La bandiera rossa e i capricci del vento

Di Mimmo Gangemi Martedì 18 Giugno 2019 15:49 Stampa


Cicco, pur giovane, si sentiva mastro muratore di fino. Aveva però origini campagnole, i suoi erano imbrattati di terra, a menare di zappa per dieci ore filate, lui stesso aveva cominciato così. Apposta, quelli che mastri lo erano da generazioni e lo esibivano orgogliosi – alcuni avevano preteso il don davanti al nome – torcevano il muso al sentirlo annomare mastro e “mastricchio” correggevano. Apposta non lo avevano accettato tra i socialisti, nella fede che legava alla maestranza, la classe di mezzo in quegli anni Cinquanta, più di un rosso cerasuolo sui ghiri fritti in padella. Apposta Cicco s’era scosta­to più in là, comunista. Comunisti dichiarati ce n’erano pochi nel paesino alle prime pendici dell’Aspromonte. Il più infervorato era il professore Rollo. Cicco si intratteneva spesso con lui. E scansava gli uomini che in piazza blateravano delle gesta in guerra, scorticandola dei ricordi dolorosi, tingendola quasi di nostalgia. Rollo a dirgli della lotta per le terre incolte che Fausto Gullo, catanzarese, avvocato, co­munista illuminato, il ministro dei contadini, aveva acceso con i suoi decreti. Rollo a spiegargli che la riforma l’avevano vanificata i nobili e i terrieri, perché godevano di un’intoccabilità solidificata, da non far venire in mente di insidiarne gli averi, perché erano stati lesti ad afferrare l’asta della nuova bandiera, dopo aver riposto in un casset­to, sia mai potessero tornare utili in seguito, i vessilli e gli stendardi appena dismessi, perché li spalleggiavano i malacarne, o li avevano al soldo. Non avevano ceduto la mano superba, agitata lenta come a benedire, su quanti nel passare rivolgevano un saluto esagerato, sprofondavano inchini e si scappellavano di coppola davanti al por­tone dei palazzi anche a sapere che non c’era chi ne potesse cogliere il gesto. Il mondo insomma lì proseguiva immutabile, le novità, che altrove avevano sovvertito tutto, erano scivolate come la pioggia sui vetri. A Cicco, quell’idea abbracciata per ripicca era diventata tigno­sa, un credo incrollabile. Tanto che «la proprietà è un furto» si disse per acquietare l’impulso di rabbia che gli sorse quando sorprese nell’orto ra­gazzi che si approfittavano dei fichi melanzana giunti in quei giorni a punto di cottura. Così compenetrato nella miseria, e nell’alone di fede che la avvolgeva di comprensione, si tenne na­scosto a osservarli e lasciò che sfogassero la fame.

Gli costava fatica però. D’accordo, la proprietà era un furto, ma lui, l’orto, non lo aveva rubato, eredità della bene­detta anima del padre era stato, e quelli il fico lo stavano spogliando, e lo lasciavano a digiuno. La solidarietà gli durò finché non s’accorse che s’erano saziati se sbucciavano i frutti e li ingoiavano con placida lentezza. Allora, si restituì padrone, si portò sotto la pianta e li ca­stigò uno a uno, con un calcio in culo di equa violenza, man mano che rimettevano i piedi a terra. Giustizia proletaria era stata, prima e dopo. Al saperlo, Rollo ebbe da ridire. Cicco sorbì in silenzio, per non dispiacere il compagno, mentre però rinforzava l’idea che non bastava la cultura per produrre giustizia, occorreva abbinarci la forza. Calci in culo a tutti, quando sarebbe arrivato il momento.

Al voto, i comunisti si moltiplicavano. A Cicco che se ne meravi­gliava e non riusciva a dare un volto agli inaspettati compagni, «non si sbilanciano a parole per paura di vedersi arrugginire il filo della zappa. Non si sono ancora spogliati dell’abito di servi, si riprendono la dignità nel segreto dell’urna» ribatteva Rollo.

