L'attiva impoliticità dei giovani

Di Loredana Sciolla Venerdì 30 Novembre 2012 17:00 Stampa

La sfiducia nei confronti della politica, che si esprime attraverso l’astensionismo, il rifiuto dei partiti e il calo di identificazione ideologica, annovera tra le sue cause non soltanto la percezione della propria impotenza dinanzi al protratto cattivo rendimento delle istituzioni, ma anche la sensazione di essere stati traditi nelle proprie aspettative e defraudati dei propri ideali politici. L’esito di questa sfiducia è un’attività dimostrativa e di denuncia, “impolitica” perché non si pone nell’ottica di influenzare le decisioni delle élite, sostituendo alla responsabilitàdel governare la critica indignata dell’opacità del potere.


DEMOCRAZIE DISILLUSE

La democrazia, nel periodo che stiamo vivendo, sembra dibattersi in una sorta di paradosso: come insieme di istituzioni, di regole e di valori è, dalla fine della guerra fredda, più diffusa di quanto sia mai stata prima, tuttavia, mai come oggi suscita gravi forme di disaffezione e di sfiducia da parte dei cittadini che nelle democrazie “reali” vivono.

Negli ultimi trent’anni si è manifestato in molte società occidentali un fenomeno silente ma non per questo meno preoccupante, che è ben conosciuto dagli studiosi ma quasi assente nel discorso pubblico italiano, almeno fino ai recenti, gravissimi episodi di degrado e corruzione politici. Mi riferisco alla crescente, diffusa sfiducia che i cittadini esprimono nei confronti delle istituzioni politiche, dei partiti e degli uomini politici, come mostrano le più accreditate indagini a livello nazionale e internazionale. Sulla valutazione delle conseguenze che tale distacco tra cittadini e istituzioni politiche può comportare sul lungo periodo le posizioni sono diverse. Vi è chi, osservando la tenuta dei principi e dei valori democratici, mette in luce la tensione esistente tra questi e il concreto funzionamento delle istituzioni nelle principali democrazie occidentali. Tali autori riconoscono ai “cittadini insoddisfatti” un ruolo di critica attiva nel promuovere un miglioramento della qualità della democrazia e nello spronare le istituzioni politiche ad accogliere le richieste provenienti dalla società civile. Altri, invece, ponendo l’accento soprattutto sul declino delle forme tradizionali di partecipazione politica, in particolare la partecipazione al voto e l’impegno nei partiti, che hanno costituito il principale canale di connessione tra società civile e sistema politico nelle democrazie rappresentative, hanno messo in evidenza il diffondersi di una certa passività tra la popolazione e sottolineato – con un maggiore pessimismo – l’ineluttabile incompiutezza della democrazia.

Entrambe le posizioni mettono in luce un lato del problema politico cruciale del nostro tempo, senza però coglierne le ambiguità intrinseche e, soprattutto, i nuovi effetti del “disincanto” della politica democratica. Certamente la fiducia dei cittadini, base della legittimazione democratica, è progressivamente declinata, ma non sempre ciò si traduce in una critica propositiva, nella richiesta di cambiamento e maggiore influenza sulle decisioni politiche, come la prima posizione, più ottimistica, afferma. Inoltre, al contrario di quanto la seconda interpretazione, assai più pessimistica, sostiene, la crescita dell’astensionismo e il declino delle forme tradizionali di partecipazione sempre meno possono essere considerati sinonimo di apatia, indifferenza e passività. In una parola, i cittadini disincantati e insoddisfatti sono critici ma si sentono impotenti. Sono distaccati dalla politica tradizionale ma non disinteressati, né apatici.

 

DECLINA LA PARTECIPAZIONE TRADIZIONALE…

In genere, si tende a concentrare l’attenzione soprattutto sui giovani, tra i quali – si pensa – tutti i fenomeni prima esposti, di disaffezione, sfiducia, passività, assumerebbero caratteri più marcati. Forse, il fatto che siano i giovani a dare vita a movimenti di protesta più o meno passeggeri (dagli Indignados a Occupy Wall Street), ponendosi alla testa di minoranze attive protestatarie, li rende molto più visibili ai media. Ma questo effetto mediatico provoca qualche distorsione riguardo alla generalità dei giovani. Succede, infatti, che a partire dagli anni Ottanta, in Italia, a vedere declinare vistosamente la più tradizionale forma di partecipazione politica, quella elettorale, sono state un po’ tutte le coorti di età della popolazione. I giovani hanno seguito il declino generale ed è solo a partire dalla metà degli anni Novanta che l’astensionismo giovanile ha superato quello delle fasce di età adulte.

