Sud e lavoro: istruzione e produzione per spezzare i circoli viziosi

Di Giuseppe Provenzano Giovedì 28 Aprile 2016 15:01 Stampa

Negli ultimi anni di durissima crisi economica, che ha colpito il Sud più del resto del paese, le difficoltà di accesso al mercato del lavoro, caratteristiche dei livelli più bassi di istruzione, si sono diffuse anche tra giovani in possesso di un bagaglio di formazione robusto, in particolare nel Mezzogiorno. Si è determinata così un’enorme sottoutilizzazione di capitale umano, uno “spreco” di intelligenze, che comporta un inevitabile deterioramento delle conoscenze e un avvitamento nelle dinamiche del sottosviluppo. Ciò rivela che non basta investire soltanto in istruzione per uscire dalla trappola del sottosviluppo meridionale, e che invece, per superare la strutturale carenza di occasioni di lavoro qualificato al Sud, occorrono investimenti pubblici, politiche dell’innovazione e nuove politiche industriali mirate alla modifica del modello di specializzazione verso produzioni a maggior valore aggiunto e contributo di conoscenza.


Centocinquanta anni e più di questione meridionale rendono molto arduo ridurre una vicenda cosi profondamente inserita nelle pieghe della storia nazionale a letture semplificate, a interpretazioni univoche dei fenomeni e delle loro cause. Il Sud e un rompicapo, talvolta anche per chi lo studia, lo ama e lo vive. Eppure, se avessi a diposizione soltanto poche parole per descrivere il tema del Mezzogiorno oggi, senza dubbio direi che ridotto all’osso il problema essenziale e la strutturale carenza di occasioni di lavoro qualificato. Forse, rovesciando il punto di vista, come spesso accade con le cose del Sud, l’osservatore esperto delle questioni del lavoro giungerebbe alla stessa conclusione, e direbbe che il problema principale del lavoro in Italia e il Mezzogiorno. Da entrambi i punti di vista, si potrebbe mettere a fuoco un momento dopo che quando si parla di lavoro, di lavoro che non c’e, al Sud, si parla essenzialmente dei giovani e delle donne. I dati sono noti, forse pure troppo. Da mesi rimbalzano stravolti nei talk show, sui social network, a colpi di tweet, di repliche e controrepliche, i numeri diffusi dall’Istat, dall’INPS, dal ministero del Lavoro, in una gran confusione di fonti statistiche, periodi di riferimento, livelli e flussi. In questo contributo, proveremo a non inseguire i bollettini che mensilmente si rincorrono, ma a guardare alla dimensione un po’ più strutturale del fenomeno, nella convinzione che solo questo sguardo possa offrire una visuale all’altezza della dimensione reale del problema, necessaria per decidere come affrontarlo con politiche adeguate alla sfida.

LA “FRATTURA” TERRITORIALE HA AVUTO IL SUO EPICENTRO SUL LAVORO

La crisi che, almeno nella sua manifestazione più acuta, ci lasciamo alle spalle ha generalmente prodotto un insostenibile allargamento delle stesse diseguaglianze – generazionali, sociali e territoriali – che avevano contribuito a determinarla. E un paradosso, largamente determinato dal peso degli interessi costituiti e dal “trionfo delle idee fallite” che hanno segnato le politiche di austerità europee e nazionali nella crisi. Da noi, e stata l’idea (e l’interesse) di liberare la “locomotiva” del Nord dalla “zavorra” meridionale a determinare, con la crisi delle politiche di sviluppo (accompagnata persino da una certa “redistribuzione alla rovescia” di risorse pubbliche) e gli effetti “asimmetrici” della cosiddetta spending review, quel tracollo economico e sociale del Mezzogiorno che ora mina le possibilità di una solida ripresa dell’intero paese. La frattura sempre più profonda tra le due aree ha avuto il suo epicentro nel mercato del lavoro, il luogo in cui si combinano le diseguaglianze territoriali con quelle generazionali e di genere. Basta qui richiamare poche cifre, quelle che fornisce la Svimez, sulla base di elaborazioni sui dati Istat, suscitando ora troppo clamore, ora troppa indifferenza.

