Il Gruppo di Visegrad e l’UE: conflitto d’interessi o diverse visioni del futuro?

Di Thierry Vissol Venerdì 29 Gennaio 2021 12:56 Stampa
Il Gruppo di Visegrad e l’UE: conflitto d’interessi o diverse visioni del futuro? Emanuele Ragnisco
 

Il 15 febbraio 1991 i capi di Stato e di governo della Polonia, dell’Un­gheria e della Cecoslovacchia, riuniti nella cittadina, altamente sim­bolica, di Visegrad,1 capoluogo poco distante da Budapest fondato dal primo mitico re ungherese, santo Stefano, decisero di associarsi per dar vita ad alcune forme di cooperazione in campo militare, cul­turale, economico ed energetico con l’obiettivo di accelerare il loro processo di adesione all’Unione europea e alla NATO. La separa­zione della Slovacchia dalla Repubblica Ceca il 1° gennaio 1993 ha portato a quattro i membri di questo gruppo, denominato da allora Gruppo di Visegrad o V4. Benché il gruppo abbia una presidenza a rotazione annuale, una piccola struttura amministrativa e si sia dota­to di un Fondo internazionale d’investimento e di aiuto finanziario con un bilancio annuale di 3 milioni di euro, non ha una sede fissa e non pretende di costituirsi in una istituzione o fare concorrenza a quelle europee. Il suo obiettivo era, all’inizio, di dimostrare ai paesi dell’Unione la capacità dei suoi membri di cooperare tra loro e, così facendo, di accelerare il processo di aggiustamento e poi di adesione all’UE e alla NATO. Una strategia vincente: Polonia, Ungheria e Re­pubblica Ceca sono entrate nella NATO nel 1999, la Slovacchia nel 2004, data dell’entrata del V4 nell’Unione europea insieme ad altri sei paesi. Questa adesione non ha portato alla dissoluzione del grup­po, e neanche al suo consolidamento, ma a cooperazioni puntuali nonostante divergenze e interessi contrastanti. Di fatto, essendo pic­coli paesi, il loro peso nel processo di decisione europeo offre la pos­sibilità di contare di più se insieme. Con quasi 64 milioni di abitanti (come la Francia) dispongono di 58 voti su 352 al Consiglio, cioè il 16,5%, quando Francia, Germania e Italia ne hanno solo 29 a testa.

Al di là dell’adesione alla NATO e all’UE, la creazione del Gruppo di Visegrad aveva altri due obiettivi. Il primo, tramite richiami sto­rici, era di ricordare sia l’importanza geopolitica di questi paesi della Mitteleuropa sia la loro appartenenza secolare al continente e alla storia europea. Il secondo era di dimostrare la loro volontà e capacità di entrare nel club europeo occidentale su un piano di eguaglian­za e di giocare sullo stesso campo di gioco: dovevano combattere la sindrome del “troppo poco preparati per contare”. Di fatto, hanno negoziato con cura le loro condizioni di adesione, accettandone tutte le regole: il rispetto dei tre criteri di Copenaghen (1993) – partico­larmente il primo, relativo al rispetto della democrazia, dello Stato di diritto, dei diritti dell’uomo, delle minoranze e alla loro tutela – e l’adozione dell’acquis comunitario, cioè dei Trattati europei e la tra­sposizione nel diritto nazionale di un corpus giuridico di 80.000 pa­gine. Il loro europeismo è giunto fino ad accettare di adottare l’euro (che si auguravano di introdurre tra il 2006 e il 2010) senza possibi­lità di chiedere una clausola di opting out come il Regno Unito o la Danimarca.

