La riforma degli ammortizzatori sociali: lezioni dalla crisi pandemica

Di Maria Cecilia Guerra Giovedì 25 Marzo 2021 17:07 Stampa

L’esplosione della pandemia ha posto il nostro, come gli altri paesi col­piti, nella necessità di approntare velocemente un insieme di strumenti finalizzati a impedire che uno shock temporaneo potesse determinare riduzioni permanenti dei livelli dell’attività economica e dell’occupazio­ne. La finalità prioritaria degli interventi è stata garantire la continuità dei rapporti di lavoro con due strumenti: il blocco dei licenziamenti, accompagnato da ammortizzatori sociali in costanza del rapporto di la­voro, specifici per l’emergenza Covid e finanziati con la fiscalità generale.

Disegnare questi ammortizzatori è stato un processo difficile, che ha messo in evidenza le debolezze del nostro sistema di tutela dei lavoratori, caratterizzato da un marcato orientamento sia settoriale (industria ed edilizia, per la Cassa integrazione guadagni ordinaria, CIGO) sia dimensionale (datori con più di 5 dipendenti per il Fondo di integrazione salariale, FIS, riservato alle imprese non coperte né da CIGO né dai Fondi di solidarietà bilaterali, FDS). Per estendere le coperture ai soggetti che ne erano privi sono stati messi in campo, con urgenza, strumenti ulteriori, di tre tipi: a) Cassa integrazione in deroga, per tutti i datori di lavoro del settore privato, compresi quelli agricoli, della pesca e del terzo settore che non possono accedere a CIGO, FIS o altri Fondi di solidarietà, FDS, e indipendentemente dal numero di lavoratori (e quindi anche i datori di lavoro con meno di 5 dipendenti); b) un insieme di indennità, variamente definite quanto a requisiti di accesso, durata e importo della prestazione, per figure specifiche di lavoratori, con attenzione prioritaria a quelli del turismo, delle stazioni termali, dello spettacolo e dello sport; c) in­dennità per lavoratori autonomi e reddito di ultima istanza, condi­zionato a una prova dei mezzi, per professionisti iscritti agli enti di diritto privato di previdenza obbligatoria. L’evidente insufficienza delle coperture del sistema in essere ha raf­forzato la richiesta per la messa a regime di un sistema universalistico. Tale sistema non può consistere nella conferma degli strumenti messi a punto durante l’epidemia. Non solo per le critiche di cui sono stati oggetto, per la loro parzialità e la loro gestione, a partire dai tempi di erogazione. Ma, soprattutto, perché le loro caratteristiche sono strettamente legate all’eccezionalità della situazione, e non possono essere riprodotte in una situazione ordinaria. Ciononostante una ri­flessione sui pregi e sui limiti degli strumenti messi in campo può essere molto utile, come si cercherà di argomentare in quanto segue, per capire i problemi con cui dovrà confrontarsi la riforma, a regime, degli ammortizzatori sociali.

GLI AMMORTIZZATORI COVID-19

Gli ammortizzatori Covid-19 sono stati finalizzati all’obiettivo eco­nomico e sociale di mantenere il livello dell’occupazione, in presenza di una crisi esogena, conseguente all’interazione fra pandemia e prov­vedimenti, intrapresi dal governo, che hanno costretto alla chiusura temporanea, parziale o totale, attività economiche altrimenti sane. Questo ha giustificato un intervento di tipo “assistenziale”, finanzia­to cioè attraverso la fiscalità generale, fuori dalla logica assicurativa degli ammortizzatori in essere, che ne giustifica il finanziamento pre­valente attraverso la contribuzione. È stato conseguentemente so­speso, con una breve eccezione, anche il pagamento del contributo addizionale che, chiamando i datori di lavoro a una compartecipa­zione al costo dell’erogazione, è finalizzato a ridurre comportamenti opportunistici. La Cassa integrazione con causale Covid ha sostituito temporaneamente la CIGO, anche se l’impresa non aveva ancora esaurito il diritto a fruirne, e ha integrato le risorse del FIS e dei FDS le cui disponibilità finanziarie sarebbero state assolutamente insuffi­cienti a fronte di uno shock così ampio.