Nella crisi del 2008-14 al Sud si sono persi 576.000 posti di lavoro, oltre il 70% delle perdite complessive nazionali, mentre nel 2015 del Jobs Act e delle decontribuzioni si sono recuperati 94.000 posti di lavoro (di cui 37.000 a tempo indeterminato). Ma e una dinamica di più lungo periodo che ci fa cogliere la portata dei mutamenti avvenuti: l’occupazione al Sud e ancora sotto la soglia, che potremmo definire simbolica, dei sei milioni di occupati, ai livelli più bassi dal 1977, che e l’anno da cui partono le serie storiche ricostruite dall’Istat. Al milione e mezzo di disoccupati delle rilevazioni ufficiali bisogna aggiungere una quota di quasi due milioni di quella vasta “zona grigia” fatta di disoccupazione implicita e inattività “mascherata”: non un reale disinteresse al lavoro ma la ricerca estemporanea di lavori saltuari, attraverso canali informali se non di carattere clientelare in quel mercato del lavoro che, soprattutto nel Mezzogiorno, mercato non e. Vi e un pezzo di società, soprattutto di giovani, che scivola verso un’inattività “involontaria”, e un po’ più in la verso lo “scoraggiamento” a cercare lavoro, verso una marginalità sociale che, specie in alcune realtà, espone al ricatto e al richiamo della malavita. E stato ripetuto a ogni bollettino Istat sulla disoccupazione giovanile, fino a diventare una nenia, che “nella crisi a pagare sono stati i giovani”. Ma l’immagine più nitida del livello a cui siamo arrivati al Sud, ben oltre la congiuntura, emerge dal tasso di occupazione giovanile. Sono dati che non hanno paragoni in Europa: tra i 15 e i 34 anni lavora solo un giovane su quattro e, per quanto riguarda le giovani donne, ne risulta occupata appena una su cinque (oltre 20 punti in meno del Centro-Nord e 30 della media europea). E qui si registra l’aspetto decisamente più preoccupante: negli ultimi anni, infatti, le difficoltà di accesso al mercato del lavoro, caratteristiche delle Regioni meridionali e dei livelli di istruzione più bassi, si stanno diffondendo tra i giovani con livelli medio-alti di istruzione, per i quali, pero, emerge un fortissimo divario territoriale: il tasso di occupazione a tre anni dalla laurea lo scorso anno era del 31,9% nel Mezzogiorno, a fronte del 64,7% nel Centro-Nord, sostanzialmente in linea con la media europea. La progressiva emarginazione dei giovani anche istruiti dai processi produttivi, accentuata dalla crisi, e confermata dalla dinamica crescente dei giovani NEET, che nel 2014 hanno raggiunto i tre milioni e mezzo tra i 15 e i 34 anni: di questi, quasi due milioni sono donne (55,6%) e quasi due milioni sono meridionali, una buona meta dei quali diplomati e laureati. Si tratta di un’enorme sottoutilizzazione di capitale umano, uno “spreco” di intelligenze, che comporta un inevitabile deterioramento delle conoscenze: la persistenza in una posizione di esclusione dal mercato del lavoro e dal circuito formativo comporta la perdita/ obsolescenza del capitale umano acquisito, aggravata poi sul mercato del lavoro dal sospetto di scarsa motivazione che sorge nei datori di lavoro nei confronti di coloro che hanno sperimentato lunghi periodi di inoccupazione.

SE SI PERDE IL CAPITALE UMANO...

Il fenomeno di gran lunga più allarmante, in effetti, al Sud, e il rischio di depauperamento del capitale umano. Il punto di forza del Mezzogiorno, negli anni Duemila, era stato proprio l’ingresso in massa dei giovani all’università, quale leva per la modernizzazione dell’area: una vera e propria rivoluzione. Il tasso di passaggio dall’istruzione superiore all’università era l’unico indicatore in cui il Sud aveva raggiunto percentuali europee, e addirittura superato il Centro-Nord. Dalla seconda meta dello scorso decennio, invece, registriamo un’inversione di tendenza, accentuata dalla crisi, che riporta al dato di partenza, e rischia di vanificare i progressi compiuti e di ritardare la convergenza con il resto dei paesi avanzati, in presenza di divari ancora molto marcati. Le ragioni del vero e proprio crollo delle immatricolazioni all’università sono ovviamente molteplici, e non ascrivibili soltanto all’effetto combinato del calo demografico e della diminuzione degli immatricolati in età più adulta in conseguenza delle riforme di fine anni Novanta, ma hanno a che fare con fattori di natura economica e sociale. Nella pressochè generale assenza al Sud di un’adeguata politica del diritto allo studio, con la crisi ha pesato la difficoltà finanziaria per le famiglie di sostenere il percorso di studi universitari. Ma, assai probabilmente, tra le nuove generazioni sembra essere maturata l’idea che l’investimento in formazione, in conoscenza, non solo non basti (non basta per definizione), ma addirittura non serva, per l’incapacità del sistema produttivo di assorbire quelle risorse umane ben formate che, in mancanza di opportunità di lavoro all’altezza delle proprie competenze e delle proprie ambizioni, sono destinate allo “spreco” o, peggio, alla “fuga”.