All’epoca dei negoziati di adesione, l’adesione all’euro era considera­ta dai paesi del V4 come il completamento dell’integrazione europea. Una mossa sostenuta dal papa Giovanni Paolo II, che offrì al primo ministro polacco Leszek Miller, nel dicembre 2002, una scatola con­tenente una serie delle monete in euro, insistendo sul fatto che la Po­lonia avesse due obiettivi: aderire all’UE e adottare l’euro. Tuttavia, a oggi, solo la Slovacchia l’ha fatto, il 1° gennaio 2009. L’elezione dell’euroscettico Václav Klaus alla presidenza della Repubblica Ceca dall’inizio del 2003 e fino al 2012 ha impedito la partecipazione del suo paese, rimasto da allora piuttosto euroscettico. In Polonia, il pre­mier liberale Donald Tusk, vista l’insufficiente convergenza macroe­conomica e la crisi dell’euro, aveva rimandato l’adesione al 2019, ma il ritorno al potere del PIS (Prawo i Sprawiedliwość, partito Diritto e Giustizia, conservatore clericale) nel 2015 l’ha impedita. In Unghe­ria, l’elezione di Viktor Orban e l’arrivo alla guida del paese del suo partito Fidesz, nonostante l’approccio liberale pro-europeo e favo­revole all’adozione dell’euro durante il suo primo mandato (1998- 2002), cambieranno tutto. Il Parlamento ha riformato lo statuto del­la Banca centrale al punto che la BCE (Banca centrale europea) nel 2014 considererà queste modifiche incompatibili con i requisiti per fare parte dell’eurozona. Nel 2013, Orban ha dichiarato che il suo paese non avrebbe adottato l’euro fin quando il reddito pro capite non avesse raggiunto il 90% della media della zona euro, cioè, con il tasso di crescita degli ultimi anni, non prima della metà del secolo.

VERSO I CONFLITTI D’INTERESSE

Il cambiamento di posizione di tre dei paesi del V4 rispetto all’euro riflette la loro evoluzione in campo europeo a partire dalla fine del primo decennio del secolo fino ad arrivare, in questi ultimi anni, a veri e propri scontri con Bruxelles su alcuni temi. Scontri molto più forti e pericolosi nel caso della Polonia e dell’Ungheria. Come già accennato, il Gruppo di Visegrad è ben lontano dal condividere un’identità politica comune. Non solo hanno interessi contrastanti ma si dividono anche su temi che dovrebbero accomunarli. Benché membri della NATO, il loro atlantismo ha gradazioni molto diffe­renti: dalla Polonia ultra-atlantista all’Ungheria filorussa e filocinese passando per le posizioni molto più tiepide degli altri due. Non han­no una politica estera comune anche se tutti partecipano al gruppo 17+1 cinese, sebbene a titolo individuale e con diversi gradi di entu­siasmo. Un gruppo creato nel 2012 a Budapest,2 capitale diventata la sede del più grande centro logistico fuori della Cina della Huawei, definita da Orban “partner strategico”. Tutti i membri del Gruppo dipendono della Russia in campo energetico (gas, petrolio e nucle­are), ma non condividono una posizione filorussa né l’ammirazione per Putin del premier Orban. L’invasione dell’Ucraina ha creato uno strappo decisivo all’interno del V4: sostenuta solo dall’Ungheria ani­mata dalla speranza di recuperare la regione transcarpatica nell’am­bito della sua politica atta a favorire l’irredentismo delle minoranze magiare negli Stati limitrofi, soprattutto in Slovacchia, dove questa minoranza rappresenterebbe l’8,5% della popolazione.

In materia economica, il V4 è altamente dipendente dagli altri paesi dell’UE e in particolare dalla Germania in termini commerciali, di subappalti e investimenti. Registra un basso tasso di disoccupazione e un tasso di crescita doppio della media comunitaria, ma Polonia e Ungheria sono cresciute meno rapidamente della Repubblica Ceca e della Slovacchia. Dal 1996 al 2019, il reddito pro capite ai prezzi del mercato è passato in Repubblica Ceca dal 33% al 67% del red­dito medio dei 27 paesi dell’UE e dal 20,4% al 55% in Slovacchia, mentre è cresciuto solo dal 22,9% al 48% in Ungheria e dal 21,1% al 44% in Polonia. Queste differenze riflettono la diversità sia delle strutture economiche sia degli obiettivi di cooperazione e di apertura agli investimenti europei. Dal 2015, malgrado queste differenze, il Gruppo di Visegrad si è ricompattato per opporsi al resto dell’UE su quattro temi: la politica dell’immigrazione, la problematica dei lavoratori distaccati, l’Europa a più velocità e il sovranismo.

