Questione di stile, a destra e a sinistra

Di William Ward Venerdì 10 Febbraio 2012 13:40 Stampa

Da Churchill a Cameron, da Clinton a Bush e Obama, dalla sinistra ex comunista italiana a quella dei paesi dell’Est europeo, senza tralasciare i casi emblematici di Margaret Thatcher e Silvio Berlusconi, innumerevoli sono gli esempi di esponenti politici alle prese con il tentativo di individuare un look coerente con il loro messaggio politico. Esiste ancora uno stile distinto fra destra e sinistra? Esistono codici leggibili da seguire?

Si racconta che nel 1946, durante il tragitto che lo conduceva dall’aeroporto al Westminster College della città di Fulton, in Missouri, per pronunciare il suo storico discorso sulla “cortina di ferro” che era a suo parere calata sull’Europa, Sir Winston Churchill abbia chiesto all’autista di fermarsi un momento prima di entrare in città. Pare che il vecchio statista sia sceso dalla Cadillac decappottabile e, frugando nel portabagagli fra le sue borse, abbia tirato fuori uno dei suoi famosi sigari, che l’abbia messo in bocca senza accenderlo, e così, risalito in macchina, abbia continuato il percorso trionfale verso la sede del college, salutando con il braccio le migliaia di cittadini curiosi ed entusiasti che erano scesi in strada per vedere in carne e ossa il grande salvatore del mondo libero.

Alla domanda del suo accompagnatore, il rettore del college, circa il motivo per cui avesse voluto tirar fuori il sigaro se non aveva intenzione di fumarlo, il sornione statista britannico rispose: «La gente che mi viene a vedere vuole che io sia esattamente come mi aveva immaginato, cioè come mi ha visto in foto (sempre vestito un po’ all’antica, con il vestito a tre pezzi, l’Homburg – un particolare tipo di cappello n.d.r.), con il sigaro in bocca. E io non li voglio deludere». Churchill era un uomo intuitivo: aveva capito forse prima di qualsiasi altro politico occidentale il preciso significato di quello che in Italia negli anni Ottanta sarebbe stato definito “look”, ossia il modo di presentarsi visivamente in maniera coerente e consona con la propria political narrative (il percorso morale e politico di una persona o di un partito) allo scopo di rafforzare il proprio messaggio.

Churchill era un membro del ceto aristocratico, di lignaggio antico e glorioso (un suo avo, il primo duca di Marlborough, era stato a capo del vittorioso esercito britannico nel Settecento), ma era politicamente un maverick – aveva più volte cambiato partito, da conservatore a liberale e poi di nuovo tory, e aveva sempre fatto la fronda all’interno del suo partito del momento – e questo stile politico un po’ nonchalant si rifletteva nel suo modo di presentarsi. A differenza di altri colleghi tory della generazione postbellica, sempre eleganti nei vestiti sartoriali di Savile Row (la via londinese dei grandi sarti maschili), Churchill sembrava un po’ raffazzonato. Per sottolineare il carattere eccentrico indossava molto spesso, durante gli anni drammatici della seconda guerra mondiale, un boiler suit, ossia una tuta da operaio fatta su misura in velluto color vinaccia; in testa, un elmetto d’ordinanza anti raid aereo. Data la corpulenza, l’effetto generale ricordava i Teletubbies.

Tanto lo stile eccentrico o da gran dandy di Churchill – come di alcuni high tories della vecchia scuola e di determinati loro eredi contemporanei –, quanto quello dei suoi avversari laburisti di vecchio stampo, molto sobri e a volte un po’ tetri nella loro frugalità, risalgono a secoli addietro, ai tempi della guerra civile inglese fra i “Cavaliers” – i seguaci aristocratici del re – e i “Roundheads” – ossia i puritani capitanati da Oliver Cromwell.

