La rivoluzione identitaria ed elitaria di Mohammed bin Salman in Arabia Saudita

Di Eleonora Ardemagni Mercoledì 18 Marzo 2020 12:27 Stampa

L’Arabia Saudita vive una rivoluzione identitaria dagli esiti incerti. Una rivoluzione dall’alto, che si lega inestricabilmente al destino del suo demiurgo, il trentaquattrenne principe ereditario nonché ministro della Difesa Mohammed bin Salman Al-Saud (MbS per molti media internazionali). Tale impeto rivoluzionario si abbatte sui rapporti interni alla dinastia reale e all’establishment saudita, sulla struttura economico-sociale-culturale del regno, sulla politica estera e di difesa di Riyad. Insomma, è la stessa identità dell’Arabia Saudita – come l’abbiamo fin qui conosciuta e studiata – a essere al centro di un vorticoso divenire. Riyad vuole presentarsi al mondo con un volto rinnovato: più militarmente assertiva, meno rigidamente wahhabita, consapevole della sua storia preislamica, più flessibile nei confronti dei diritti delle donne, aperta al turismo internazionale e all’industria del divertimento. Le contraddizioni sono però innumerevoli. Di certo, la rivoluzione di MbS è una “modernizzazione dall’alto”, come sempre accaduto nella storia saudita moderna e dei sistemi autoritari più in generale. A differenza del passato, questa rivoluzione identitaria è però “non consensuale”, poiché imposta all’interno della dinastia degli Al-Saud e del tradizionale blocco di potere religioso-tribale; essa è altresì “elitaria”, rivolgendosi soprattutto alla parte più giovane, urbana, istruita, dinamica e globalizzata del paese.

Mohammed bin Salman, non ancora re, ha scelto di giocare tre partite contemporanee e intrecciate, ovvero successione al trono, trasformazione economica post idrocarburi ed egemonia mediorientale: il rischio del cortocircuito esiste. La modernizzazione dall’alto può generare malcontento trasversale (jihadisti, conservatori delle periferie del regno, sciiti sauditi, epurati dall’establishment e vecchie clientele) e necessita dunque, agli occhi del principe ereditario, di un forte controllo sociale. Non è dunque un caso che prosegua la repressione degli attivisti e delle attiviste, delle voci critiche, nonché delle potenziali fonti di dissenso dentro la famiglia reale. Tuttavia, bin Salman sembra doversi guardare soprattutto da un contesto regionale e internazionale incontrollabilmente sfavorevole a “Vision 2030”, il piano di diversificazione economica che dovrebbe autonomizzare il regno dalla rendita petrolifera, generando anche posti di lavoro per i giovani sauditi. La fisiologica lentezza della trasformazione post oil, la diffidenza della “comunità occidentale” acuita dal caso Khashoggi, la probabile contrazione nel breve-medio periodo degli ingenti investimenti cinesi e asiatici (nonché del turismo) per effetto del coronavirus e il crollo del prezzo del petrolio rappresentano, infatti, minacce assai più insidiose per la riuscita della rivoluzione identitaria targata MbS. Quindi per il consolidamento della sua stessa leadership.