Nel 2015 la Commissione europea ha propo­sto un piano di redistribuzione dei migranti e richiedenti asilo arrivati in Europa. Il Consiglio ha approvato un meccanismo di ricollocamen­to di 100.000 richiedenti asilo che il V4 ha ri­fiutato di attuare chiudendo le sue frontiere alla “rotta dei Balcani”. La Commissione ha quindi avviato nel 2017 una procedura di infrazione contro Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria, mentre la Slovacchia ha accettato di accoglierne 16, seguita dalla Repubblica Ceca (12), evitando entrambi la procedura d’infrazio­ne. Tuttavia, il rifiuto di solidarietà in materia permane nei quattro paesi.

Nel 2016, il V4 si è opposto alla revisione della direttiva sui lavorato­ri distaccati, riforma richiesta dagli altri paesi per evitare il dumping sociale e assicurare lo stesso trattamento a tutti i lavoratori in ogni paese. Di nuovo, Polonia e Ungheria hanno rifiutato ogni compro­messo. Dopo due anni di negoziati e compromessi, la direttiva è stata finalmente adottata per entrare in vigore nel 2020.

Nel 2017 si è puntato più in alto. I 4 di Visegrad si sono opposti al progetto di creare una Unione a più velocità proposto da Fran­cia, Germania, Italia e Spagna per rilanciare la costruzione europea e l’Unione politica. Questa opposizione non veniva solo dal timore, reale, di essere marginalizzati, ma da una concezione diversa degli scopi dell’Unione. L’Ungheria di Orban e la Polonia del PIS, soste­nute e incoraggiate fino a oggi dal Regno Unito, ritengono che ogni ambizione federale deve essere abbandonata e che invece l’UE do­vrebbe fare un salto indietro per concentrarsi sul mercato unico e la sicurezza. Di fatto, già nel 2011, Viktor Orban, allora presidente di turno dell’Unione europea dichiarò: «Noi non crediamo nell’Unione europea, crediamo nell’Ungheria, e consideriamo l’Unione europea da un punto di vista secondo cui, se facciamo bene il nostro lavo­ro, allora quel qualcosa in cui crediamo, che si chiama Ungheria, avrà il suo tornaconto». Questo blocco non è stato superato, come dimostra la recente minaccia di Budapest e Varsavia di opporsi all’a­dozione del bilancio pluriannuale e del Recovery Fund fintanto che l’esborso dei fondi UE sarà vincolato al rispetto dello Stato di dirit­to come prevede il regolamento che entrerà in vigore il 1° gennaio 2021. Tuttavia, il Consiglio europeo del 10 dicembre, con un vile compromesso, ha sospeso la sua applicazione per almeno un anno, nell’attesa di una pronuncia della Corte di Giustizia sulla pertinenza giuridica del meccanismo. Ciò non ha però risolto le divergenze di fondo e di principio tra questi due paesi e l’Unione e il rischio è che, come accaduto finora, ogni mossa dell’UE in materia rimanga lettera morta.

Da un lato, i paesi del Gruppo di Visegrad sono ansiosi di ricevere i finanziamenti e gli investimenti europei che dagli anni Novanta alimentano le loro economie, dall’altro vogliono più sovranità per gli Stati, sia che si tratti dei Parlamenti nazionali, che dovrebbero avere l’ultima parola rispetto al processo legislativo europeo, sia per quanto riguarda il ruolo dei governi nel Consiglio europeo, il cui peso dovrebbe essere aumentato a scapito della Commissione. Praga e Bratislava sono invece molto meno ostili verso l’approfondimento politico dell’UE, e trovano sempre meno conveniente la posizione estremista di Varsavia e di Budapest. Il 21 giugno 2017, dopo in­contri bilaterali con i capi di Stato del V4, il presidente Macron, in una intervista con otto giornali europei, rispose a una domanda sulla divisione Est-Ovest in questi termini: «Quando sento oggi certi dirigenti europei penso che tradiscono due volte. Decidono di ab­bandonare i principi, di volgere le spalle all’Europa, di adottare un approccio cinico verso l’Unione, pensando di accedere ai suoi fondi senza rispettare i suoi valori. L’Europa non è un supermercato, è un destino comune».