Gli ammortizzatori Covid-19 sono stati poi riconosciuti ai lavoratori attivi a una certa data, senza altri requisiti di accesso: non è stato in particolare richiesto alcun periodo di anzianità lavorativa (e quindi di copertura contributiva) per potere accedere.

Nel periodo di lockdown la ricerca di nuove occupazioni era di fatto ampiamente inibita. Non ci si è quindi preoccupati di legare la fruizione dei nuovi strumenti né a condizionalità né a opportunità di formazione, come è invece indicato quando il lavoratore è di fronte alla prospettiva di dovere cambiare lavoro. La durata stessa del pe­riodo di fruizione delle nuove forme di integrazione salariale, gene­ralmente limitata, per non creare problemi di welfare dependence, è stata collegata alla durata della sospensione o riduzione dell’attività economica indotta dall’epidemia.

Coerentemente con la natura assistenziale-risarcitoria dell’interven­to, l’accesso alle prestazioni indennitarie (come quelle erogate ai la­voratori autonomi, nei mesi di marzo e aprile, o a lavoratori di spe­cifici settori, quali turismo e sport) è avvenuto sulla base di requisiti molto laschi e l’importo della prestazione è stato definito a prescindere da quello della retribuzione o del reddito percepito in precedenza.

Due diversi aspetti di particolare rilievo devono essere sottolineati. Per la prima volta, si è cercato di costruire una forma di ammortizzatore sociale per i lavoratori autonomi. La difficoltà di defi­nire criteri selettivi di accesso, a fronte di una perdita estesa di reddito, per questa categoria di lavoratori, ha portato alla definizione di una in­dennità di 500 euro pari per tutti. La misura ha avuto un effetto notevole nel controbilanciare la perdita di reddito di questi lavoratori, riducen­dola, in media, con riferimento al primo seme­stre del 2020, dal 24% al 5%.1 È però evidente che la mancanza assoluta di relazione fra l’importo dell’indennità e il reddito pre-crisi, o la sua riduzione, è un elemento che non può es­sere riprodotto in un sistema riformato degli ammortizzatori sociali.

Per quanto riguarda le altre indennità, ci si è trovati di fronte alla difficoltà di come riconoscere una copertura assicurativa a lavoratori senza continuità reddituale, non solo in ragione della forte compo­nente stagionale della loro attività, e della grande presenza di contrat­ti a termine estremamente parcellizzati, ma anche per la significativa diffusione del lavoro irregolare. Poiché queste caratteristiche inte­ressano interi settori produttivi – dal turismo, allo spettacolo, allo sport – particolarmente colpiti dal lockdown, si è usato un criterio molto generoso per definire l’accesso alla prestazione. La platea di beneficiari ricomprende infatti tutti i lavoratori che hanno lavorato in quei settori nella precedente stagione, sia pure per periodi anche molto limitati,2 sulla base dell’ipotesi che, pur avendo cessato il loro rapporto di lavoro, in assenza di pandemia questi lavoratori avrebbe­ro lavorato nella successiva stagione.

La scelta compiuta non è banale: una parte non piccola di questi la­voratori aveva goduto, o era ancora in godimento, della indennità di disoccupazione (NASPI o Dis-coll). Molti di loro avrebbero potuto accedere a prestazioni sociali di ultima istanza, come il Reddito di cittadinanza o il Reddito di emergenza. Ma si tratta di misure su base familiare e con un connotato assistenziale molto accentuato. Con le indennità si è voluto invece premiare, e quindi anche salvaguardare, il legame con il mercato del lavoro, per quanto non continuativo, e, come si è detto, spesso non regolare, riconoscendo che tale legame era stato spezzato dal Covid. Si è quindi creato, artificialmente, un diritto alla continuità del lavoro, e per questo al risarcimento della sua interruzione forzata, che questi lavoratori contrattualmente non hanno.