Si, perche ben prima del drammatico brain waste, il Sud ha conosciuto in questi anni un brain drain di proporzioni impressionanti. Negli ultimi quindici anni sono andati via mezzo milione di giovani. Nonostante nella crisi il fenomeno abbia subito un rallentamento per effetto del peggioramento delle condizioni del mercato del lavoro (specie giovanile) anche nel resto del paese, esso permane in tutta la sua dimensione e si sposta sempre più verso l’estero. Il fatto più grave e che le “nuove” emigrazioni si inseriscono e si combinano con una tendenza demografica negativa più generale, fatta di minore incidenza delle migrazioni dall’estero e maggiore denatalità: abbandonato fortunatamente lo stereotipo della donna meridionale casalinga e prolifica si passa all’amara realtà di una donna meridionale non prolifica perche non lavora ed e gravata dalle insufficienze del sistema di welfare o, quando lavora, e penalizzata in termini di retribuzioni e di carriera. E la parte più dinamica e qualificata della popolazione che se ne va, la classe dirigente di domani. E sebbene le ragioni possano essere molte, e evidente che la determinante principale e lo scarto tra competenze acquisite e aspettative retributive e di benessere e la capacita del sistema produttivo locale di darvi risposta. Per citare un solo dato, tra il 2002 e il 2013, i laureati cancellati dalle anagrafi meridionali sono stati oltre 250.000. A essi si aggiungono coloro che lavorano altrove, ma che, un po’ per i progressi della mobilita, ma soprattutto per la precarietà del lavoro e le più modeste retribuzioni ricevute, mantengono la residenza (e la famiglia, quando ce l’hanno) nelle Regioni di origine. Una forma di emigrazione “precaria”, che nel solo 2014 riguardava oltre 120.000 persone, la gran parte diplomate e laureate, e che la statistica ufficiale un po’ beffardamente chiama “pendolarismo di lungo raggio”.

Quanto costa al Sud questa perdita di capitale umano formato dalle sue università? E un problema che pare si stia risolvendo a monte, nel verso peggiore, con una vera e propria fuga dalle università meridionali, in primo luogo verso le università del Centro-Nord e sempre più (benchè si tratti di un fenomeno di dimensioni minori) verso l’estero. La valutazione della spendibilità del titolo di studio sul mercato del lavoro – insieme ad altri fenomeni legati ad esempio alle scelte di politica universitaria degli ultimi anni, che hanno penalizzato il Mezzogiorno – sta portando ad anticipare, già al tempo della scelta universitaria, la decisione di lasciare il Sud. Per i giovani laureati meridionali si sono pressochè chiusi gli spazi occupazionali che storicamente aveva offerto la pubblica amministrazione, ora alle prese con problemi finanziari, mentre e del tutto insufficiente la presenza di imprese di medio-grandi dimensioni e dei servizi avanzati a esse collegati in grado di assorbire personale di livello formativo elevato. La perdita di tali professionalità per il Sud diventa doppiamente penalizzante: determina, da un lato, il fallimento economico dell’investimento formativo; dall’altro, il venir meno di energie e di competenze necessarie per innescare nel Mezzogiorno un processo di sviluppo stabile e adeguato alle (attuali) dimensioni demografiche dell’area. Un processo di sviluppo che restituisca liberta di scelta, che non renda l’emigrazione una necessita e che anzi renda l’area “attraente”, anche per il capitale umano dall’esterno. Il problema vero, infatti, per cui parliamo di brain drain, e proprio la mancanza di brain exchange: al Sud non si torna, il Sud non attrae.

