Esistono appuntamenti con la storia che non si possono mancare. Per la scienza, la pandemia da Covid-19 è uno di questi.
Viviamo in un paese che ha sempre mostrato scarso interesse verso la ricerca scientifica e i suoi metodi. Gli scarsissimi finanziamenti in ricerca e innovazione si riflettono in un basso numero di ricercatori in rapporto alla forza lavoro e in un preoccupante invecchiamento del settore. Ma il problema è ben più ampio e nasce da una storica distanza della cultura italiana dalla scienza. Siamo uno dei paesi europei con il più basso tasso di laureati e dottorati in materie scientifiche. Non solo: nonostante una tendenza verso un costante miglioramento, la nostra popolazione mostra un tasso di analfabetismo scientifico ancora molto elevato. Uno studio del 2016, effettuato dall’Osservatorio Scienza Tecnologia e Società di Observa, fotografava un paese in cui circa il 40% degli italiani non sa che gli antibiotici sono efficaci solo contro i batteri e che il Sole non è un pianeta ma una stella. Se poi ci prendessimo la briga di domandare ai nostri amici o agli amici dei nostri figli quali siano stati i grandi scienziati italiani del passato, difficilmente andremmo oltre Galilei e Volta, mentre sicuramente la lista sarebbe molto più estesa e completa se li interrogassimo su poesia, letteratura o arte. La cultura italiana è fortemente sbilanciata verso le discipline umanistiche perché la nostra scuola è ancora impostata sul modello del liceo classico, identificato dalla riforma Gentile come la scuola dell’élite. Da Croce a Gentile, in Italia la cultura scientifica è stata sminuita o ritenuta comunque inadatta a formare la classe dirigente del paese. Ancora oggi l’élite culturale italiana e la classe dirigente sono prevalentemente di formazione umanistica.
Fino a due anni fa, prima che un microscopico virus che fatichiamo a definire “essere vivente” entrasse nella comunità umana e la stravolgesse, era quasi impensabile immaginare la presenza di biologi, fisici o matematici in trasmissioni televisive che non fossero tecniche. I salotti televisivi dove si discute davanti a milioni di italiani di politica, attualità, scuola o lavoro erano frequentati, oltre che da politici e da giornalisti – non scientifici, nonostante questi unicorni esistano e siano spesso bravi e preparati – da filosofi, scrittori, storici dell’arte, economisti e giuristi. Gli scienziati, considerati appunto dei tecnici superspecializzati, incapaci di guardare oltre i loro laboratori, erano invisibili. E se gli scienziati non parlano al paese è la scienza che è muta. Ecco che si spiegano l’impreparazione del sistema sanitario a gestire una pandemia attesa da molti anni così come il rapido proliferare di notizie false e incredibili, dal ruolo del 5G nella propagazione del virus alla presenza di microchip nei vaccini.
La pandemia ha però cambiato notevolmente questo scenario, dando voce alla scienza e puntando i riflettori su medici e ricercatori che, nella maggior parte dei casi, non erano preparati a parlare al paese. Mentre alcuni si occupavano di divulgazione scientifica da tempi non sospetti e, nel giro di poche settimane, sono riusciti a trovare la giusta chiave per accompagnare i cittadini nella tempesta sanitaria e mediatica che stiamo vivendo, altri hanno commesso molti errori di comunicazione, lasciandosi prendere la mano dai personalismi o dalle proprie personali convinzioni. La comunità scientifica è una comunità fatta da singoli individui, con le loro sensibilità e contraddizioni, con competenze e capacità di visione estremamente diverse. Queste sfumature di pensiero e modus operandi a livello comunicativo sono state da un lato una manna dal cielo per i talk show televisivi e i giornali alla costante ricerca della contrapposizione; dall’altro, hanno causato stupore e dubbi nei cittadini. Già di per sé la scienza durante la fase attiva di una pandemia non può che essere incerta e basata sul dubbio: ci trovavamo di fronte a un virus e una patologia nuovi, avevamo bisogno di capire, studiare, verificare i dati senza però avere il tempo per farlo, tutto davanti a telecamere e con il peso dei morti a complicare ogni parola. In più, molti di noi si sono trovati costretti a smentire le affermazioni bizzarre di un collega, cadendo quindi nella trappola del mondo della post-verità. Comunicare la scienza durante una pandemia significa offrire ai cittadini una spiegazione razionale e comprensibile di quello che stanno subendo, responsabilizzarli nel loro ruolo attivo di possibili portatori del contagio, ricordando però che ad ascoltarci ci sono anche persone anziane, sole, spaventate, depresse. Significa soprattutto essere umili, saper accogliere l’incertezza e saperla comunicare senza che questa venga percepita come caos. Per farlo è necessario avere i piedi ben saldi sul metodo scientifico e gli occhi puntati verso i dati e non la propria pancia.