I CONFLITTI SULLO STATO DI DIRITTO

Polonia e Ungheria pongono problemi molto seri legati ai valori fon­damentali dell’Unione: il rispetto dello Stato di diritto, ossia delle regole democratiche, dell’indipendenza della giustizia, della tutela delle minoranze, della libertà di espressione e di stampa, del plura­lismo dei media. Dal 2011 in Ungheria e dal 2015 in Polonia i par­titi maggioritari hanno proceduto a un “ratto costituzionale”, cioè hanno introdotto con voto parlamentare delle modifiche alle loro Costituzioni e adottato leggi che vanno contro le regole democrati­che e i principi sanciti nel Trattato sull’Unione europea (TUE), in particolare agli articoli 2, 3.3 e 6, e nella Carta dei diritti fondamen­tali dell’UE. L’articolo 7 del TUE permette, in teoria, di sanzionare violazioni gravi di questi valori, ed è stato attivato nel 2018 contro Polonia e Ungheria. Tuttavia, difficilmente si arriverà a delle sanzio­ni. La procedura deve essere indirizzata a un solo paese per volta, e la decisione di accertare una violazione grave e persistente deve essere presa all’unanimità dagli altri paesi. In questo caso, l’uno o l’altro paese sotto accusa potrebbe porre il veto sulle sanzioni contro l’al­tro. Nel gennaio 2020, il Parlamento europeo, riprendendo le con­clusioni della Commissione, dell’ONU, dell’OSCE e del Consiglio d’Europa, ha ritenuto che la situazione in Polonia e Ungheria si fosse deteriorata dal 2018 e ha quindi chiesto al Consiglio, come “assoluta necessità”, di creare in difesa dello Stato di diritto quel meccanismo che è all’origine della decisione di legare l’esborso dei fondi UE al suo rispetto.

Le varie opposizioni alla solidarietà tra paesi dell’UE e le violazioni dello Stato di diritto da parte di Polonia e Ungheria costituiscono una sfida alle istituzioni europee e ai suoi meccanismi di decisione, destabilizzando il fragile equilibrio tra il metodo comunitario e quel­lo intergovernativo. Si tratta di un nodo che dovrà essere risolto se l’UE vorrà conservare un minimo di credibilità democratica.

Più problematica è la debole attrattività dell’UE verso i cittadini dei paesi dell’Europa centrale, nonostante l’importanza dei contributi netti del bilancio comunitario al loro benessere (nel 2018 1,22% del PIL per la Slovacchia, 1,92% per la Repubblica Ceca, 2,59% per la Polonia, 4,12% per Ungheria). Eppure, nel 1989-90 dopo la caduta del Muro di Berlino, l’entusiasmo verso la prospettiva di avvicinarsi all’Europa occidentale era altissimo. Ben presto però, nonostante i circa 20 miliardi di euro di aiuti attraverso strumenti di preadesione all’UE (programmi Phare, Sapard e Ispa), i prestiti della BEI (circa 1 miliardo all’anno) e gli investimenti dei paesi dell’Unione (circa 85 miliardi tra il 1989 e il 2000), l’incanto iniziale è rapidamente svani­to. I referendum sull’adesione organizzati nel 2003 hanno visto una debole affluenza nei V4, in media di solo il 55%, e i voti favorevoli sono stati inferiori al 50% degli aventi diritto. Successivamente, in tutte le elezioni europee (2004, 2009, 2014) l’affluenza è scesa sotto il 30% contro il 43% della media europea, risalendo leggermente nel 2019 ma restando inferiore alla metà della media europea di 50,7%. Nel 2018, nella Repubblica Ceca molte forze politiche spingevano a favore di un referendum per la “Czexit”, l’uscita di Praga dall’UE, referendum bloccato in extremis dal presidente Milos Zeman. Molti sono i fattori, che vedremo di seguito, che possono spiegare una tale disaffezione verso l’UE e la posizione sovranista dei governi.

