merita rimpian­ti. Si può rinvenire una fonte più attuale nel rapporto governo-Banca d’Italia. Ma questo tipo di prassi, fatto di atti formali e informali, esige che il consiglio di amministrazione della holding e a maggior ragione i suoi vertici siano selezionati con modalità speciali, diverse da quelle seguite fin qui per CDP e più vicine, semmai, al processo di nomina del governatore e del direttorio della Banca d’Italia. Natu­ralmente, un simile processo di nomina garantisce una forte indipen­denza tecnica, fonte primaria di autorevolezza, e diminuisce il rischio di nomine sbagliate, diminuisce ma, ovviamente, non annulla.

QUINTO QUESITO: COME SI FINANZIA

IL “NUOVO IRI”?

L’IRI disegnato da Beneduce si reggeva su tre gambe finanziarie. La prima era costituita dai fondi di dotazione che gli venivano assegnati dal Tesoro. Questi fondi sono simili al capitale sociale di una società per azioni. L’Istituto poteva anche indebitarsi emettendo obbligazio­ni, garantite dal Tesoro e sottoscritte dal mercato. Le finanziarie di settore, tutte società per azioni, potevano a loro volta emettere obbli­gazioni garantite dall’Istituto, accedere al credito bancario ed effet­tuare aumenti di capitale sottoscritti dall’Istituto e, quando possibile, dal mercato. Le società operative potevano regolarsi allo stesso modo delle società private. Come emergerà nella crisi del 1993, il gruppo IRI aveva ottenuto dal mercato ingenti risorse. Debiti finanziari che negli otto anni seguenti, contrariamente alla vulgata che ancora par­la di un fallimento, l’IRI ripagò fino all’ultimo centesimo lasciando allo Stato azionista un valore netto di 24 miliardi di euro. Un modo ben strano di fallire... Certo, si può osservare che, pur non fallendo, l’IRI ha distrutto ricchezza, a differenza di Enel ed Eni che ne hanno generata in gran quantità. Quel saldo non eviterebbe la bocciatura nella logica privatistica dello shareholder value (una bocciatura che, peraltro, andrebbe estesa a tanti gruppi privati). Ma l’azionista Stato può e deve ragionare, legittimamente e in trasparenza, seguendo una logica diversa e più ampia, che considera anche le esternalità positive per il paese. Com’è del resto già avvenuto ovunque in Occidente con i salvataggi bancari.

Ma il “nuovo IRI”? Il “nuovo IRI” potrebbe finanziare la holding in modo distinto da quello delle società operative comunque vengano raggruppate nel futuro organigramma. Qualora, come sarebbe au­gurabile, fosse separata sul piano societario dall’agenzia di sviluppo e dalla banca degli enti locali, la holding di partecipazioni potrebbe dotarsi di ingenti capitali manovrando tre leve: a) valorizzando le proprietà immobiliari attraverso fondi di investimento dedicati; b) liberando capitali attraverso la maggiorazione dei diritti di voto degli azionisti stabili, che la classe politica potrebbe facilitare e rafforzare a beneficio di tutte le società quotate; c) emettendo obbligazioni pro­prie a lungo termine.

La prima leva, va riconosciuto, potrebbe essere assorbita dalle ne­cessità di cassa del Tesoro. La seconda meno. Il capitale liberabile in capo a Tesoro e CDP, attraverso la maggiorazione dei diritti di voto nelle società quotate, ammonta a 25-30 miliardi ai corsi antecedenti la crisi Covid-19 e a norme costanti. Ove la maggiorazione fosse più spinta, fosse, diciamo, all’olandese, il capitale liberabile aumentereb­be anche di molto. Questo capitale liberato potrebbe essere usato sia per lo sviluppo delle società operative sia per investimenti in par­tecipazioni in altre grandi imprese. In quest’ultimo caso, lo Stato potrebbe conseguire due risultati: a) distribuire meglio i rischi, oggi concentrati su tre sole società (Enel, Eni e Poste); b) mettere in sicu­rezza il complesso delle grandi imprese italiane, senza interferire nella loro gestione ma limitandosi a proteggere il proprio investimento. Obiettivi, questi, che giustificherebbero ulteriormente l’indipenden­za del “nuovo IRI”.

La terza leva, alla quale in verità CDP già fa moderato ricorso con proprie emissioni obbligazionarie, potrebbe finanziare sia le iniezioni di capitale di rischio a sostegno di nuovi azionisti privati ritenuti più solidi (l’appoggio a Salini per evitare il crac di Astaldi e Condotte, ad esempio), la nazionalizzazione diretta di imprese in grave difficoltà destinate poi, a risanamento avvenuto, a essere restituite al mercato recuperando il capitale investito. Per questa seconda finalità, sarebbe­ro consigliabili emissioni obbligazionarie con una garanzia pubblica, possibile nell’attuale sospensione della disciplina degli aiuti di Stato, sospensione di cui però non si conosce la durata. Tali emissioni po­trebbero sfruttare appieno la tendenza dei tassi d’interesse verso lo zero ed essere sottoscritte dal sistema bancario e poi, eventualmente, scontate in BCE, il che vuol dire in buona parte in Banca d’Italia. Per le iniziative meno rischiose, si potrebbe evitare la garanzia pubblica fermo restando il salvagente del sistema BCE-Banca d’Italia come sottoscrittore di ultima istanza sul mercato secondario.