Cicco non smise di arringare in piazza, seppure fossero più le volte che lo abbandonavano a ragionare con se stesso, adducendo incom­benze pur di scansare discorsi capaci di inimicarli a chi reggeva salda la cavezza di quel mondo stantio. Sarebbero stati molti più i voti se il Protopapa – con un titolo ch’era l’estremo rigurgito di un passato da ultima provincia bizantina – non avesse tuonato di continuo dal pulpito che nel riparo della cabina elettorale Stalin non riusciva a vederli, l’Onnipotente sì, e avrebbe comminato l’inferno, ad attizzare il fuoco nei gironi dove, più che brace, ribolliva una colata ferrosa. Comunque, palese o nascosto che fosse il consenso, lui a ogni mano che lo apponeva associava due piedi impazienti di prendere a calci in culo i civili, quanti non avevano bisogno di lavorare per vivere.

Poi successero i fatti d’Ungheria. Rollo un po’ vacillò. Gli occorse il conforto di Cicco, sempre a ripetergli che la forza, più che la cultura, partoriva la giustizia – «Togliatti ha detto che “si sta con la propria parte anche quando sbaglia”». Impiegò non poco per digerirlo e riprendere la via maestra. Si sorprendeva in sospiri sbuffati dalle gote gonfie, in fiati restituiti rancorosi dal naso, le dita a grattarsi tra i capelli, le labbra in­crespate. E sempre l’amaro in bocca, peggio che se si fosse abbuffato delle sorbe verdi e rosse d’a­gosto. Gli altri compagni, più simili a Cicco che a lui, s’erano adattati da subito a equilibri politici da dover mante­nere a ogni costo e dissolvevano l’invasione dentro la nebbia. Non Cosimo. Nel sentire, gli si torcevano le viscere e si aggiustava nervoso il nodo del fazzoletto rosso attorno al collo. S’arrese tuttavia: «se il compagno Togliatti ha detto così… Nella testa ha più ingranaggi dell’orologio della torre», memore della volta ch’era entrato a vedere il funzionamento ed era rimasto impressionato dalla sincronia degli incastri, delle rotelle, delle ruote dentate.

Il partito era cresciuto in fretta. C’era la sezione, la bandiera rossa affissa alla facciata e più di cento iscritti, campagnoli e di quelli con le scuole, molti giovani – “scomunicati” sussurravano le paucciane nel passare davanti, mentre ostentavano un segno di croce che scansasse il demonio.

Quando era toccato alla Cecoslovacchia, il boccone s’era rivelato più complicato da mandare giù. Aveva aggiustato Luigi Longo, oppo­nendosi al PCUS e appoggiando il nuovo corso. E il professore Rol­lo, appresso. Oltre, anzi: sulle posizioni di Enrico Berlinguer, espli­cito contro l’invasione e che propugnava l’eurocomunismo. Furono tutti con Rollo. E tutti con Berlinguer appena assunse la segreteria. E il partito non smise di scalare il cielo, ovunque in Italia. A chi si meravigliava di quella crescita senza frenate, Rollo, uomo di grandi intuizioni, raffreddò l’entusiasmo prospettando che la spinta in avanti potesse essersi esaurita, avesse toccato nel 1976 la vetta con il 33%. Portò delusione, dato che gli si credeva per fede, né più né meno di un devoto alla verginità della Madonna. «E allora che ne faccio di que­sto?» esclamò inviperito Minico, estraendo dalla cintola la mazzetta da carpentiere modellata nella forgia e con, nella battuta, lo stampo a risalto della falce e del martello. Trovandosi addosso cento occhi che lo interrogavano perplessi, «lo tenevo per quando avremmo gover­nato noi, ci marchiavo gli ulivi del Duca, quelli che mi spettavano. M’ero tirato il conto, mi prendevo il giusto, non esageravo. Ora voi, professore, mi dite ch’è un sogno che m’inganna…» spiegò affranto. Siccome Rollo allargò braccia impotenti, prese a girare e rigirare l’at­trezzo e lo pianse. Al culmine della rabbia lo scagliò contro la parete e se ne andò bestemmiando la santa freccia nel santo costato di San Sebastiano soldato romano. La delusione era cocente per tutti. Cenzo, che non saltava giorno senza indossare maglione e cravatta rossi, sem­pre gli stessi, estate o inverno che fosse, grugniva amarezza. Carmine – lui aspirava alla cittadinanza russa – sbatteva la testa al disappunto e scrutava gli acculturati per scoprire dalle loro facce se la pensassero uguale. Quelli sminuivano con smorfie varie, di nascosto a Rollo.