IL PESO DELLA STORIA: RANCORI E FRUSTRAZIONI

Il sistema di capitalismo di Stato, la pianificazione e la divisione internazionale socialista del lavoro e delle specializzazioni dei paesi imposte dall’URSS, potenza tutelare, avevano creato in questi pae­si una “economia della penuria” che era caratterizzata da molti ele­menti: carenza di manodopera e produttività insufficiente, imprese disfunzionali, mancanza di interesse verso le nuove tecniche e resi­stenza alla loro applicazione, cattivo utilizzo e spreco di investimenti, discrepanze tra le possibilità di approvvigionamento delle imprese socialiste e le esigenze tecniche dell’Occidente. Nonostante le nu­merose riforme fatte a partire dagli anni Sessanta, le economie dei paesi dell’Est europeo sono rimaste quelle “economie della penuria” descritte dall’economista ungherese Janos Kornai, secondo il quale il sistema conteneva dei meccanismi che favorivano il mantenimento dello status quo e si mostrava incapace non solo di adattarsi all’e­voluzione dell’economia internazionale, ma anche di mantenere i benefici sociali che ne erano la giustificazione. Nel corso degli anni Ottanta, il malfunzionamento dei sistemi di economia pianificata e le crisi che ne sono derivate hanno messo in discussione le conquiste sociali; era diventato impossibile garantire la qualità dei servizi e la riduzione delle diseguaglianze a cui avrebbe dovuto portare. Propa­ganda e repressione non erano in grado di impedire alla popolazione di essere attratta dalla vetrina consumerista dell’Occidente al punto da spingerla a rovesciare un sistema moribondo. Le speranze dei cit­tadini dei paesi della Mitteleuropa nel cambiamento di sistema erano altissime, ma svanirono rapidamente per la stragrande maggioranza delle persone.

Lo shock degli aggiustamenti necessari per adeguare i sistemi pro­duttivi e le infrastrutture alla modernità ha prodotto in pochi anni effetti negativi significativi: fallimenti di imprese e disoccupazione (prima impossibili), bassi salari, riduzione o addirittura eliminazio­ne di molte prestazioni sociali che prima erano gratuite. Le cause di questi eventi erano numerose: la vetustà delle infrastrutture e dell’apparato produttivo, il loro elevato impatto ambientale, la bassa produttività, prodotti e servizi non rispondenti ai criteri occidentali, un livello di assenteismo e di alcolismo radicato nei comportamenti, l’obsolescenza dei sistemi sanitari e un alto debito pubblico. Le rifor­me della transizione hanno distrutto le istituzioni e le forme di co­ordinamento economico esistente senza che a esse se ne sostituissero immediatamente di nuove in grado di assicurare un coordinamento tramite i meccanismi di mercato. In quattro anni questi paesi hanno conosciuto una forte caduta del loro PIL: nel 1994 questo era al 79% di quello del 1989. Nello stesso arco di tempo, le privatizzazioni

– realizzate con metodi contestabili e prima che fossero introdotte le nuove leggi sulla proprietà – avrebbero portato a un arroccamento della vecchia élite che avrebbe portato a un accaparramento della ricchezza rapido e indebito. D’altro canto, investitori stranieri (e non solo europei) avrebbero acquisito le migliori imprese: un esempio per tanti fu l’acquisizione di Skoda da parte della Volkswagen nel 1991. Per i cittadini dell’Est, quindi, non solo aumentarono diseguaglianze e povertà, ma anche la sensazione che i loro paesi fossero diventati una preda facile per gli occidentali.

Ciò andrà ad aggiungersi ai risentimenti verso l’Occidente risalenti alle conseguenze delle due guerre mondiali. I trattati di pace della prima guerra mondiale, sotto la spinta degli americani e del presi­dente Wilson, modificarono profondamente le frontiere dell’Europa orientale, spesso vissute come inique, particolarmente dall’Ungheria, a cui furono sottratti molti territori. L’intesa di Yalta (febbraio 1945) con cui Stalin, Roosevelt e Churchill decisero il nuovo assetto politi­co dell’Europa, fu vissuto come un tradimento, e l’internazionalismo socialista dei russi schiaccerà successivamente i particolarismi nazio­nali e la religiosità in quei paesi. Negli anni più recenti, alla speranza di una vita migliore si è aggiunta quella di ritrovare una dignità, una fierezza nazionale e una vera sovranità persa per decenni. Questo spiega in parte la volontà della Polonia del PIS e dell’Ungheria di Orban di riscrivere il romanzo nazionale anche a scapito della verità storica. L’aiuto dell’Occidente era considerato come un atto dovuto per compensare iniquità e tradimenti del “secolo breve”. Da parte sua, negli anni Novanta, la pusillanimità dei paesi dell’allora UE a 15 in materia di aiuti è stata evidente. Basta paragonare le poche decine di miliardi allocati all’insieme dei PECO (Paesi dell’Europa Centrale e Orientale) a quelli offerti dalla Germania dell’Ovest all’ex-RDA, cioè 1600 miliardi di euro tra il 1990 e il 2018. I criteri di Copena­ghen e l’obbligo di adottare l’insieme delle leggi europee senza avere la possibilità di negoziarle sono spesso stati considerati – e lo sono ancora – come una forma di imperialismo simile a quello realizzato in passato dall’URSS. Infine, le patetiche discussioni dei capi di Stato e di governo dell’UE per decidere nel 2001 a Nizza sui diritti di voto dei paesi dell’allargamento, sommandosi agli altri motivi richiamati in precedenza, hanno sollevato, come sostenu­to da Jacques Delors, molti “rancori durevoli”. Rancori sui quali i governi illiberali e i partiti di destra hanno saputo costruire la loro forza e fondare il loro nazionalismo a oltranza.