Guardando ai risultati della campagna vaccinale mi sento di dire che la comunicazione della scienza è stata buona ma non perfetta. Uno dei problemi maggiori che ho riscontrato nel ruolo a cui sono stata chiamata è il mancato utilizzo di giornalisti scientifici nelle redazioni o tra gli autori dei programmi. Non considerando la malafede di chi ha inseguito il pubblico cercando sempre polemiche e scontri, la scarsa preparazione dei conduttori televisivi in ambito scientifico non ha aiutato gli scienziati a comunicare al meglio. Siamo stati tutti catalogati da subito come “virologi”, nonostante avessimo competenze estremamente differenti. Chiedere a un fisico come reagisce il sistema immunitario in risposta alla malattia o alla vaccinazione è come chiedere a un microbiologo come intubare un paziente o a un medico di reparto dettagli sulla natura evolutiva del virus: i più preparati avranno un’idea generale delle risposte ma non le competenze per dare informazioni ineccepibili. Un maggior coinvolgimento dei giornalisti scientifici avrebbe permesso di evitare errori grossolani e avrebbe assicurato che le domande fossero sempre rivolte ai veri esperti.
Tuttavia, al netto degli errori di noi scienziati e del giornalismo, questo nuovo rapporto diretto tra scienza, politica e cittadini è importantissimo e andrà preservato nel futuro, se vorremo essere pronti ad affrontare le emergenze alle porte e per procedere verso quella democratizzazione della scienza che è fondamentale per il consenso politico.
Mai come in questi giorni abbiamo toccato con mano l’importanza di coinvolgere i cittadini su temi ritenuti prettamente scientifici e tipicamente destinati a essere discussi solo tra addetti ai lavori. Se i cittadini non avessero accettato le misure di restrizione, l’uso delle mascherine e la vaccinazione noi oggi saremmo in una situazione così drammatica da essere quasi inimmaginabile. In democrazia, il consenso della popolazione è quindi essenziale anche per la scienza; non per validare o meno una nuova dimostrazione matematica, ma per trasformare in innovazione, sicurezza e benessere la ricerca scientifica, per portarla nelle nostre vite e migliorarle. Dai vaccini all’energia, dagli antibiotici agli OGM, dal trasporto alla digitalizzazione, le scelte politiche devono incontrare il consenso popolare per essere efficaci. E chi potrebbe spiegare agli italiani questi temi così complessi se non uno scienziato, credibile perché esperto e privo di conflitti d’interesse?
Il processo di contaminazione tra scienza, politica e comunicazione vissuto negli ultimi due anni non sarà solo strumentale ai governi democratici e ai cittadini consapevoli: anche la ricerca scientifica ne trarrà un enorme beneficio. Prima di tutto il coinvolgimento della popolazione nel processo di scoperta, nelle sue sfide, potrà facilitare il finanziamento alla ricerca attraverso donazioni e investimenti. Inoltre, l’abitudine a confrontarsi su temi di ampio respiro, come, ad esempio, l’economia o i diritti, aiuterà il mondo scientifico ad allargare la propria visione e costringerà gli scienziati a cambiare linguaggio e a riavvicinarsi alla cultura umanistica.
La scienza del domani è fortemente sfidante non solo sul piano tecnologico ma anche filosofico, giuridico, economico. Pensiamo all’intelligenza artificiale, ad esempio, o alle piattaforme di comunicazione: rappresentano un terreno dove tutto il sapere umano si misura e si ricrea, dove non è pensabile immaginare confini tra scienza e umanesimo. Sarà necessario però un cambio di mentalità, non solo nell’opinione pubblica ma anche, e forse soprattutto, tra i ricercatori, che da troppo tempo si sono adagiati nell’angolo dei laboratori in cui sono stati relegati. Dovremo avere il coraggio di lanciarci nella mischia del dibattito pubblico, mantenendo quell’oggettività, pacatezza e umiltà che il nostro mestiere ci deve aver insegnato, se siamo stati dei buoni allievi. Ma non dovremo più stupirci se un fisico parla di diritti umani o un biologo di economia, come non ci siamo stupiti finora ascoltando umanisti e letterati parlare di scienza e tecnologia. Chiudersi significherebbe ammettere che gli studi scientifici sono limitanti e che aveva ragione Gentile quando, nella sua riforma, decise che dal liceo classico si potesse accedere a tutte le facoltà universitarie mentre dal liceo scientifico la scelta fosse ristretta alle facoltà di settore. Questo è il retaggio che ancora ci condiziona e che ci fa alzare il sopracciglio di fronte a un “virologo” in televisione. Ma si tratta di un retaggio culturale che deve essere rapidamente superato, se vogliamo davvero far crescere il paese e renderlo capace di affrontare democraticamente le sfide del futuro.