Diversamente dal ceto militare aristocratico prussiano dei Junkers – sempre vestiti con piglio severo e soldatesco – la classe dirigente conservatrice inglese (in politica ma anche in altri contesti) ha privilegiato uno stile elegante ma disteso, bien dans sa peau, pavoneggiandosi senza complessi: un atteggiamento molto evidente nel modo di presentarsi dei due massimi esponenti del partito conservatore odierno. Sia il premier David Cameron che il Cancelliere dello Scacchiere George Osborne palesano una rilassatezza nell’abbigliamento che è coerente con il loro background: in netto contrasto con lo stile spesso scialbo e goffo dell’ultimo premier laburista, lo scozzese presbiteriano Gordon Brown.

In buona parte dei paesi nordeuropei di cultura protestante, la tradizione socialista e operaia è stata fortemente influenzata dalla religione, dando agli storici partiti della sinistra un tratto di particolare rigore – e semplicità – nel vestire non sempre presente nei partiti fratelli dei paesi mediterranei e/o di cultura cattolica e latina; una delle frasi rimaste più celebri del libro sull’Italia di Luigi Barzini Jr. è la descrizione delle scarpe di lusso dei dirigenti del PCI: «Communists with handmade shoes». Senza dubbio la relativa eleganza di molti esponenti (soprattutto uomini) dei vari partiti della sinistra italiana, specialmente a partire dagli anni Ottanta, ha preceduto di almeno un decennio la scoperta del ben vestire da parte dei compagni nordeuropei.

A prescindere dal golfino di cashmere molto sfoggiato da deputati, senatori e assessori regionali, provinciali e comunali di sinistra – che risulta quasi una scelta “patriottica” vista la rilevanza dell’industria della lana in Italia –, c’è una crescente tendenza nel ventennio seguito allo scioglimento del PCI ad affettare a sinistra uno stile inglese che, se non fosse per la perfetta tenuta dell’insieme (galeotta un’invisibile mano femminile di servizio?) poco tipica degli inglesi (sia politici che cittadini comuni), farebbe piuttosto pensare a politici di destra.

Se i politici italiani e mediterranei di tutte le tendenze politiche (e se ne notano sempre meno le sfumature: dopo tutto, come disse Massimo D’Alema «siamo ormai tutti liberali») mantengono una certa eleganza latina formale e a volte un po’ vanitosa, il loro rapporto con il casual rimane problematico.

Sebbene le varie categorie sociali e culturali associate con la sinistra nei paesi mediterranei – operai, intellettuali, creativi, studenti e “giovani” (categoria che nella gerontocratica Italia si estende quasi ai cinquantenni) – adoperino i loro rispettivi dress codes poco impegnativi, ai politici risulta sempre difficile vestire casual e risultare allo stesso tempo autorevoli. Malgrado l’esempio pionieristico e quasi eroico di Walter Veltroni di adottare per molti anni il look disimpegnato vagamente kennediano della camicia blu button down della Brooks Brothers (uno stile passato poi di moda), il politico italiano, per consolidati motivi storici, in abito sportivo o informale perde di credibilità. Il ripetuto tentativo da parte di Romano Prodi di esibirsi pubblicamente in tuta da jogging, come se tale mise gli conferisse quell’aspetto giovanile e sportivo che decisamente gli manca, è forse l’esempio più allarmante di questa tendenza.

Come politica aziendale, il dress down Friday – vestirsi casual il venerdì, come se si fosse in partenza per il weekend – ha avuto varia fortuna a seconda dell’azienda e del paese: in alcuni l’ethos aziendale era tale da poter sprigionare una maggiore creatività quando il vestito blu si scambiava per chinos, camicia con colletto sbottonato e scarpe da ginnastica; in altri invece il relativo disimpegno ha suggerito una fatale mancanza di “working spirit”, con magri risultati per la contabilità aziendale.

E così anche in politica: il presidente democratico Bill Clinton è riuscito molto bene a rappresentare il suo brand politico (affabile, spontaneo, alla mano, geniale, persino un po’ disorganizzato) attraverso la divisa da weekend che la maggior parte degli americani indossa. La sua statura fisica e il particolare carisma personale hanno consentito che non cadesse nella trappola del ridicolo di cui sopra.

