Lavoro in Italia: vecchie debolezze e insicurezza crescente

Di Francesca della Ratta-Rinaldi e Federica Pintaldi Mercoledì 13 Maggio 2015 15:18 Stampa

Le numerose riforme che si sono succedute negli anni hanno reso sempre meno veritiera l’immagine di un mercato del lavoro italiano statico e soffocato da rigidità. I dati rivelano infatti che, complice anche la crisi economica prolungata, il lavoro in Italia si caratterizza sempre più per il suo essere atipico e a tempo parziale, strutturato su orizzonti temporali molto brevi, con frequenti casi di sovraistruzione e una perdurante precarietà anche per le fasce di età più adulte. È questa la realtà in cui si colloca il Jobs Act, e solo nel lungo periodo sarà possibile valutare appieno l’impatto del nuovo contratto a tutele crescenti e verificare se esso porterà davvero a ridurre la precarietà o non contribuirà piuttosto a estendere a una più ampia platea di lavoratori il sentimento di insicurezza che oggi caratterizza solo alcuni.

Il mercato del lavoro: aspetti da ricordare

Negli ultimi venti anni si è molto discusso della necessità di riformare il mercato del lavoro italiano per renderlo meno rigido e più adeguato ai moderni processi economici. Da più parti la flessibilità del lavoro è stata invocata come necessità ineludibile del nuovo sistema economico, produttivo e organizzativo postfordista. Le numerose riforme che si sono succedute hanno reso sempre meno reale l’immagine di un mercato del lavoro statico e soffocato da numerosi “lacci e lacciuoli”. Se si guarda solo all’ultimo periodo, l’incidenza dei dipendenti a tempo pieno e durata indeterminata sul totale degli occupati è passata dal 55,9% del 2008 al 53,5% del 2014. In pratica, nel 2014 solo poco più di un occupato su due (11.322.000) ha un lavoro fisso e a tempo pieno. Gli altri hanno un lavoro autonomo (il 23% del totale), un lavoro fisso ma con orario part time (11,6%) o un lavoro temporaneo (dipendenti a termine o collaboratori, nel 2014 circa il 12% del totale).

D’altra parte, non pochi rapporti di lavoro dipendente a tempo indeterminato, pur stabili dal punto di vista giuridico, sono ben lungi dall’essere permanenti, soprattutto nelle imprese di piccola dimensione, che costituiscono l’ossatura del nostro sistema produttivo.2 Non stupisce quindi che nel 2013 il 14,4% degli occupati abbia manifestato il timore di perdere il proprio lavoro entro sei mesi, anche se, come è ovvio, il sentimento di insicurezza è più diffuso, oltre che tra chi ha un contratto a termine, tra i più giovani e le donne, tra i lavoratori meno istruiti e quelli addetti a mansioni manuali poco qualificate.3

In realtà, gli studi sui dati longitudinali del mercato del lavoro4 segnalano come il tasso di mobilità del nostro mercato del lavoro sia sempre stato piuttosto elevato, con frequenti cadute occupazionali che interessano anche coloro che hanno un contratto a tempo indeterminato: già negli anni precedenti la crisi, Fabrizi e Raitano – analizzando un campione di dati INPS – segnalano che circa l’8% degli occupati a tempo indeterminato nel 2003 aveva cambiato condizione occupazionale cinque anni dopo e ben il 14% risultava inattivo o disoccupato. Altre indagini condotte su dati amministrativi (Centri per l’impiego e INPS) segnalano poi che circa un terzo dei rapporti cosiddetti “permanenti” di fatto non dura più di un anno, anche se chi perde un lavoro a tempo indeterminato in molti casi ne ritrova un altro con le stesse caratteristiche. Così può accadere che una persona non lavori continuativamente ma alterni brevi rapporti di lavoro, anche tutti stabili, a frequenti periodi di disoccupazione.5 Più difficile è poi la condizione dei lavoratori atipici, ancora più esposti alle turbolenze del mercato e per cui l’incertezza lavorativa non resta limitata alla sfera produttiva ma costituisce un logorio che contamina tutti gli aspetti dell’esistenza, impedendo ai più giovani di assumersi le responsabilità della vita adulta, prolungando – per i più fortunati – una situazione di dipendenza dal contesto familiare e rinviando all’infinito un futuro che rischia di non arrivare mai.6

