L’invidia da passione mobilitante a detonatore di rivolta

Di Nadia Urbinati Martedì 18 Giugno 2019 15:36 Stampa


«A un certo punto dello sviluppo storico, le classi si staccano dai loro
partiti tradizionali, cioè i partiti tradizionali in quella data forma
organizzativa, con quei determinati uomini che li costituiscono o li
dirigono, non rappresentano più la loro classe o frazione di classe.
È questa la crisi più delicata e pericolosa,
perché offre il campo agli uomini provvidenziali o carismatici».
Antonio Gramsci, Quaderni del carcere

 

Vincitori e vinti sono categorie portanti della storia dell’umanità, che potrebbe essere scandita secondo i mezzi e le forme delle lotte e delle competizioni che hanno prodotto vincitori e vinti. La civiltà libera­le alla quale apparteniamo produce e riproduce vincitori e vinti sul campo di battaglia del mercato, per mezzo del denaro e con l’ambito traguardo di una distribuzione dei beni soddisfacente (dove la sod­disfazione è mutevole in ragione del mutamento dei bisogni). Nella sua ricca e suggestiva ricognizione dell’ordine liberale mondiale nel quale annaspiamo oggi, Salvatore Biasco suggerisce di riprendere in mano la categoria marxiana della “contraddizione” che si sorregge su un impianto architettonico fatto di fondamenta e sovrapposizio­ni. Denominiamo come “crisi” quei momenti nei quali i due ordini mostrano di essere non più in sintonia tra loro, per cui ad esempio può succedere che le fondamenta siano nel frattempo mutate mentre la compagine di istituzioni politiche e di cultura morale resta come immobile, ancorata al passato e incapace di essere in sintonia con la nuova sistemazione delle fondamenta.

Biasco racconta la storia nella quale siamo immersi oggi come una storia critica in questo senso: le condizioni e le caratteristiche del capitalismo sono cambiate eppure le compagini sociopolitiche, isti­tuzionali e culturali sono rimaste intatte, figlie di un ordine finan­ ziarizzato e produttivo che non c’è più. Quel che non c’è più è il “neoliberismo” che qui è presentato al passato: è stato «un periodo storico, una fase del capitalismo, una ideologia e un insieme di pro­cessi istituzionali e politici». Della tensione tra passato e presente di questa architettura sociale, Biasco mette in luce sei profili e di ciascuno analizza quel che ha prodotto e lasciato sul terreno: a) le politiche economiche (pro mercato); b) la perva­sività e l’ambito globale della finanza; c) la scala planetaria della produzione e del commercio, dominata dalle multinazionali; d) l’assetto geopo­litico con protagonisti gli Stati-nazione; e) una regolazione sociale riflessa nei rapporti di forza, con esiti di precarizzazione, di marginalizzazione dei sindacati, bassi salari e, al tempo stesso, ac­cumulazione concentrata della ricchezza; f ) una cultura (tesa a legittimare l’ordine esistente).

Il canovaccio di questa storia che sembra nuova è in effetti lo stesso di quello che succede abbastan­za regolarmente dal Settecento in poi: la convergenza delle ricchezze, la tendenza al monopolio; la crisi come opportunità darwiniana di sfoltire la selva dei concorrenti. Oggi traduciamo questo canovaccio con percentuali da capogiro: «il 95% del reddito aggiuntivo prodotto dopo la crisi [del 2008] è andato all’1% più ricco della popolazione e [...] la ricchezza – da qualsiasi anno si inizi la ricerca – è cresciuta in percentuali sempre più alte con il crescere della posizione occu­pata nella scala originaria». Quando Occupy Wall Street (OWS) si accampò a Zuccotti Park i critici dicevano che questi utopisti dell’u­guaglianza semplificavano la storia per essere retoricamente efficaci. Dopo più di dieci anni, i competenti sciorinano analisi e cifre che dicono esattamente la stessa cosa di quel che dicevano gli accam­pati di Zuccotti Park. È stato OWS a precedere il libro di Thomas Piketty sul capitalismo del XXI secolo; la condizione di vita delle persone ordinarie, la loro esperienza delle difficoltà quotidiane erano un dato sufficientemente chiaro per i non esperti. Comparando le loro opportunità effettive di vita con quelle dei loro genitori (che ancora potevano trovare non semplicemente un lavoro ma un lavoro più redditizio) o comparando le loro opportunità con quelle di chi viveva in un altro quartiere della stessa città consentiva senza calcoli elaborati di capire l’andamento delle cose. Il senso comune ha prece­duto quello politico e anche le pubblicazioni di grido.