ISTRUZIONE E PRODUZIONE: UN BINOMIO INSCINDIBILE

Il ritardo nello sviluppo delle Regioni meridionali sembra aver instaurato un circolo vizioso in base al quale i notevoli progressi conseguiti sul versante dell’istruzione – sicuramente in termini quantitativi ma anche in termini qualitativi (nonostante il permanere di divari nelle performance degli studenti, largamente ascrivibili all’influenza del retroterra familiare e sociale) – non sono riusciti a tradursi pienamente in maggiori e migliori opportunità di lavoro e in più elevati livelli di reddito e di produttività. Il sistema formativo e il mercato del lavoro hanno continuato a seguire per troppi anni traiettorie divergenti, con flussi quali-quantitativi crescenti da un lato, e sbocchi occupazionali decrescenti e orientati verso professionalità medio- basse dall’altro. Nella crisi, tutto questo si e accentuato. Dal lato dell’offerta di lavoro, nel 2008-14, gli individui attivi con titolo di studio elevato (laureati) sono cresciuti del 19,3%, mentre quelli con basso titolo di studio si sono ridotti del 33,7%. Analizzando il lato della domanda si osserva un trend opposto: nello stesso periodo, infatti, in Italia sono diminuite le quote di occupati in professioni che richiedono un titolo di studio alto o medio (rispettivamente –8,7% e –3,4%) ed e aumentata del 16,7% quella relativa alle professioni che richiedono un titolo di studio basso. Il fenomeno assume una marcata connotazione territoriale: e il Mezzogiorno che ha registrato la contrazione più importante della domanda di skills elevati (–14,1%). Ora, l’importanza del capitale umano per l’accelerazione dei processi di sviluppo e un dato acquisito. L’esperienza di lungo periodo propria del Mezzogiorno, del resto, conferma la profonda correlazione tra incremento dell’investimento in capitale umano e sviluppo, e tuttavia non permette di evidenziare quale sia il verso della correlazione. In ogni caso, oggi, nella nuova divisione internazionale del lavoro, se il Mezzogiorno non vuol risultare definitivamente spiazzato, deve necessariamente puntare sul rafforzamento del capitale umano della sua forza lavoro, valorizzando la sua importante dotazione e scongiurando i seri rischi di depauperamento che si stanno correndo.

Dai dati che abbiamo fin qui richiamato e evidente che il forte arretramento dei fattori economici – nella crisi e nella lunga fase di declino che l’ha preceduta – aggravando la strutturale carenza di occasioni di lavoro qualificato abbia determinato un certo depauperamento del capitale umano e quest’ultimo, a sua volta, abbia accentuato il ritardo di sviluppo dell’area. Ecco il circolo vizioso e, in questo quadro, l’opinione diffusa secondo cui per una politica di sviluppo efficace e sostenibile, che porti a uscire dalla “trappola” del sottosviluppo meridionale, sia sufficiente o auspicabile investire pressochè esclusivamente sulla scuola (o su pochi altri servizi essenziali: giustizia e sicurezza) nel migliore dei casi e un’illusione. Come una colpevole illusione e stata l’idea che bastasse l’istruzione a garantire pari opportunità e dunque un aumento dell’equità e una riduzione delle diseguaglianze, mentre oggi numerose analisi sul tema, non solo quella elaborata da Piketty, ci dicono che spesso si registrano forti diseguaglianze anche a parità di livelli di istruzione, che la conoscenza di per se non basta, perche le eredita familiari e geografiche, i vincoli di contesto e il retroterra socioeconomico sono determinanti nella trasmissione del sapere e nel consolidamento delle diseguaglianze. Misure di policy volte a incrementare l’offerta di competenze da parte dei nuovi entranti sul mercato del lavoro, se non accompagnate da un’adeguata evoluzione del tessuto produttivo, finirebbero per incrementare nel mercato del lavoro meridionale soltanto il livello di educational mismatch e l’under utilization dei giovani – per usare una formula opposta alla vulgata conservatrice che parla di over education rispetto alle esigenze del sistema produttivo. Una vulgata che, in un paese con livelli di scolarizzazione universitaria ben al di sotto della media europea, suona ridicola, prima che sbagliata: l’eccesso di istruzione non esiste, per definizione, o esiste solo se le esigenze del sistema produttivo vengono giocate al ribasso. Il punto e che se ci si pone (giustamente) il tema dell’istruzione, ma non ci si pone il tema dei meccanismi profondi di funzionamento della produzione, del trasferimento tecnologico e della creazione di valore, allora l’investimento in istruzione rischia di non bastare. Se vi e un apparato produttivo a basso contenuto di innovazione e conoscenza, e più facile che nel breve periodo il capitale umano fugga o si depauperi, piuttosto che nel medio-lungo riesca a modificare, senza ulteriori politiche, il modello di specializzazione. Istruzione e produzione sono un binomio inscindibile, e una lezione del meridionalismo, da Nitti in poi, che non dovrebbe essere dimenticata. Perche e evidente che quel circolo vizioso nel nesso scuola-lavoro va spezzato in più punti, sia sul versante della formazione che su quello della produzione.