In realtà, il cuore dei problemi del mercato del lavoro e del sistema economico italiano è invece la ristretta base occupazionale, la cui produttività rimane bassa per l’arretratezza tecnologica e organizzativa delle imprese: si pensi che nel 2014 in Italia soltanto sei persone tra 20 e 64 anni risultano occupate, a fronte di circa sette nella media dei 28 paesi della UE: tra gli uomini il tasso di occupazione tra 20 e 64 anni è pari al 69,7% contro il 75% della UE a 28, tra le donne si attesta ad appena il 50,3% a fronte del 63,5% della media europea. Peraltro, i divari aumentano se si scende nel dettaglio delle diverse aree geografiche: mentre il tasso di occupazione delle Regioni settentrionali non si discosta troppo dalla media europea (68,9%), la quota di persone occupate nelle Regioni del Mezzogiorno scende al 45,3% (58,1% gli uomini e appena il 32,8% le donne).

 

Gli effetti della crisi

Nell’ultimo anno, dopo la brusca riduzione di occupati che aveva caratterizzato il 2013, i dati Istat della rilevazione sulle forze di lavoro segnalano un lieve recupero nel numero di occupati, cresciuti di 88.000 unità (0,4% in più rispetto a un anno prima). Il numero complessivo di occupati, 22.279.000 unità, è tuttavia ancora distante da quello del 2008, con una riduzione complessiva negli ultimi sei anni di 811.000 unità, il 3,5% in meno.

Per effetto del forte impatto nei settori a più intensa concentrazione maschile, come le costruzioni e l’industria manifatturiera, la crisi economica ha colpito soprattutto gli uomini: nel complesso, tra il 2008 e il 2014, gli occupati uomini sono diminuiti del 6,3% (–875.000 unità), a fronte di un aumento dello 0,7% tra le donne (+64.000 unità). La sostanziale tenuta dell’occupazione femminile nel nostro paese è tuttavia dovuta soprattutto all’aumento delle occupate straniere, specie se impegnate nei servizi alle famiglie come colf e badanti, e alla crescita delle occupate italiane con 50 anni e più per l’innalzamento dell’età pensionabile. Con la crisi economica si è acuita anche la diseguaglianza per età nell’accesso al lavoro: al calo della quota di occupati fino a 49 anni si è contrapposta la crescita di quelli con più di 50 anni, soprattutto per effetto delle riforme pensionistiche che hanno inasprito i requisiti per accedere alla pensione. Nel periodo 2008-14 il tasso di occupazione dei giovani della fascia di età 15-34 anni è diminuito di 11,3 punti percentuali (nel 2014 pari al 39,1%) e quello nei 35-49 anni di 4,5 punti (con l’indicatore sceso al 71,6%), a fronte di un aumento di 7,7 punti tra i 50 e i 64 anni (con il tasso di occupazione arrivato al 54,8%).

Riguardo ai settori di attività, la crisi ha ulteriormente accentuato il processo di terziarizzazione dell’economia italiana, con una progressiva contrazione del peso degli occupati nei comparti dell’industria, in cui, nonostante il moderato recupero di occupati registrato nell’ultimo anno (61.000 unità, pari a +1,4%), non sono stati comunque raggiunti i livelli occupazionali del 2008 (con un calo complessivo nei sei anni di 419.000 unità, pari a –8,5%). Le costruzioni costituiscono poi uno dei settori più colpiti, con un calo complessivo dal 2008 di quasi mezzo milione di occupati (468.000 persone, pari a –24,0%), di cui 69.000 solo nel 2014. Nel terziario, invece, si segnalano alcuni comparti in calo e altri in crescita: gli occupati si riducono nel commercio, nei servizi generali della pubblica amministrazione, nelle attività finanziarie e assicurative, nell’istruzione e nei servizi alla persona; aumentano invece nei servizi alle famiglie, nella sanità e assistenza sociale e negli alberghi e ristorazione.

Tra le professioni, alle forti riduzioni registrate soprattutto tra gli operai e gli artigiani (diminuiti di 693.000 unità dal 2008, il 13,3% in meno) si contrappongono crescite consistenti nelle professioni non qualificate e in quelle esecutive nei servizi (rispettivamente +390.000 e +541.000 unità). Se l’aumento delle professioni a basso skill ha riguardato sia gli uomini sia le donne, quello delle professioni esecutive nei servizi interessa quasi esclusivamente le donne: per le straniere l’aumento coinvolge prevalentemente le professioni svolte nei servizi alle famiglie, mentre per le italiane la crescita è concentrata nella sanità e assistenza sociale e negli alberghi e ristorazione.