Quando persone di diverse generazioni si riunirono a Zuccotti Park molti pensarono che si sarebbe trattato di una cometa. Non si può protrarre troppo a lungo la democrazia diretta, si diceva allora. Ed è vero. Ma OWS non voleva costruire un mo­vimento politico e rifiutò i corteggiamenti dei partiti politici come anche la ricerca di una can­didatura da portare al Congresso. Si trattava di un movimento che voleva far capire. Di un mo­vimento che voleva dare un segno di come il ca­pitalismo fosse cambiato e di come non sarebbe per molti stato possibile ritornare alle condizioni precedenti la crisi del 2007-08. Spazzate via case acquistate su una promessa di futuro che non poteva sostenersi, il futuro per gran parte di loro sarebbe stato molto più simile a un passato remoto (quello dei loro bisnonni, che fecero la fame negli anni Trenta) che a quello delle generazioni che avevano fatto la guerra (la seconda guerra mondiale e quella di Corea) e si erano arricchite con la ricostruzione di conti­nenti in rovina.

Che cosa siamo oggi, oltre dieci anni dopo OWS? Siamo a un punto forse ancora più critico e probabilmente a causa dell’immobilità dei profili dell’analisi di Biasco relativi alla pervasività e all’ambito glo­bale della finanza, alla scala planetaria della produzione e del com­mercio e alla cultura. La condizione è più preoccupante in relazione a due eventi o fattori dei quali noi parliamo senza ben comprendere che cosa fare: il fenomeno dei gilet gialli in Francia e la crescita in tutti i paesi dell’area atlantica delle destre xenofobe e poi della fasci­nazione che le idee sovraniste ricevono sia (ovviamente) a destra sia (meno ovviamente) a sinistra.

Il fenomeno dei gilet gialli è come la versione arrabbiata di OWS. I due fenomeni hanno molto in comune: repulsione delle rappresen­tanze politiche, di destra come di sinistra; occupazione dei luoghi pubblici di vetrina – ovvero le aree più upper-class delle capitali dei rispettivi paesi; la trasversalità di classe e però anche il rifiuto di adot­tare un linguaggio di classe o di “costruire” una compagine classista; e in effetti, il rifiuto dell’organizzazione e dell’unificazione delle ri­ vendicazioni sotto una bandiera, un leader, un obiettivo strategico. Sono similitudini che devono far riflettere poiché, per usare una fe­lice e pittorica categoria messa in circolo con successo da Toni Ne­gri, il “multitudinarismo” non consente mediazioni politiche, non ammette alcuna verticalizzazione (e quindi forme di partito) mentre è e vuole restare movimento di contestazione. I gilet gialli come le jacquerie della Francia premoderna. Le comparazioni possono aiu­tare a capire, ma si tratta comunque di movimenti nuovissimi, figli di un mondo strutturato per sovranità popolar-statuali da un lato e mercati globali dall’altro.

Inadeguato è anche usare il linguaggio che spesso usiamo: quello della “crisi” o della “preoccupazione”. È inadeguato perché il ter­mine “crisi” denota una condizione di mutazione e mutamento che le democrazie presumono e gestiscono assai bene – la “politica” è governo della crisi, soprattutto quella democratica che stimola rifles­sione critica e contestazione. Ma anche la “preoccupazione” non fa giustizia di questi movimenti, soprattutto perché sembra presumere una condizione esistente che deve essere difesa così come è. E infine, ogni linguaggio catastrofista che parla di “morte” della democrazia o di senescenza e via di seguito è inadeguato e anche opinabile poiché presume una visione teleologica, presume di sapere cioè dove vada la democrazia, la quale invece non va verso alcun lido specifico essendo una forma politica che deve continuamente met­tere in discussione nuove concrezioni inegualita­rie per persistere.

Sembra, dunque, che queste eruzioni sociali di cittadini che si ribellano nel nome della loro quotidiana condizione di disagio siano la datità dalla quale partire, la posizione che deve essere studiata per essere tramutata in materia politica. Si tratta di movimenti figli dell’età neoliberale spiegata da Biasco: attenti all’avere soldi sufficienti non solo per so­pravvivere, ma anche per procurarsi quei beni che sono indicativi di reputazione e di riconoscimento sociale. Alcuni sociologi hanno rispolverato la dinamica dell’invidia sociale (che Mandeville prima di Marx aveva considerato una molla dello sviluppo sociale) per mettere in luce tuttavia non gli aspetti dinamici di cui essa è capace ma quelli nichilisti. Oggi, invidiare chi sta bene sarebbe come indulgere in una cultura imitativa che, essendo incapace di produrre l’esito desidera­to, può motivare rivolte e reazioni violente. Insomma, l’invidia è un peccato virtuoso fino a quando le praterie sono così aperte e ampie da consentire a chi le esplora di fare e ottenere risultati.

