Viaggio nella condizione del migrante

Di Marcella Lucidi Giovedì 19 Marzo 2020 16:48 Stampa

Sebbene il fenomeno migratorio sia già entrato nella storia recente delle democrazie occidentali e stia concorrendo a tracciarne il destino, il mestiere di studiarne le dinamiche, i dati, l’impatto sociale ed economico, per tentare di governare i cambiamenti in atto, pare essere ancora delegato a pochi. Questi analisti, così appassionati nell’approfondirne i limiti e le potenzialità, sono consapevoli di risultare scarsamente interessanti nel contesto di un dibattito asservito alla percezione piuttosto che alla realtà. Chi sa di dover maneggiare con cura un tema così complesso ha imparato, a proprie spese, che i toni bassi e l’invito al ragionamento sono facilmente destinati all’insuccesso, ancor di più quando le parole usate risultano impopolari, perché estranee ai codici di lettura semplificati ormai radicati nell’opinione pubblica.

L’amara constatazione della difficoltà di contrastare un pensiero maggioritario ostile, costantemente alimentato nelle piazze mediatiche, non consegna, tuttavia, alla rassegnazione, perché è quello stesso pensiero a persuadere di quanto sia necessario allargare lo spazio politico e culturale di una narrazione competente dei movimenti migratori, aderente ai fatti e per questo idonea a orientarli. All’osservatore attento non sfugge, infatti, quanto la riduzione del movimento migratorio dentro la categoria dell’inimicizia sia rispondente a una visione ideologica e quanto la costrizione del linguaggio e dell’immaginario collettivo nell’ingaggio di una difesa dei confini nazionali dallo straniero invasore – da considerarsi comunque criminale perché reo della propria diversità – sia la leva per agire e consolidare una torsione autoritaria e illiberale della democrazia. Siamo giunti al punto in cui una tale deriva è espressa in uno spettacolo quotidiano dalle forze politiche sovraniste e nazionaliste, in Italia come in Europa. Con l’intento di ampliare la platea del consenso, esse affidano a un sistema informativo poco incline a verificarne il messaggio, il loro mito di una identità incontaminata, preservata mediante relazioni che assicurino l’omogeneità del sangue, della lingua parlata, della fede praticata e del cibo condiviso a tavola.

Questa preoccupante esortazione a praticare una forma di autismo sociale addebita al migrante la responsabilità di ogni insicurezza, dirigendo così contro di lui i sentimenti negativi. Lo straniero che, portando con sé elementi significativi di conflitto, è perciò fonte di inquietudine, diventa il nemico di una comunità spaventata, scoraggiata verso qualsivoglia forma di coinvolgimento anche in spregio a un metodo democratico di partecipazione e di inclusione, fino al rifiuto della sua umanità. È da questa «paranoia sociale d’ispirazione razzista» che avvia la sua riflessione Marco Omizzolo nel suo “Essere migranti in Italia. Per una sociologia dell’accoglienza”.

Il libro è una buona occasione per conoscere e imparare a distinguere, nel più ampio orizzonte dei movimenti migratori che hanno interessato l’Italia, il percorso e l’esperienza compiuti nel nostro paese dai richiedenti asilo e dai rifugiati, ovvero da coloro che, secondo le direttive europee, hanno diritto di accedere alle procedure di protezione internazionale. La loro condizione ci rimanda alla Convenzione di Ginevra del 1951 e a quello specifico dovere di accoglienza e di tutela che è stato riconosciuto nell’articolo 10 della nostra Costituzione a ogni straniero al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche.

In ragione della fondamentale esigenza di assicurare a costoro il diritto di restare a vivere in una terra sicura, la legislazione si è sempre preoccupata di garantirne il percorso di inclusione mediante una riserva di norme, non confondibili con quelle destinate agli altri migranti, specie i migranti economici, dipendenti da presupposti diversi, idonei a consentire loro un motivato “soggiorno” nello Stato. Una distinzione così netta per l’ordinamento non è, tuttavia, riuscita a entrare nel sentire comune, abituato dagli organismi di informazione a confondere i percorsi migratori nelle immagini ricorrenti degli sbarchi, senza alcun riferimento ai contesti locali di origine e alle storie delle persone. Nel tempo, peraltro, la rinuncia delle maggioranze politiche a rendere effettivi e praticabili i canali di ingresso per i migranti economici ha fatto sì che anche costoro abbiano utilizzato la procedura di protezione internazionale per giustificare la propria permanenza sul territorio nazionale. La conseguente difficoltà nella gestione delle domande di asilo non è stata risolta, purtroppo, avendo a mente la tutela degli effettivi aventi diritto, bensì con un indebolimento delle garanzie ideate in loro favore a solo vantaggio dell’azione di contrasto all’immigrazione irregolare.

Osservando questa evoluzione da una prospettiva più globale, Marco Omizzolo invita a riflettere su quanto possa essere riduttivo e inattuale continuare a interpretare il fenomeno migratorio attraverso categorie che, nel tempo, hanno perso significato perché non rappresentano più la complessità della vicenda personale dei migranti. Egli osserva quanto la stessa tradizionale distinzione tra migrante economico e richiedente asilo stenti ormai a riassumere la varietà di cause che spingono gli esseri umani a lasciare il proprio paese o a rappresentarne le esperienze plurali di povertà, di sfruttamento, di violenza e di persecuzione vissute lungo i loro viaggi. Su un piano più strettamente politico, questa esortazione a non lasciar dipendere la gestione del fenomeno migratorio soltanto da elementi concettuali rigidi, ben conservati dentro un impianto normativo che – come sta accadendo – ne demanda la possibile interpretazione evolutiva alla sede giurisdizionale, può servire a comprendere non solo con quanta facilità e in quanto breve tempo sia misurabile la distanza tra la legge e una realtà in sé fortemente dinamica, ma quanto occorra compiere un passo verso una governance dell’immigrazione che sappia integrare strumenti più duttili di valutazione e di intervento, senza avere altro vincolo di fedeltà che sia diverso dai principi costituzionali.