Rollo ebbe tristemente ragione: i consensi presero a scendere a datare dal 1979. «Siamo cresciuti finché abbiamo dominato la cultura e fin­ché non abbiamo messo paura. Sono corsi ai ripari. Puntando sulla paura, è gonfiata la democrazia cristiana, che si è mangiata la destra. Si difendono dal comunismo» spiegò. Nel 1981, Berlinguer sembrò che se la fosse parlata con Rollo, perché affermò a Mosca che la spin­ta progressiva della rivoluzione sovietica s’era esaurita, e s’accucciò sotto l’ombrello della NATO.

Rollo parve passare al torto di fronte al buon risultato nelle europee, sull’onda emozionale della morte di Berlinguer. Il seguito gli resti­tuì ragione. E invecchiava con la stessa velocità con cui calavano i consensi. Rughe di delusione gli intristivano il viso. «Era Berlinguer l’unico leader capace di tenere unito il partito; è venuto a mancare il confronto con la società civile, ci rappresentano uomini che badano solo a perpetuarsi» si lamentava.

Il primo infarto lo colse nel 1992, nel mezzo della rabbia schiumata tra le parole al veleno contro Occhetto sprovveduto nel blaterare «noi siamo una gloriosa macchina da guerra che va verso la conquista», prima di essere battuto da Berlusconi che sventolava lo spauracchio del comunismo.

Da lì in poi, in discesa libera. Appena gli stravolgimenti della storia indussero a cambiare nome al partito e avvenne la muta della pelle, Minico attese la notte fonda per togliere dalla facciata la bandiera rossa e chiudere a doppia mandata la sezione, per sempre. E presto si trovarono fianco a fian­co con gli acerrimi avversari di un tempo. «Ce li siamo messi dentro casa e adesso ci cacciano. Sono peggio dei vermi nel quaglio del formaggio pecorino, se la scialano e scavano, scavano, di un pertugio fanno una fossa» si dannava Cicco, con Rollo che ne conveniva vedendo che i vecchi vo­tanti continuavano a sentirsi comunisti, e però si ritrovavano comandanti di centro peraltro con il difetto d’essere gli unici a vincere. Sbandarono, non si raccapez­zarono più, molti si negarono al voto. «Non voglio morire demo­cristiano» tuonò Rollo nel tirarsi fuori. Entrò nel seggio solo per la coalizione dell’Ulivo. Fu rispetto al simbolo, a quella pianta che lì incarnava la sopravvivenza.

Con Renzi, il secondo infarto di Rollo. Per causa di Renzi, che lo aveva illuso di cambiamento, salvo poi circondarsi della sua corte dei miracoli e, sull’onda del successo alle europee, immolarsi nel referen­dum, petto in fuori e mani sui fianchi, stile Piazza Venezia, e facendo suonare ridicolo quel «gli elettori non sbagliano mai» spuntato sulle sue labbra tronfie, rese imprudenti dalla vittoria. Cicco, invece, a Renzi non ci aveva mai creduto.