Nella condizione odierna, nella quale i recinti delle potenzialità eco­nomiche e sociali sono stretti e chiusi, in cui i pochi che hanno il 95% della ricchezza hanno impoverito così radicalmente tutti i loro competitori da renderli pericolosi, l’invidia può essere un detonatore di rivolta. Questo è il caso dei gilet gialli, che lamentano di non poter vivere con sufficiente agio mentre “i ricchi” si godono la vita a Parigi. L’invidia diventa arma di risentimento perché le condizioni socio­economiche rendono l’energia competitiva che la anima impotente e inefficace. Si può invidiare un monarca o una corte di nobili per nascita? Non ha senso. Mentre ha senso trasformare quella invidia fuori luogo in risentimento contro un gruppo di persone che godono di privilegi enormi e sono sempre più odiate per questo.

A costo di essere retorica, vorrei citare un brano di Giambattista Vico che così descriveva nella “Scienza nuova” la rivoluzione demo­cratica di Solone. Solone fece sua la massima che sarebbe stata poi resa celebre da Socrate come “conosci te stesso” sostenendo, scriveva Vico, che volle con ciò dire ai poveri che anche se “d’origine bestia­le” essi avevano la stessa natura dei nobili che accampavano “divina origine”. Riconoscere di essere “d’ugual natura umana co’ nobili” e per conseguenza di pretendere di essere con quelli “uguagliati in civil diritto” – ecco come una situazione (quella aristocratica) che non può far posto all’invidia sociale aprì lo scenario alla trasformazione democratica. La richiesta di uguaglianza è la conclusione di quell’in­vidia che non riesce a generare emulazione perché nulla vi è da emu­lare in una condizione di ceto che include ed esclude secondo criteri che non consentono più la competizione. Ecco la contraddizione del nostro tempo: tutti i beni di cui abbiamo bisogno si possono comprare se si lavora e ci si impegna ovvero se li si merita – questa è stata per alcuni secoli la cultura morale condivisa, una morale adatta a una società di mercato. Ebbene, oggi questa morale risulta desueta, adatta a delle condizioni che non ci sono più o almeno non per mol­ti. E non ci sono più perché quella società di mercato non c’è più o non c’è nella forma così larga come in passato. I ricchi che si fanno ceto sono uno stridore nella società di mercato. I ricchi raccontati da Piketty hanno gradualmente cercato di allearsi con la classe media per portarla fuori dall’alleanza con le classi lavo­ratrici e farne il volano per politiche fiscali a loro vantaggio: la scom­parsa in quasi tutti i paesi occidentali delle tasse di successione è stata il suggello di questa alleanza. La resistenza a tassare i patrimoni è un altro segno di questa alleanza. A tale organizzazione di classi super protette e chiuse seguono scelte cetuali coerenti e votate alla chiusura culturale: mediante la filantropia, i grandi ricchi e i più ricchi tra i loro alleati del ceto medio si assicurano l’istruzione nelle migliori università del mondo, che sono a tutti gli effetti soltanto loro, con accessi selezionati per gruppi sempre più ristretti e rompendo la logi­ca del mercato, della competizione larga. Questo mette a repentaglio la funzione dinamica dell’invidia. E produce caste. Si potrebbe dire che i ricchi aspirano a una “divina origine” che renda i poveri non semplicemente sfortunati ma anche colpevoli per non riuscire, “d’origine be­stiale”. E però che cosa resta a questi ultimi se non la rivolta?

La competizione politica e il compromesso sono termini e pratiche che presumono una prateria non chiusa, calcoli di mutua convenienza ovvero antagonisti e competitori. Questo era l’ordine liberale precedente al nostro: classi contrappo­ste, calcoli di costi e benefici, scambio e compro­messo. In questa cornice sta la storia dei decenni della costruzione democratica nelle società capitaliste del secondo dopoguerra. Questo è il passato. E se oggi avvertiamo uno stallo nella politica e una vera e propria fine delle prospettive socialdemocrati­che o anche blandamente liberal-sociali, è perché la distanza tra le parti è così enorme che nessuno delle due sa bene con chi ha a che fare – parliamo di “ricchi” e parliamo di “poveri”, non più di classi. È questa la condizione binaria fuori da ogni logica di compromesso che aveva fotografato bene OWS e che i gilet gialli hanno tradotto in ribellione aperta. Né i partiti né le istituzioni rappresentative né le belle Costituzioni democratiche che tanto promettevano possono davvero fare molto per dirci che cosa fare. Gli strumenti politici che le generazioni precedenti avevano costruito nella lotta contro il capi­talismo industriale e contro quello di Stato – contro gli Stati fascisti e quelli autoritari – non sembrano funzionare più. Insomma: l’invidia non funziona come passione mobilitante; funziona solo come pas­sione distruttiva che genera risentimento.