PERSONALIZZAZIONE: LA NUOVA IDENTITÀ DEL POTERE SAUDITA

L’Arabia Saudita è in mutamento. La formale e graduale liberalizzazione dello spazio sociale (ad esempio riduzione dei poteri della polizia religiosa, diritto di guida per le donne, riapertura dei cinema) si accompagna all’accentramento nonché alla personalizzazione del potere. Riyad è una monarchia assoluta, ma da decenni ha smesso di essere il regno “di un solo uomo”. Infatti, da re Fahd (1982-2005) in avanti l’Arabia Saudita, monarchia formalmente monocentrica, si è progressivamente avvicinata a un modello caratterizzato da cerchi di potere intra-dinastici che coesistono e interagiscono tra loro nell’individuazione degli interessi oligarchici, nonché nella costruzione del processo politico-decisionale. Mohammed bin Salman sta invece archiviando tale prassi, modificando così la struttura informale del potere: è questa la prima rivoluzione identitaria, che attiene all’identità del potere saudita. Infatti, il principe ereditario controlla, allo stesso tempo, i dossier economici e di sicurezza: egli è ministro della Difesa, capo del Consiglio supremo di Saudi Aramco, segretario generale della corte reale, capo del protocollo reale, consigliere speciale del re, capo del consiglio per gli affari economici e dello sviluppo, supervisore della Presidenza della sicurezza dello Stato istituita nel 2017 (organismo che raggruppa intelligence interna e antiterrorismo, con investimenti in cybersecurity, e riferisce direttamente alla corte reale). Proprio nel settore della sicurezza, MbS ha dato il via a un percorso di convergenza securitaria fra esercito e Guardia nazionale: due istituzioni che hanno svolto finora una funzione di controbilanciamento. Ciò è avvenuto nel 2017 con la sostituzione del principe Mitaeb bin Abdullah Al-Saud, capo della Guardia nazionale, nonché dei vertici di Guardia reale e forze armate. Giovani ufficiali fedeli a Mohammed bin Salman sono poi stati promossi nei ranghi dell’esercito. Nel marzo 2020 il principe ereditario ha ordinato l’arresto di alcuni membri di spicco della famiglia reale, accusati di “indisciplina” e, più verosimilmente, di opporsi all’ascesa al trono di MbS. Un copione già visto con la restrizione della libertà per il principe Mohammed bin Nayef (nonché cugino e già numero due in linea di successione) nel giugno 2017 e gli arresti del Ritz-Carlton di Riyad (novembre 2017). Stavolta, la detenzione – tra gli altri – dei principi Ahmed bin Abdulaziz e del figlio Nayef bin Ahmed conferma come Mohammed bin Salman stia marginalizzando, con l’implicito assenso dell’ottantaquattrenne padre Salman bin Abdulaziz, i potenziali ostacoli, nella famiglia reale e nelle forze di sicurezza, alla sua ascesa. Infatti, Ahmed bin Abdulaziz è l’ultimo e più giovane fratello (78 anni) del re, uno dei tre membri del Consiglio di fedeltà (Hayat al-baya/Council of allegiance) che nel 2017 votarono contro la nomina di MbS a erede al trono; Nayef bin Ahmed ha invece ricoperto ruoli importanti nell’esercito, nell’intelligence militare e nel ministero degli Interni. Segno che il principe ereditario ha sempre “mano libera” dentro il Palazzo e può ancora marginalizzare chi provi a ostacolarne l’ascesa al trono.

NAZIONALISMO, ANCHE MILITARISTA. COME CAMBIA L’IDENTITÀ GEOPOLITICA E CULTURALE DI RIYAD

Nelle scelte politiche e nei discorsi pubblici, Mohammed bin Salman sta provando a ridisegnare l’identità culturale del regno. Infatti, l’Arabia Saudita di domani si presenta come un paese meno religiosamente connotato e più nazionalista. Tale mossa permette di stemperare la pervasività del wahhabismo nella percezione pubblica (vedi il ruolo della mutawa, la polizia religiosa, ridimensionato per decreto reale nel 2016) e, al contempo, di diluire ulteriormente le differenze confessionali (minoranze sciite duodecimane e ismailite) e locali (periferie del sud e dell’ovest), in nome della leadership centralizzante di MbS. Nel solco dei predecessori Fadh e Abdullah (2005-2015), Mohammed bin Salman sovrappone la cultura del Najd, la regione centrale di provenienza della dinastia degli Al-Saud, a quella dell’intera Arabia Saudita, oscurando così la pluralità culturale del paese (ad esempio, il crocevia di popoli dell’Hijaz, la regione orientale sciita di Qatif e Al-Ahsa, il sud a presenza ismailita di Jizan, Asir e Najran). Ma a differenza dei precedenti sovrani, la dinastia degli Al-Saud e l’Islam, seppur fondamentali, fanno da sfondo alla leadership proposta – e imposta – da MbS.1 La rivalutazione del periodo anteriore alla nascita dell’Islam, ad esempio con l’apertura turistica di luoghi simbolici della civiltà nabatea come al-Ula, nonché l’introduzione nei libri di testo della storia dell’Arabia preislamica, vanno in questa direzione.