Neanche stavolta la morte lo vinse. Ma era cadente, acciaccato, vi­cino ai novanta. In inverno si tratteneva in casa. Dove lo raggiunge­vano i pochi compagni imperterriti nella fede e che battevano dagli ottanta in su. A primavera inoltrata e nell’autunno più mite, sedeva sulle panchine del centro a gustare il sole tiepido. In estate, sotto l’ombra dei tigli. E lì snodava le parole rese incerte dal morbo che, pure, gli tremolava le carni, gli scuoteva il pugno mai ceduto. Cicco, che il don non lo aveva spuntato, gli stava accanto, assieme ai pochi sopravvissuti. Rollo provava a scuoterli dal torpore disquisendo di politica. Spiegava la deriva di destra e populista con i tre cardini prin­ cipali ch’erano venuti a mancare – la leadership, la visione socialco­munista e le politiche, intese come il modo in cui la classe dirigente si comporta, decide e governa – con il paradigma di destra, Dio, patria e famiglia, articolato meglio del loro, che non era più forza e ragione, Cicco più Rollo, che tutti capivano, ma eguaglianza senza forza, so­stenibilità senza ragione e ragione senza sentimento d’appartenenza.

Gli ribatteva il silenzio. E il fruscio del vento che scuoteva le foglie degli alberi e che a lui portava immagini e parole, di folle rosse stipate in una piazza, delle battaglie di civiltà, del fervore dentro la sezione, dei suoi comizi accompagnati da canti che colmavano l’aria. Con le immagini e le parole, il rimpianto dei giorni caduti. Insisteva, ma sa­peva di ascoltare se stesso, sul distacco dalla gente e dalle sue istanze, sull’abbandono delle lotte di classe, sull’omologazione in un appiat­timento vuoto di valori, sull’aggravarsi delle disparità sociali, sulla mediocrità di leader dalle stagioni brevi, al più suonatori di grancas­sa, non certo di violino, sul ripiegamento verso il centro, sulle beghe interne, sul mostrarsi casta inamovibile, aggrappata alle prerogative della casta, con il popolo dissolto in lontananza. Attribuiva la disfat­ta anche ad aspetti umorali, legati alla spocchia e agli atteggiamenti che di spocchia odorano, alla supponenza e alla spavalderia pur nella mediocrità, all’aria indigeribile da unici depositari della cultura, alla vista dei privilegi tenuti stretti, agli scandali, al disagio economico. Planava sul disturbo che non avessero saputo cavalcare i tempi, se altri si erano erti a paladini, dopo che loro non s’erano saputi opporre a che avvolgessero d’ombra il futuro, fustigassero il diverso, irranci­dissero la pancia. Con l’alleanza di governo che, benché un’armata Brancaleone dalle promesse farlocche ed esagerate, simili all’inganno delle fiumare che, da gonfie e tumultuose in inverno, s’immiserisco­no a pisciate d’acqua in estate, traeva giovamento dalla contrapposi­zione tra le due parti e riusciva a raccattare dallo scontento di destra e dallo scontento di sinistra, la Lega generando allarmismo, fomen­tando paure, istigando rabbia, i 5 Stelle appropriandosi di temi e di battaglie che erano, e sarebbero dovuti rimanere, patrimonio della sinistra, come il reddito di cittadinanza, la difesa ambientale, i salari minimi.

Tutte cose capaci di dirottare il consenso con la stessa facilità con cui i capricci del vento spostavano di qua e di là la bandiera in cima alla torre dell’orologio. «Ppù» sprezzava Rollo a chiusura, con l’atto dello sputo su quella democrazia dove l’ignoranza, le verità artefatte, la decadenza morale avevano fatto sì che uno valesse uno.

«Ppù» gli faceva eco Cicco, finalmente d’accordo con lui. Una volta aggiunse: «ho dato disposizione ai figli di avvolgere la mia bara con la bandiera rossa. Così vado sul sicuro, gli eredi del glorioso partito dei contadini e degli operai facile che neppure sanno che colore avesse».