È in questo frangente che le forze nazionaliste e xenofobe si pre­sentano sulla scena. Che diventano anzi forze egemoniche, tanto da riuscire ad attirare dalla loro parte anche le cul­ture politiche della sinistra. Oggi il popolo è il soggetto fittizio che sembra funzionare meglio aperto com’è alla costruzione discorsiva; un sog­getto collettivo che se costruito da una narrativa emancipazionista può far virare la politica verso posizioni di sinistra – questa è l’argomentazione dei populisti di sinistra che sulla scorta delle idee di Ernesto Laclau sostengono che non vi è nei fatti altra soluzione se non la democrazia populista. La soluzione populista sembra essere adatta a una società non più classista. La lotta politica nell’età degli indistinti poveri e indistinti ricchi è un’arte della distinzione: una lot­ta tra leader carismatici che devono riuscire a dare unità e distinzione riconoscibile a una serie ampia di scontenti sociali e rivendicazioni. La politica populista sembra essere in sintonia con il neoliberismo, perché una politica che si regge solo sulla conquista dell’audience, solo su narrative attraenti che raccolgono consensi con velocità e con velocità li perdono. Il problema è che la lotta tra populismi di sinistra e populismi di destra è essa stessa una narrativa, e per nulla convin­cente. Prima di tutto perché i populismi proprio in quanto operanti su una materia totalmente costruita dal discorso sono indotti a dare tanto potere al leader, al rappresentante che dà la sua faccia a rap­presentare l’unità del corpo popolare. E questa struttura personalista della politica è tutt’altro che aperta a darci più democrazia o più inclusione; infine, è assai ingenuo pensare che sia in grado di distri­buire “pani e pesci” e “tramutare l’acqua in vino”.

L’illusione populista – che è un’illusione sovranista – ci fa credere che basti entrare nella stanza dei bottoni dello Stato con uno staff deter­minato a risolvere i problemi, senza considerare che molti di questi sono, come Biasco spiega assai bene, fuori dalla portata degli Stati (soprattutto Stati di piccole e anche medie estensioni). Insomma, la soluzione sovranista ha più facilità a essere catturata dai nazionalisti e xenofobi, perché questi ultimi non promettono in fondo né la re­ distribuzione sociale né il riscatto economico dei poveri. Sono invece come i cani da guardia dei ceti medi alleati ai super ricchi, pronti a tagliare le tasse a se stessi, a ridurre le tasse di successione per ripro­dursi, a destinare più soldi pubblici a chi sta già meglio per consoli­dare il loro benessere (il regionalismo differenziato che in Italia attrae purtroppo anche parte del PD rientra in questa politica di secessione sociale di chi più ha e non vuole più accollarsi responsabilità verso chi ha meno, dichiarati re­sponsabili del loro stato, proprio come si dice dei poveri!). La politica della Lega rispecchia assai bene questo progetto – che è xenofobo, nazio­nalista, esplicitamente attento agli interessi dei ceti medi.

Con tutta la buona volontà dei teorici del po­pulismo di sinistra, il populismo non riesce a essere una strategia della sinistra. Tra le miriadi di ragioni (alcune delle quali qui menzionate) ve n’è una che il saggio di Biasco mette bene in luce: la condizione del nostro tempo è giocoforza proiettata alla dimensione sovranazionale. Pensare di reagire o anche resistere alle forze conglomerate delle mul­tinazionali ritornando allo Stato-nazione è oltre che anacronistico illusorio. Se c’è una dimensione che può ridare ossigeno alla politica questa è quella internazionale. Che lo vogliamo o no siamo obbligati a essere coraggiosi oltremisura, e vedere in quel che non piace a molti di noi – l’Europa – un possibile campo di battaglia per la ricostruzio­ne delle strategie politiche di giustizia.

Faccio mie in conclusione le parole di Biasco: «la dimensione eu­ropea, prima ancora che mondiale, appare di fondamentale impor­tanza. Impegnare l’Europa in questa direzione è una via difficile e di duro confronto, e lascio immaginare quale intransigenza, mobilita­zione e capacità di proposta controcorrente siano necessarie per un quadro differente. Ma, smontando l’Europa, tutto questo è impensa­bile, come lo è il governo di altri problemi che il neoliberismo lascia in eredità e che hanno radici globali, quando non sono integralmen­te tali (quali le migrazioni, il clima, l’ambiente, le tensioni geopo­litiche e militari, l’energia, la povertà, la guerra dei dazi, il governo delle monete internazionali, la sicurezza). Non è l’Unione europea il bersaglio, ma la sua gestione, filosofia e indirizzi».