I lavoratori a termine sono i principali perdenti della crisi pandemi­ca. Non sono stati oggetto di interventi specifici, se non nel campo del turismo, quando ci si è accorti che molti di loro erano in realtà stagionali, non assunti con il contratto più adeguato alla loro situa­zione. Hanno beneficiato, parzialmente, di alcune estensioni delle tutele. Ma, nel complesso, nel primo semestre del 2020, nonostante possano accedere alla NASPI, il loro reddito si è ridotto dell’11% rispetto a quello pre-crisi, contro il 5% di lavoratori a tempo inde­terminato e di lavoratori autonomi, proprio in ragione della loro alta probabilità di rimanere disoccupati.3

QUALI SUGGERIMENTI PER LA RIFORMA DEGLI AMMORTIZZATORI SOCIALI?

La riforma dovrà porsi due obiettivi di grande rilievo: l’universalità delle coperture e la loro omogeneità. Dovrà cioè evitare una differen­ziazione non giustificata nelle prestazioni ricevute, quanto a criteri di determinazione e durata degli importi e tempestività dell’erogazione.

Diversamente da quanto avvenuto nella fase pandemica, il sistema di ammortizzatori riformato non potrà abbandonare la sua natura di assicurazione nei confronti della perdita di reddito conseguente alla riduzione o alla cessazione del lavoro. Per garantire universalità di trattamento sarà allora necessario chiamare a qualche forma di contribuzione, articolata per tenere conto, come in parte già avvie­ne, della diversità di situazioni legate, ad esempio, al settore di ap­partenenza e alla dimensione dell’impresa, soggetti che al momento ne sono esclusi. Fra le proposte da considerare ci sono quelle volte a estendere il cosiddetto experience rating (la penalizzazione contri­butiva del ricorso allo strumento, definita, nel caso della CIGO, in forma crescente al crescere dell’utilizzo nei cinque anni precedenti), riducendo invece la contribuzione di base. Al tempo stesso occorre superare definitivamente ogni forma di cassa in deroga. Per evita­re aumenti improvvisi del costo del lavoro nei settori attualmente esclusi dalla contribuzione, e dalle tutele, occorrerà prevedere appo­siti meccanismi di gradualità.

Ma il tema fondamentale riguarda l’equilibrio che si vuole realizzare fra flessibilità e tutele nel mercato del lavoro. È infatti indubbio che le imprese attualmente non coperte dalla CIGO operano, per lo più, in settori caratterizzati da una quota relativamente alta di dipenden­ti a tempo determinato che permette loro una flessibilità notevole nell’uso della manodopera. Se si esclude il caso estremo del lockdown imposto per norma, possono adattarsi a shock negativi non assumen­do e non rinnovando i contratti. Gli oneri dell’adattamento cado­no integralmente sui lavoratori. Queste imprese hanno quindi uno scarso interesse a partecipare, con una propria contribuzione, a uno schema di assicurazione universale del reddito dei propri lavoratori. Sono convinta che la tutela principale per questi lavoratori debba es­sere ricercata in una diversa modalità contrattuale. Ma è comunque importante interrogarsi sulle caratteristiche che, per essi, deve avere un adeguato sistema di ammortizzatori, a fronte della cessazione del contratto di lavoro.

Le problematiche aperte sono tante e riguardano sia la durata che l’im­porto della prestazione. I lavoratori a termine sono infatti esposti a un rischio di interruzione dell’attività lavorativa, e di conseguente ridu­zione del reddito che dovrebbe essere assicurato, molto maggiore. Per­cepiscono retribuzioni generalmente basse, e sperimentano interruzio­ni dell’attività lavorativa più numerose. Fra le proposte da considerare per tenere conto di questi elementi, Franzini e Raitano4 propongono, ad esempio: la fissazione di un tasso di sostituzione più elevato, che tuteli in misura superiore i lavoratori a minor salario; la riduzione del decalage di NASPI e Dis-coll, accompagnata da un limite minimo di durata dell’ammortizzatore. Sono misure più facili da costruire con riferimento a rapporti di lavoro che abbiano comunque una durata superiore a un minimo, anche al fine di evitare comportamenti oppor­tunistici. Si tratta inoltre di correttivi che difficilmente possono essere inseriti in un sistema interamente contributivo, a meno di non pre­vedere aliquote contributive elevate. Non hanno infatti una mera na­tura assicurativa, ma una funzione di garanzia di reddito, e quindi di sostegno economico, a soggetti con periodi frequenti di interruzione.