La dinastia degli Al-Saud è custode dei luoghi santi dell’Islam, ovvero Mecca e Medina: la religione è stata, ed è, la prima fonte di legittimità familiare e di stabilità interna. Ma a differenza del recente passato, adesso Riyad coltiva anche il senso di nazione: identità e appartenenza nazionale rafforzano la coesione sociale, necessaria in una fase di trasformazione economica che richiede adattamento, senso del dovere e del sacrificio. L’orgoglio nazionale diventa così manifestazione dell’obbedienza alla leadership. Infatti, l’esito della modernizzazione post oil dell’Arabia Saudita dipende anche da un cambio di mentalità e di autopercezione: infatti, i sauditi sono chiamati a uscire dall’agio dello Stato della rendita (rentier state), rimanendo però fedeli allo stesso modello politico autoritario.

Nelle scuole saudite, i nuovi libri di testo descrivono le caratteristiche del “buon cittadino saudita”: egli è – o meglio dovrebbe essere nei desideri della nuova leadership – «una persona che si comporta bene e segue gli insegnamenti dell’Islam moderato, ha un forte senso di appartenenza, lavora duro e gioca un ruolo attivo nella promozione degli obiettivi di prosperità del paese».2 Dunque, Mohammed bin Salman aspira a essere l’icona del nazionalismo saudita per ridurre i rischi che l’operazione “cambiamento economico-sociale in cambio di continuità politica” comporta. L’intento pedagogico, declinato in senso nazionalista da MbS, si intravede allora negli echi militaristi (esercitazioni e parate militari), nei futuristici progetti architettonici (le nuove città come Neom o i villaggi a vocazione turistica nelle isole del Mar Rosso), nonché nei richiami alla tradizione popolare (festival, poesie e canzoni patriottiche, dedicate anche ai soldati caduti in Yemen).3

In questo contesto, è allora più facile comprendere perché, al di là delle dinamiche esterne, la politica estera saudita mostri segni di discontinuità. Infatti, la conservazione degli equilibri mediorientali non è più il motore unico della politica saudita: Riyad gioca adesso un ruolo attivo nella ridefinizione dell’assetto regionale. Il regno degli Al-Saud percorre dal 2015 un “doppio binario” di politica estera, coniugando patronage finanziario-ideologico e interventismo militare. La politica estera del regno wahhabita, tradizionalmente conservatrice, non è mai stata così assertiva e interventista: la partecipazione dell’Arabia Saudita al conflitto in Yemen, paese nel quale Riyad interviene militarmente dal marzo 2015, rende evidente questa svolta. La guerra in Yemen, senza vincitori militari e con quasi 100.000 vittime, sintetizza efficacemente le tre direttrici della politica estera saudita targata Mohammed bin Salman: la settarizzazione della politica di potenza e delle alleanze in chiave anti Iran, il tentativo (fallito) di egemonizzare il campo sunnita, la proiezione geostrategica verso est e verso sud.