L’Italia, quindi, continua a caratterizzarsi come un sistema incentrato su settori con bassa produttività e scarso contenuto tecnologico, che ha difficoltà a creare ricchezza e valore aggiunto ed è maggiormente sottoposto al rischio della concorrenza internazionale dei paesi, di nuova industrializzazione, con costi di produzione notevolmente inferiori.7 In proposito, è particolarmente interessante l’indicatore della sovraistruzione, vale a dire la quota di quanti svolgono un lavoro non adeguato al proprio titolo di studio. Nel nostro paese, infatti, al progressivo innalzamento del livello di istruzione della popolazione italiana non ha fatto seguito un analogo innalzamento della domanda di lavoro qualificato, tanto che la sovraistruzione, in crescita negli anni della crisi (dal 19% del 2008 al 22,1% del 2013), contraddistingue sempre di più il nostro mercato del lavoro (specie quello dei giovani fino a 34 anni, tra i quali l’indicatore arriva al 34,4%). La necessità dei lavoratori più istruiti di accettare occupazioni che richiedono competenze inferiori a quelle possedute costituisce un fenomeno particolarmente insidioso, poiché molto spesso tale soluzione «può “intrappolare” i lavoratori per un lungo periodo in attività lavorative insoddisfacenti, che non sfruttano appieno il loro potenziale e che per questo possono portare via via ad una obsolescenza delle competenze inizialmente possedute dal lavoratore».8

 

Il lavoro flessibile

La crisi ha cambiato il peso delle diverse figure presenti nel mercato del lavoro. Alla riduzione delle forme di lavoro standard (a tempo pieno e indeterminato sia tra i dipendenti sia tra gli autonomi) si contrappone la crescita del lavoro a tempo parziale, a tempo indeterminato e degli atipici (dipendenti a temine o collaboratori). Tuttavia, la forte crescita degli occupati a orario ridotto negli ultimi sei anni (784.000 unità, il 23,7% in più) ha interessato soltanto il part time involontario, vale a dire quello svolto in mancanza di occasioni di lavoro a tempo pieno. Di fatto, quindi, il lavoro a tempo parziale, più che rappresentare una scelta degli individui per conciliare i tempi di vita e di lavoro, ha raffigurato una strategia delle imprese per diminuire i costi del lavoro e rendere gli orari della forza lavoro flessibili alle esigenze dell’azienda, tenuto conto anche della possibilità data dalla legge 30 di effettuare un numero di ore di straordinario – quando queste sono dichiarate – fino ad arrivare a un orario di lavoro a tempo pieno.

Anche i lavoratori atipici hanno risentito delle oscillazioni dovute alla congiuntura economica: primi a diminuire nei momenti di crisi più acuta, gli atipici sono tornati a crescere nei momenti di ripresa, mettendo in luce il forte legame di questa forma di lavoro con il ciclo economico. Nel 2014 il numero di dipendenti a termine e collaboratori è tornato a crescere (+80.000 unità nell’ultimo anno, il 3,1% in più), senza comunque tornare ai livelli del 2008. Il lavoro a termine non è certo un’esclusiva italiana, ma da noi il suo sviluppo ha assunto varie specificità. Anzitutto per la velocità di espansione: basta guardare ai dati Eurostat9 per rendersi conto che nel 2003 il lavoro a tempo determinato rappresentava, nell’Europa a 28, il 12,6% dell’occupazione, mentre in Italia soltanto il 9,5%. Quattro anni dopo, per effetto della legge 30, la percentuale era salita al 13,1%.

In Italia le forme di lavoro temporaneo si caratterizzano da un lato per orizzonti temporali molto brevi (in circa la metà dei casi il contratto dura appena un anno) e dall’altro per il perdurare della condizione di precarietà: nel 2014 erano 524.000 gli atipici che svolgevano lo stesso lavoro da almeno cinque anni (dal 18,4% del 2008 al 20,2% nell’ultimo anno), con incidenze più elevate tra i collaboratori e tra chi lavora nei servizi generali dell’amministrazione pubblica e nell’istruzione. Il susseguirsi di lavori che caratterizza l’esperienza della precarietà innesca poi una spirale che ostacola l’accumulazione di esperienze professionali trasferibili da un datore di lavoro all’altro e non permette la costruzione di una carriera tra i lavori.10 In questo modo l’esperienza della precarietà incide fortemente sulle identità professionali dei precari, che soffrono della discontinuità e frammentarietà delle esperienze di lavoro sperimentando una sensazione di deprivazione professionale e sociale.11 Peraltro, il protrarsi della condizione di precarietà rende questo fenomeno non soltanto tipico dei più giovani, ma coinvolge anche le classi di età più adulte: oltre un terzo del totale degli atipici ha tra 35 e 49 anni e ciò significa che a essere coinvolti sono anche soggetti con responsabilità familiari. Da più parti si osserva come la crisi economica abbia prodotto effetti diversi sulla vita di giovani, adulti e anziani, accentuato l’importanza delle risorse familiari e territoriali su cui è possibile far affidamento, modificato le condizioni economiche e le prospettive di vita, ampliato il rischio di un peggioramento della condizione dei figli rispetto a quella dei genitori,12 nonché aumentato la probabilità di cadere in povertà dei pensionati di oggi e di domani.