Né i rancori né le frustrazioni descritti sopra possono giustificare l’involuzione sovranista e illiberale dei regimi polacco e ungherese, così spesso in contraddizione con i valori dell’UE. Le debolezze delle strutture economiche sopra ri­chiamate, retaggio del vecchio sistema comuni­sta, in qualche modo hanno portato anche a una debolezza giuridica nell’assetto politico-sociale di questi paesi. Ciò non giustifica, ma in parte può spiegare, il ritorno alle vecchie abitudini delle dittature co­muniste, che vengono adottate con provvedimenti regolarmente ap­provati in sede parlamentare. Qualche esempio: il controllo e la sot­tomissione del potere giudiziario al potere politico (in barba alla più basilare norma democratica della separazione dei poteri), il bavaglio alla stampa e alle opposizioni, la riduzione se non la soppressione del pluralismo dei media, la limitazione di alcune libertà civili (aborto, unione civili ecc.), la messa all’indice di minoranze, dei movimenti LGBT, con il rifiuto della diversità ecc. Tentazioni d’involuzione di questo tipo esistono anche a Ovest e sono promosse da molti partiti di destra o di estrema sinistra in tutti i paesi. Eppure, se le nostre vecchie democrazie non sono perfette, si sono consolidate e hanno sviluppato anticorpi che purtroppo non sembrano abbastanza forti in più paesi dell’Est.

Non sembra che l’Unione europea, né a Est né a Ovest, abbia ancora saputo rispondere all’augurio del presidente ceco Václav Havel nel suo discorso al Parlamento europeo dell’8 marzo 1994: «Se i cittadi­ni europei capiranno che l’Unione europea non è solo un anonimo mostro burocratico che vuole limitare o addirittura negare la loro au­tonomia, ma semplicemente un nuovo tipo di comunità umana che dovrebbe espandere notevolmente la libertà, allora l’Unione europea non dovrà temere per il proprio futuro». Ma per capirlo, i cittadini hanno anche bisogno di non essere fuorviati dalle sirene nazionaliste e sovraniste dei loro politici.


[1] Visegrad è anche la cittadina dove è conservata la sacra Corona apostolica di santo Stefano d’Ungheria e dove Mattia Corvino, grande re d’Ungheria dal 1458 al 1490, scelse di porre la sua corte. È in questa città che, nel 1335, su iniziativa del re Carlo I
d’Ungheria, si riuniscono i re di Polonia, Ungheria e Boemia in una alleanza anti asburgica per creare nuove vie commerciali indipendenti verso l’Europa dell’Ovest.

[2] Il gruppo 17+1, considerato dall’UE come una strategia cinese per dividere e conquistare l’Europa, è un’iniziativa di cooperazione della Cina con 17 paesi del continente per promuovere la sua Belt and Road Initiative nel campo delle infrastrutture, del trasporto e della logistica, del commercio e degli investimenti. Oltre ai paesi del V4 comprende l’Albania, la Bosnia-Erzegovina, la Bulgaria, la Croazia, l’Estonia, la Grecia, la Lettonia, la Lituania, la Macedonia del Nord, il Montenegro, la Romania, la Serbia e la Slovenia.