SESTO QUESITO: QUALE RAPPORTO TRA IL “NUOVO IRI” E GLI INVESTITORI PRIVATI?

Nemmeno dopo essere stato trasformato in società per azioni, l’IRI ebbe azionisti privati. Furono le finanziarie di settore e le società ope­rative ad avere, non sempre, soci privati e a essere talvolta quotate in Borsa. Oggi le partecipazio­ni, che formerebbero il portafoglio iniziale del “nuovo IRI”, sono intestate al Tesoro e alla CDP, di cui 65 fondazioni di origine bancarie posseg­gono il 15% con speciali diritti di governance e i vincoli che abbiamo già ricordato. Ora, il punto critico generale consiste nel decidere se il “nuo­vo IRI” debba conservare o meno l’interesse alla gestione profit oriented di queste partecipazioni dimostrato dallo Stato azionista dopo il 1992 quando i vecchi enti pubblici economici (IRI, Eni, Enel e Ina) vennero trasformati in società per azioni. Un interesse, va riconosciuto, che il mercato finanziario ha condiviso e sostenuto. Se la risposta è positiva, se cioè lo Stato continua a pretendere una sana e prudente gestione, il punto critico particolare diventa come coltivare un tale interesse. E il “come” riapre la questione della composizione del capitale del “nuovo IRI”: se dovrà riflettere gli assetti azionari correnti di CDP, dal cui portafoglio di partecipazioni non può comunque prescinde­re, o se dovrà essere interamente composto da azionisti pubblici, sul modello della tedesca KfW e della francese CDD, con i conseguenti problemi, rilevanti ma non insormontabili, della redistribuzione de­gli attivi di CDP tra Tesoro e fondazioni.

È una questione da affrontare laicamente in relazione agli obiettivi che il governo si propone. La presenza delle fondazioni nel capitale di CDP ha fin qui assicurato una certa disciplina finanziaria. Ha impedito, per esempio, che CDP fosse coinvolta negli improbabi­li tentativi di salvataggio di Alitalia. Ma può anche aver reso poco convinto, e quindi poco efficace, l’intervento di CDP nell’Ilva: un eccesso di prudenza che iscrive un dubbio sulla disponibilità del­le fondazioni a sostenere eventuali salvataggi e sulla capacità della stessa CDP di leggere con profondità imprenditoriale il merito in­dustriale degli affari. Le fondazioni, invece, non hanno fermato gli investimenti in Open Fiber e Tim, certo ossequiosi dei formali vin­coli prudenziali ma non troppo profittevoli nei risultati economico-finanziari e negli sviluppi industriali, o l’investimento a fianco del gruppo Salini nel polo nazionale delle costruzioni i cui risultati sono tutti da verificare nel tempo. Questi precedenti fanno ritenere che le fondazioni non avrebbero problemi sostanziali nel caso CDP, o meglio il “nuovo IRI”, diversificasse il proprio portafoglio di parte­cipazioni entrando in grandi società quotate o affiancando i privati in salvataggi a mezzadria, mentre ne potrebbe avere se il “nuovo IRI” si attivasse in interventi di salvataggio interamente a proprio carico o anche in posizione maggioritaria con piccoli partner privati. Nel qual caso, andrebbe costituito un veicolo societario ad hoc, libero dai vincoli statutari di CDP e, insistiamo, fatti i debiti scongiuri nel ricordo della Gepi.

In ultima analisi, pertanto, il punto dirimente del rapporto tra Stato e privati nel “nuovo IRI” diventa la governance. Sia che, nella sostan­za, l’assetto misto di CDP venga confermato, sia e a maggior ragione che si vada verso un assetto azionario interamente pubblico.

Se la governance fosse esposta, com’è avvenuto finora, all’invadenza della politica, le fondazioni, interessate al dividendo come e più del Tesoro, farebbero da utile contrappeso. Un contrappeso da rafforza­re, magari, aprendo il capitale del “nuovo IRI” alle casse previdenziali, senza peraltro dimenticare che fondazioni e casse previdenziali sono vigilate dal governo. E magari anche aprendo a capitali privati pazienti, salvaguardando così il meglio dell’esperienza degli anni No­vanta. Se, al contrario, la governance fosse rafforzata sull’esempio della banca centrale, gli investitori finanziari perderebbero centralità, pur restando importanti. E allora sarebbe una soluzione più adeguata riservare loro soltanto azioni senza diritto di voto con un ragionevole privilegio sul dividendo ovvero azioni ordinarie con i diritti di gover­nance che spettano alle minoranze azionarie che presentano liste in assemblea.