 

Il Jobs Act

“Instabilità”, “precarietà” e “insicurezza” sono termini spesso usati come sinonimi per indicare la situazione critica in cui si trovano molti occupati. In realtà, per ciascuna situazione si dovrebbe utilizzare un termine diverso. Il concetto di “instabilità” si riferisce all’aspetto giuridico dell’occupazione, per cui sono considerati instabili i rapporti di lavoro per i quali è previsto un termine; con “precarietà” non si intende uno specifico rapporto di lavoro ma un periodo più o meno lungo della carriera lavorativa; infine, l’“insicurezza” riguarda la dimensione soggettiva, ossia la preoccupazione per il rischio di perdere il lavoro che si lega al livello di disoccupazione e al sistema di ammortizzatori sociali.13 In relazione a queste definizioni, è importante riflettere su quali saranno gli effetti della nuova normativa del lavoro. Benché uno degli intenti del Jobs Act sia quello di ridurre la precarietà e aumentare la mobilità nel mercato del lavoro, è probabile che la maggiore facilità di licenziamento renda più sfumato il confine tra contratto a termine e a tempo indeterminato. Sarà quindi molto importante monitorare cosa accadrà con il nuovo contratto a tutele crescenti, in particolare nel lungo periodo, per valutare se davvero verranno progressivamente eliminate le diverse forme di lavoro precario e se, quando non saranno più disponibili gli sgravi contributivi, i contratti continueranno a essere prolungati. Gli andamenti occupazionali non possono poi essere svincolati da quelli del ciclo economico e pertanto gli effetti saranno molto diversi a seconda che si assista a una ripresa del mercato del lavoro oppure a una nuova congiuntura sfavorevole. Anche gli aspetti soggettivi, come la percezione d’insicurezza nei confronti del proprio lavoro, potranno modificarsi in seguito all’introduzione del nuovo contratto, estendendo a una maggiore platea di lavoratori il sentimento di insicurezza che oggi contraddistingue soltanto alcuni.

1 Le opinioni riportate in questo scritto sono esclusivamente personali

 


 

[1] Le opinioni espresse dalle autrici in questo articolo sono esclusivamente personali e non sono attribuibili all’istituto di appartenenza.

[2] E. Reyneri, F. Pintaldi, Dieci domande su un mercato del lavoro in crisi, il Mulino, Bologna 2013.

[3] Istat, Rapporto Bes 2014. Il benessere equo e sostenibile in Italia, Roma 2014, disponibile su www.istat.it/it/files/2014/06/Rapporto_Bes_2014.pdf.

[4] Si veda ad esempio E. Fabrizi, M. Raitano, Rigido, flessibile o liquido? L’immagine del mercato del lavoro italiano dal dataset AD-SILC, in “Economia e Lavoro”, 3/2012, pp. 29-60.

[5] E. Reyneri, F. Pintaldi, op. cit.

[6] P. Di Nicola, F. della Ratta-Rinaldi, L. Ioppolo, S. Rosati, Storie precarie. Parole, vissuti e diritti negati della generazione senza, Ediesse, Roma 2014.

[7] L. Gallino, Il lavoro non è una merce. Contro la flessibilità, Laterza, Roma-Bari 2007.

[8] Istat, Rapporto annuale 2014. La situazione del Paese, Roma 2014, p. 118, disponibile su www.istat.it/it/files/2014/05/Rapporto-annuale-2014.pdf.

[9] Le tabelle comparative si possono agevolmente costruire online all’indirizzo ec.europa. eu/eurostat/data/database.

[10] A. Accornero, San Precario lavora per noi, Rizzoli, Milano 2006.

[11] P. Di Nicola, F. della Ratta-Rinaldi, L. Ioppolo, S. Rosati, op. cit.

[12] A. Schizzerotto, Mutamenti di lungo periodo delle strutture di classe e dei processi di mobilità in Italia, in “Quaderni di sociologia”, 62/2013, pp. 127-45.

[13] E. Reyneri, F. Pintaldi, op. cit.