Questa esigenza diventa di stringente attualità ove si rifletta sui guasti prodotti nel complessivo sistema di accoglienza italiano dalle logiche securitarie del ministro Salvini che, nel primo governo Conte, ha imposto all’azione dello Stato e dei suoi apparati i contenuti di una propaganda diretta a fermare fuori dai confini una parte dell’umanità considerandola in esubero, senza diritti e perciò soltanto intollerabile e inutile.

L’obiettivo di realizzare “meno arrivi, meno diritti per chi arriva, più espulsioni”, agitato nei comizi e agito in forza di una maggioranza parlamentare, ha segnato un passaggio storico nelle politiche migratorie italiane, da sempre orientate a contrastare l’immigrazione irregolare nella più ampia prospettiva di una regolamentazione dell’ingresso e dell’integrazione degli immigrati regolari e delle componenti meritevoli di protezione. I due Decreti sicurezza (decreto legge 113/2018 e decreto legge 53/2019) sono stati la cifra della rinuncia a un governo complessivo dell’immigrazione nel nome di un’aperta ostilità contro tutti i migranti e contro tutte le organizzazioni disponibili a prestare loro soccorso o sostegno. I due provvedimenti costituiscono, come spiega Omizzolo, «uno spartiacque pericoloso tra un prima migliorabile e un dopo orientato alla sottoqualificazione del sistema d’accoglienza», realizzata mediante «prassi e procedure restrittive, servizi alla persona gravemente sottodimensionati e abbattimento dei diritti riconosciuti, contribuendo a rafforzare quell’esercito di riserva informale che è a disposizione di interessi criminali».

Lo stesso Omizzolo ne dà prova nel suo libro con una disamina attenta delle scelte normative adottate nei decreti sicurezza: la cancellazione della protezione umanitaria, il taglio delle risorse economiche a solo svantaggio dei servizi di inclusione, il ridimensionamento del sistema di protezione (SPRAR), la riserva della seconda accoglienza soltanto ai beneficiari della protezione internazionale, l’incentivazione delle grandi strutture collettive a svantaggio della prossimità delle più piccole e dell’assistenza diffusa. Queste soluzioni non riguardano più e soltanto le prospettive dell’altro da sé – il migrante – perché a uscirne indebolito è stato il sistema democratico del nostro paese che, nella relazione con detta alterità, ha perso coerenza con i suoi valori fondamentali. La decisione di prendere, al più presto, le distanze da politiche migratorie ridotte a una strategia coercitiva di controllo sociale serve a contrastare, prima di tutto, «il tentativo di revisionare la Costituzione di fatto vigente e le sue radici di ispirazione storica e valoriale riavviando e riprogrammando il senso dello stare insieme e dell’essere comunità».
A tal fine, sarebbe utile recuperare tra le pagine del Testo unico sull’immigrazione le residue tracce di quelle intuizioni illuminate che affidarono la relativa disciplina a una programmazione dinamica dei flussi d’ingresso e dei percorsi di inclusione, verificata attraverso una analisi costante e partecipata dei processi sociali ed economici esterni e interni. Ormai da tempo è questione evidente la impraticabilità delle regole per l’ingresso regolare dei migranti, dipendenti dalla premessa irrealistica di un incontro a distanza tra domanda e offerta di lavoro: è incomprensibile e ingiustificabile la rinuncia a ragionarne mentre, per terra e per mare, gli immigrati continuano a entrare per lavorare in condizioni di irregolarità e di sfruttamento e in assenza di progetti di integrazione.

Nell’ottica di un futuro non inevitabile, tornerebbe altrettanto utile viaggiare a ritroso nel sistema italiano ideato per i richiedenti asilo e i rifugiati decidendo di recuperare e potenziare quella positiva «architettura dell’accoglienza costruita faticosamente in venti anni» che i decreti sicurezza hanno voluto demolire. È proprio con questo specifico intento che Marco Omizzolo si sofferma a lungo nella descrizione di progetti che, segnando positivamente l’esperienza di diverse comunità locali, hanno sviluppato in tanti territori sparsi del nostro paese una diversa sociologia dell’immigrazione, una “sociologia dell’accoglienza” per l’appunto. Si tratta della narrazione di una realtà e quindi di una narrazione possibile. Tante e diverse buone pratiche hanno evidenziato come esistano le condizioni per ribaltare dal basso la condizione di forte marginalità verso la quale molti stranieri sono stati spinti in ragione di una falsa esigenza di protezione del corpo sociale. Queste stesse buone pratiche possono perciò essere un valido antidoto alla paura e al rancore che attraversano le comunità, mettendo a fattor comune le conoscenze e le competenze delle amministrazioni locali, della società civile e di singoli cittadini. Resta allora da restituirle a un sistema che ne liberi le potenzialità assicurando le risorse necessarie.

M. Omizzolo, Essere migranti in Italia. Per una sociologia dell’accoglienza, Meltemi, Milano 2019.