Ci si deve allora chiedere, anche alla luce dell’esperienza condotta durante la pandemia con riferimento alle indennità riconosciute ai lavoratori stagionali, se non sia il caso di prevedere, a fianco di uno strumento assicurativo tradizionale, uno strumento di tipo assisten­ziale, finanziato cioè con la fiscalità generale, che accompagni per una durata maggiore, sia pure con importi inferiori per non creare disincenti­vi da dipendenza dal welfare, quelle persone che sono attive sul mercato del lavoro ma che hanno difficoltà di transizione da un lavoro all’altro più elevate, valorizzandone comunque, anche in ter­mini economici, lo stretto legame con il mercato del lavoro. E mantenendo invece il Reddito di cittadinanza come rete di ultima istanza, preva­lentemente diretto a nuclei familiari in cui non ci siano persone attivabili al lavoro.

Perché un sistema organizzato secondo questi diversi pilastri – rivisti in un’ottica integrata e sistemica – funzioni, occorre che la prestazione che si ottiene sia più elevata nel caso di sussidio di disoccupazione contributivo, per poi decrescere via via con quello assistenziale e con il reddito di ultima istanza. Un requisito difficile da ottenere nel contesto del mercato del lavoro italiano, caratterizzato da retribuzioni molto basse dei lavoratori precari, e con una diffusione drammatica di part time involontario, specie fra le lavoratrici donne che hanno ricevuto, durante il periodo pandemico, integrazioni red­dituali dalla CIGO per ammontari inferiori a quelli che si potrebbero ottenere con l’assegno sociale, e che ingrossano le file dei working poors beneficiari del Reddito di cittadinanza. Tanto che si è reso neces­sario prevedere, a fronte dell’incompatibilità fra le indennità erogate e la percezione del Reddito di cittadinanza, che le prime potessero esse­re integrate al fine di raggiungere, almeno, l’ammontare del secondo.

Molto problematica è infine la costruzione di adeguati ammortizza­tori sociali per i lavoratori autonomi. Si tratta di un insieme estre­mamente eterogeneo, che ricomprende figure di parasubordinati, false partite IVA, professionisti, lavoratori autonomi classici (arti­giani, commercianti, coltivatori diretti), lavoratori occasionali, per le quali non è rispettata la condizione standard su cui si basano gli strumenti tradizionali di integrazione salariale: un reddito ricorrente di importo noto. Ognuna richiederebbe adeguati approfondimenti, ma è indubbio che, soprattutto per quell’insieme di lavoratori che si collocano nella zona grigia al confine con il lavoro dipendente, come ad esempio i monocommittenti, un intervento di tutela non è più procrastinabile. Con la legge di bilancio per il 2021, il Parlamento, in via sperimentale, ha introdotto l’Indennità straordinaria di conti­nuità reddituale e operativa, ISCRO: un ammortizzatore sociale in costanza di lavoro per i lavoratori autonomi iscritti, in via esclusiva, alla gestione separata dell’INPS. Una caratteristica di questa prima forma sperimentale merita di essere sottolineata: l’ammortizzatore deve intervenire a fronte di una caduta del reddito significativa, ma poiché il reddito da lavoro autonomo è in larga parte erratico, non è facile definire il reddito di riferimento a cui commisurare questa caduta. Si tratta poi di un reddito in parte manipolabile, attraverso l’evasione fiscale e l’alterazione della distribuzione temporale di costi e ricavi. Per questa ragione l’ISCRO fa riferimento a un reddito medio di un periodo sufficientemente lungo (si deve registrare una caduta del reddito da lavoro autonomo di più del 50% rispetto alla media dei tre anni precedenti). La necessità di prevenire comportamenti oppor­tunistici agisce quindi a discapito della tempestività dello strumento.