Ma nessuno dei due successivi candidati democratici alla presidenza, Al Gore e John Kerry, ha avuto la scioltezza o la vocazione un po’ teatrale per riuscire nella stessa impresa. Il patrizio Gore, rampollo della famiglia più ricca e potente del Tennessee, durante la sua campagna elettorale contro George W. Bush, ha ingaggiato la scrittrice femminista Naomi Wolf per la favolosa somma di 15.000 dollari mensili affinché lo vestisse “giusto”, ma con risultati disastrosi. Goffo e legnoso, il casual gli stava addosso ancora peggio del vestito blu. In netto contrasto con un altro presidente carismatico e populista, Ronald Reagan, sempre impeccabile e presidenziale sia in abito blu che in giacca di tweed, persino quando la qualità dei suoi discorsi suggeriva il contrario. Un po’ come Churchill e un po’ come Clinton, da bravo attore, “the Gipper” sapeva anche indossare il casual con aplomb: quando andava a cavallo, o giocava a golf, sembrava un modello da catalogo per indumenti sportivi per la terza età.

È da notare come il suo più fedele emulo o equivalente italiano, Silvio Berlusconi, abbia interpretato (in modo più subliminale che palese) alla perfezione il suo ruolo da imbonitore-premier, sempre indossando un doppiopetto blu Caraceni con una cravatta a pois di Marinella, con variazione minima (il che richiede una autodisciplina considerevole), ma al contrario, nei momenti casual o sportivi, si sia presentato in modo poco convincente, tanto da rasentare inavvertitamente il registro comico: in tenuta da tennis o in tuta da jogging – per tacere della bandana copricalvizie – il risultato suggeriva un uomo (e quindi un intero progetto politico) poco credibile.

Eppure negli anni Ottanta sono stati due politici di sinistra mediterranei – Bettino Craxi e lo spagnolo Felipe González, entrambi primi presidenti del Consiglio socialisti dei loro rispettivi paesi – a sperimentare con discreto successo in diverse uscite pubbliche l’uso del giubbotto di pelle al posto della giacca. Con questo gesto hanno anticipato i leader degli altri paesi europei, persino laddove vige una democrazia più “compiuta”: loro imitatore fu il premier socialdemocratico svedese, Olof Palme.

Se indossare o meno la giacca – o togliersi o meno la cravatta – continua ad essere un tormentone anche negli Stati Uniti, dove quell’“inseguimento della felicità” (e quindi l’informalità nell’abbigliamento) è iscritto nella Costituzione. Dopo gli otto anni “caotici e ineleganti” della presidenza Clinton, George W. Bush ha dichiarato di voler «riportare la dignità nello Studio ovale» e quindi imporre uno stile più sobrio e autorevole all’incarico più alto del paese. Come il predecessore Reagan, Bush è stato molto attento a che il suo abbigliamento fosse adeguato alla situazione quando era nell’esercizio delle sue funzioni (essendo sempre in ottima forma fisica ha indossato bene i suoi completi), ma come Reagan ha avuto anche una divisa casual tutta sua e “autentica”: quella da cowboy texano, che ha mantenuto con mirevole disciplina. E come Reagan, anche quando le parole che gli uscivano dalla bocca risultavano poco autorevoli, in tenuta composta da chinos e bomber jacket (la giubba di pelle da aviatore), incarnava perfettamente il suo messaggio a beneficio delle telecamere.

Da quando Barack Obama si è insediato alla Casa Bianca, il pendolo dello stile sartoriale-politico si è di nuovo spostato “verso sinistra”. I repubblicani hanno subito gridato allo scandalo quando il primo presidente afroamericano si è fatto fotografare alla scrivania dello Studio ovale in maniche di camicia (ma con cravatta): «un attentato alla dignità dell’alto incarico che detiene, e un’offesa agli elettori americani». Alto, snello e in forma, il presidente Obama dovrebbe avere le physique du rôle per indossare quello che vuole nei momenti meno formali, che spesso in America significa una breve ma altamente simbolica presenza sul campo da baseball, per lanciare la prima palla. La prima volta che l’ha fatto, Obama ha indossato un paio di jeans lisi e di taglio “comodo”, forse simili a quelli indossati da milioni di altri americani – bianchi o neri che siano – della stessa età. È stato invece un disastro mediatico per via di quei “mom jeans”, jeans come quelli indossati dalle mamme. Ormai Obama è attento a indossare solo i chinos in momenti sportivi, eventualmente con una felpa. Anche gli americani a volte sbagliano il casual.