Infatti, i sauditi sono intervenuti in Yemen dopo il colpo di Stato degli insorti huthi (movimento-milizia sciita zaidita del nord), avvenuto nel gennaio 2015, accusandoli di essere manovrati dell’Iran. Tuttavia, il sostegno politico e militare di Teheran agli huthi è cresciuto solo dopo che i sauditi avevano avviato l’intervento militare, che ha quindi spinto gli insorti yemeniti a cercare l’appoggio iraniano contro i sauditi. In Yemen, Riyad non è riuscita a unire il fronte sunnita. Dopo la rottura dei rapporti diplomatici con il Qatar (2017), i sauditi hanno espulso le forze militari qatarine che facevano parte della missione; gli Emirati Arabi Uniti (EAU), alleati dei sauditi e responsabili delle operazioni di terra e di contrasto al terrorismo jihadista nel sud del paese, sono riusciti a ricavarsi un notevole spazio d’influenza geopolitica organizzando e addestrando milizie yemenite meridionali dalle simpatie secessioniste nonché salafite. Resistendo alle sollecitazioni di Riyad, l’Egitto e la Giordania non hanno mai inviato truppe (ma solo, rispettivamente, navi militari a protezione del Mar Rosso e aerei militari per i bombardamenti) e il Marocco ha ritirato nel 2019 le poche unità militari presenti nel paese. L’intervento militare in Yemen ha inoltre accelerato la corsa dell’Arabia Saudita, e delle vicine monarchie del Golfo, al Corno d’Africa, mediante investimenti in infrastrutture civili-militari, accordi commerciali e di difesa. La partnership tra Arabia Saudita e Cina, da cui dipendono parte delle risorse finanziarie per la realizzazione di “Vision 2030”, trova interessi convergenti anche nel quadrante tra Golfo e Corno. Infatti, le coste e i porti yemeniti (compreso il remoto arcipelago di Socotra) sono trampolini di proiezione geostrategica verso le vie marittime dell’Oceano Indiano occidentale (Mar Rosso, stretto del Bab el-Mandeb, Golfo di Aden, Mar Arabico), le stesse in cui la Cina ha disegnato la sua Via della Seta.

I RISCHI INTERNI DI UNA RIVOLUZIONE IDENTITARIA ELITARIA

Le riforme verticali e radicali somministrate da Mohammed bin Salman hanno fin qui incontrato il favore dei giovani sauditi, la fascia numericamente più significativa della società. Secondo i dati del “Saudi Youth Development Survey” pubblicato nel 2019, il 67% della popolazione saudita ha tra 0 e 34 anni: il sondaggio restituisce l’immagine di una gioventù saudita fortemente concorde con gli ideali di “patriottismo”, “responsabilità”, “tolleranza” e “senso del dovere” proposti dalla nuova leadership.4 Al di là degli aspetti propagandistici, il progetto narrativo di MbS è chiaro e i giovani sauditi sono il target della rivoluzione identitaria in corso. Tuttavia, il nazionalismo del principe ereditario non è inclusivo, dal punto di vista confessionale e geografico, e si rivela altresì selettivo. Il messaggio di trasformazione identitaria, che si riflette nelle scelte economiche, sociali, geopolitiche e culturali del regno, si rivolge alla gioventù urbana, istruita e più aperta nei confronti delle implicazioni sociali, comunicative e di costume della globalizzazione. Di conseguenza, esso esclude implicitamente le fasce più periferiche, rurali, conservatrici e religiose della società saudita.5 La rivoluzione identitaria di Mohammed bin Salman presenta dunque una connotazione elitaria e potrebbe, in caso di esiti deludenti, accentuare le differenze sociali interne e generare fenomeni di rigetto. Una polarizzazione sociale che si sommerebbe alle tensioni dentro la dinastia reale e con il patto religioso-tribale che regge l’Arabia Saudita. Il principe ereditario sta giocando tre partite difficili e intrecciate: successione, diversificazione economica, egemonia mediorientale. Il sentiero è più che mai stretto.


[1] Si veda la riflessione di F. Dazi-Héni, How MbS Rethinks Saudi Nationalism, in E. Ardemagni (a cura di), Identity-Seekers: Nationhood and Nationalism in the Gulf Monarchies, ISPI Dossier, maggio 2019.

[2] Si rimanda all’interessante articolo di E. Alhussein, New Saudi Textbooks Put Nation First, Arab Gulf States Institute in Washington, 17 ottobre 2019.

[3] Si veda E. Ardemagni, Gulf Monarchies’ Militarized Nationalism, Carnegie Sada, 28 febbraio 2019.

[4] Arab News, Young Saudis: We value responsibility, hard work, tolerance and justice, 31 dicembre 2019.

[5] Si veda il reportage di M. Chulov, Young vs old, urban vs rural: cultural reforms expose Saudi fault lines, in “The Guardian”, 6 dicembre 2019.