L’ultima considerazione che vorrei fare è, a mio avviso, la più importan­te: le difficoltà incontrate nel disegnare una tutela per tutti i lavoratori che hanno perso reddito e lavoro a fronte della crisi pandemica sono in larga parte legate all’estrema frammentarietà e precarietà del merca­to del lavoro italiano. Questa coinvolge in misura maggiore proprio i settori più colpiti dalla crisi: turismo, cultura, spettacolo, sport, risto­razione, e segmenti particolari della popolazione, i giovani e le donne.

La molteplicità di contratti previsti per svolgere lo stesso lavoro ha reso necessaria una rincorsa di interventi che nonostante tutto sono risultati insufficienti, la­sciando aperte dolorose ingiustizie. Un esempio valga per tutti: sono state progressivamente rico­nosciute indennità nel settore del turismo e de­gli stabilimenti balneari ai lavoratori stagionali, sia direttamente assunti che somministrati, e ai lavoratori a termine, ma solo se direttamente as­sunti. Indennità sono state pure riconosciute agli stagionali di settori diversi da turismo e stabili­menti termali, ma solo se assunti direttamente. Nulla è stato attribuito ai lavoratori in sommi­nistrazione, a tempo determinato, del settore turismo e stabilimenti termali né ai lavoratori in somministrazione stagionale dei settori diver­si da quelli del turismo e degli stabilimenti termali. Nel settore del turismo, e della formazione, restano inoltre esclusi molti lavoratori autonomi occasionali (sotto i 5000 euro) che svolgono, in modo ri­corrente, ruoli quali quello di guide didattiche.

Si tratta solo di esempi che servono a sottolineare però il punto più importante di tutti: non si potrà mai realizzare un sistema di prote­zione universale e omogeneo se non si interverrà, prioritariamente, a ridurre la frammentazione eccessiva del mercato del lavoro, la pre­carizzazione del lavoro e la sua dequalificazione. Uno sfoltimento della giunga contrattuale, che favorisce il nascere di forme di lavoro atipiche e poco remunerate, è assolutamente necessario. Deve essere perseguito attraverso un rafforzamento del potere contrattuale dei la­voratori, a partire da una legge sulla rappresentanza, che aiuti a porre fine ai contratti pirata e ai fenomeni diffusi di caporalato.

In assenza di questo intervento, continuerà a crescere il lavoro povero e ciò che un tempo era assicurazione del reddito di lavoro a fronte del ri­schio di disoccupazione diventerà sempre di più necessità di assistenza.


[1] Si veda F. Carta, M. De Philippis, The impact of the COVID-19 shock on labour in­come inequality: Evidence from Italy, in “Questioni di Economia e Finanza”, n. 606, febbraio 2021, disponibile su www.bancaditalia.it/pubblicazioni/qef/2021-0606/ index.html.

[2] Ad esempio, per i lavoratori stagionali del turismo e degli stabilimenti termali si richiede di avere cessato un rapporto di lavoro fra il 1° gennaio 2019 e il 31 gennaio 2020; per quelli dello spettacolo, occorre avere versato almeno 7 contributi giorna­lieri al Fondo pensioni dello spettacolo nel 2019.

[3] Si veda F. Carta, M. De Philippis, op. cit.

[4] Si veda M. Franzini, M. Raitano, Quando svanisce il reddito da lavoro. Ipotesi di rifor­ma degli ammortizzatori sociali, in “Menabò di etica ed economia”, 15 luglio 2020, disponibile su www.eticaeconomia.it/quando-svanisce-il-reddito-da-lavoro-ipotesi-di-riforma-degli-ammortizzatori-sociali/.