I paesi europei ex comunisti hanno anch’essi vissuto una simile, interessante parabola. Negli anni bui dell’obbedienza cieca a Mosca, vestire in modo decente per gli apparati di partito era un suicidio impensabile. La fedeltà alla linea di Władysław Gomułka, segretario del partito degli operai polacchi dal 1965 al 1970 era evidente persino dal pessimo taglio dei suoi abiti, apparentemente rubati dal guardaroba di qualcun altro di stazza (o taglia) diversa. Il suo successore, Edward Gierek, che ha sperimento riforme economiche abbastanza radicali, coltivando ottimi rapporti con la Germania di Helmut Schmidt e la Francia di Valery Giscard d’Estaing a scapito dell’URSS di Brežnev, ha sottolineato il suo nuovo percorso politico con abiti francesi di ottimo taglio, lanciando così una sfida “sartoriale” nei confronti di Mosca.

Dopo il 1989 lo scenario è stato meno lineare: il presidente Lech Wałesa, pur rappresentando istanze anti comuniste, era pur sempre un sindacalista, quindi ha mantenuto lo stile inelegante e raffazzonato della sua precedente militanza nei cantieri di Danzica. I fratelli Lech e Jarosław Kanczynski, rispettivamente presidente e premier polacchi dal 2005 al 2010, rappresentanti di una destra cattolica molto forte, sono stati entrambi presi in giro dai media avversari per il loro modo poco curato di vestire: alla Gomułka, infatti.

Impossibile non citare in chiusura il caso di Margaret Thatcher, la prima donna premier di una democrazia occidentale, che ha molto studiato il modo di rappresentare la propria political narrative attraverso l’aspetto fisico e l’abbigliamento. Non ispirandosi agli ideali di sinistra né definendosi femminista (elementi che le avrebbero suggerito un certo percorso), ha dovuto inventarsi uno stile da donna di ferro di destra. Come mostra con mirabile chiarezza il film “The Iron Lady”, da poco nelle sale in Italia, la costruzione della sua immagine è stata graduale e irta di problemi. Avendo rifiutato sin dall’inizio il cliché della tory lady (le elettrici e militanti che nei decenni precedenti erano famose per gli sgargianti abiti floreali, i cappelli a falde larghe e la tinta dei capelli viola-azzurro, spesso chiamate “blue rinse brigade”) – da lei cordialmente detestato – ha sperimentato diverse “versioni beta” con i vestiti, gli accessori e i capelli, prima di scoprire, con l’aiuto di alcuni esperti d’immagine e di stile, compresa Carla Powell (la moglie italiana del suo principale consigliere) la formula adatta. A differenza dei colleghi maschi non aveva nessun modello da seguire, ma si è fatta creare un “total look” (compresa la voce, dopo molte lezioni di dizione per abbassare i toni striduli) che era tipico del suo tempo (gli anni Ottanta) e che sembrava intimare sia la forza storica di Elisabetta I (la figlia di Enrico VIII, mitica sovrana “vergine” ma estremamente grintosa), sia la bellezza algida e irreale di certe dive del cinema anni Trenta e Quaranta. E come il sigaro del suo amatissimo Winston Churchill, aveva un accessorio-feticcio che è diventato, grazie a lei, un verbo del vocabolario inglese: le sue handbags, le borsette (classiche, rigide, spesso Ferragamo) ormai vendute nelle case d’asta per parecchie decine di migliaia di sterline. To handbag significa assalire con veemenza l’avversario, una metafora forte per indicare il suo stile politico.

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