CHE FARE?

E allora, che fare per il lavoro che non c’e è, dunque, per il Mezzogiorno? I primi segnali di inversione di tendenza registrati nell’ultimo anno sono dovuti in larga misura alla decontribuzione sulle nuove assunzioni, e al Sud sono stati relativamente più intensi e hanno riguardato anche i giovani. Tuttavia, rivelano anche una situazione paradossale: se in un’area cresce l’occupazione e ristagna il prodotto e il segno che vi e soprattutto una quota di emersione dal nero e che la produttività reale e più bassa di quella registrata finora. Il problema principale, quello della competitività, dunque permane e si aggrava. E non può essere certo affrontato con lo strumento delle decontribuzioni. Il raggiungimento al Sud non dico di un obiettivo che la sinistra sembra aver smarrito, e cioè la piena e buona occupazione, o degli obiettivi di occupazione iscritti nelle agende e nei libri colorati europei, ma anche soltanto dei livelli pre-crisi, sembra estremamente lungo e difficile. A fronte del livello strutturale di inoccupazione, non solo per ragioni sociali, ma anche per ragioni strettamente economiche, sembra improcrastinabile l’adozione di una misura universale di sostegno del reddito che, e sempre bene ricordarlo, nel consesso europeo manca solo in Grecia, oltre che da noi.

La portata della sfida del lavoro nel Mezzogiorno, insomma, e assai più ampia. E se pure il mercato del lavoro e senz’altro sensibile a politiche mirate, essa richiede una politica economica complessiva che favorisca l’aumento della domanda e gli investimenti in aree capaci di accrescere la produttività e l’innovazione, con un impegno specifico per le Regioni del Mezzogiorno. Ecco perche occorre senz’altro rilanciare – e adeguare alla dimensione dei bisogni, che al Sud sono maggiori – le politiche ordinarie per la formazione del capitale umano (invertendo la sistematica penalizzazione della scuola e delle università meridionali registrata negli ultimi anni). Senz’altro utile e necessario e il rilancio delle politiche attive del lavoro, mirate a favorire il (difficile) incontro tra domanda e offerta, specie nelle Regioni meridionali segnate dalle peggiori performance in termini di servizi per l’impiego e la formazione professionale, dall’aleatorietà dell’accesso al lavoro e dalla pervasività dei meccanismi di intermediazione impropria che tendono a manipolarlo. Ma senza una cornice strategica di politiche di sviluppo, senza un robusto rilancio degli investimenti pubblici, delle politiche dell’innovazione, di nuove politiche industriali mirate alla modifica del modello di specializzazione produttiva, verso produzioni a maggior valore aggiunto e maggior contributo di conoscenza, sarà difficile invertire quella tendenza profonda al “cambiamento della geografia economica, sociale e demografica del paese”, di cui come Svimez abbiamo dato conto nei Rapporti degli ultimi anni. E tempo di rilanciare politiche industriali che attivino processi di innovazione e internazionalizzazione, che consolidino e rafforzino l’esistente, ma soprattutto che favoriscano la penetrazione in settori “nuovi” in grado di creare nuove opportunità di lavoro (autonomo, dipendente e cooperativo), specie per i giovani a elevata formazione (tra cui spiccano, per capitale umano accumulato, le donne). Questo agirebbe positivamente su due fronti: da un lato, nel breve e medio periodo, metterebbe a disposizione del sistema produttivo il capitale umano formato dalle università e, dall’altro, in un periodo più lungo, incrementerebbe la competitività dell’area, favorendo un circolo virtuoso di aumento della domanda di innovazione e di capitale umano qualificato.

E tempo di rompere quel terribile “paradosso” dei giovani e delle donne meridionali: essere le punte più avanzate della “modernizzazione” e insieme le vittime di una società più immobile che altrove, e dunque più ingiusta, che finisce per “sottoutilizzare” o “espellere” le sue energie migliori, o a relegarle all’eccezionalità degli angoli di paradiso che ogni inferno nasconde. E senza la prospettiva del lavoro buono – che liberi dal ricatto del bisogno e ravvivi le forze migliori della società meridionale – la nascita di quella classe dirigente davvero nuova, essenziale per il Sud, diventa molto più difficile, se non impossibile.