Una considerazione analoga può essere fatta anche per un’altra forma di impegno politico tradizionale, l’impegno nei partiti, che, come il voto, è orientato a influenzare la selezione del personale politico e le decisioni da questi assunte. Anche l’iscrizione ai partiti subisce un declino sostenuto a partire dalla metà degli anni Ottanta, anni in cui il trend di crescita dovuto al periodo dei movimenti e dell’effervescenza collettiva si inverte drasticamente. I giovani risultano più distaccati dai partiti di quanto lo siano gli adulti. Si assiste, infatti, a un vero e proprio crollo delle iscrizioni. Mettendo a confronto due indagini nazionali di fi ne anni Sessanta e inizio anni Settanta (indagini SHELL del 1969 e ISVET del 1970) con una di circa dieci anni dopo (indagine IARD del 1983), si vede che in questo lasso di tempo gli aderenti a partiti e gruppi politici si sono dimezzati, scendendo dal 6% al 3%, con una tendenza a un ulteriore debole calo fino ai giorni nostri.

Un altro indicatore importante del crescente gap tra partiti e popolazione è l’attenuarsi del sentimento di vicinanza a un partito, che rileva motivazioni prossime a quello che, ai tempi dei partiti di massa e del potente collante rappresentato dall’ideologia, si usava chiamare “identificazione politica”. Mentre nel 1975 una percentuale elevatissima di italiani (il 60%) si dichiarava vicina (o abbastanza vicina) a un partito, negli anni successivi essa si riduce drasticamente, consolidandosi, negli ultimi anni, tra il 20 e il 30% in tutte le generazioni (dati ITANES).

 

…MA AUMENTA L’IMPEGNO PUBBLICO

La (s)fiducia nelle istituzioni politiche è l’elemento chiave per capire che cosa sia successo e che cosa stia continuando a succedere rispetto alla più importante forma di legittimazione delle democrazie rappresentative: il voto e il ruolo dei partiti. Le indagini nazionali e internazionali mostrano che questo tipo di fiducia è in costante declino in tutta Europa, ma è ai minimi termini proprio nel nostro paese. La percentuale di chi dichiara di avere fiducia nei partiti non ha superato il 4% nel 2011, nel Parlamento il 9%. Dunque, la grandissima maggioranza degli italiani, in particolare dei giovani, appare sfiduciata dalla politica, nei suoi aspetti organizzati e istituzionali.

La sfiducia istituzionale è però un sentimento strano e ambivalente. Può dipendere dalla sensazione di impotenza nel cambiare le cose di fronte al protratto cattivo rendimento delle istituzioni. L’esito sarà allora quella sorta di disincantato scetticismo, così diffuso nelle nostre democrazie, che spinge gli individui a ripiegare sul privato, indifferenti a ciò che succede nelle “alte sfere” e a occuparsi di ciò che appare più a portata di mano. Esso è alla base anche di quel fenomeno paradossale, sottolineato da molti autori, di tolleranza alla corruzione all’interno delle democrazie, regimi che dovrebbero disporre di tutti gli antidoti per combattere questo virus, in primo luogo un’efficace e agguerrita opinione pubblica. Ma la sfiducia istituzionale può anche derivare dalla sensazione di essere stati traditi nelle proprie aspettative e defraudati dei propri ideali politici. L’esito è, in questo caso, più verosimilmente, non la passività e l’apatia, ma un’attività dimostrativa e di denuncia, “impolitica” perché non si pone nell’ottica classicamente politica di influenzare le decisioni delle élite, sostituendo alla responsabilità del governare la critica indignata dell’opacità del potere. Per molto tempo la sfiducia è stata associata solo alla passività, ma già il fatto che la sfiducia istituzionale risulti correlata a elevati livelli di istruzione può rappresentare un importante indizio della presenza di un’inclinazione critica e riflessiva. Sembra proprio che questo secondo tipo di sfiducia abbia giocato un ruolo importante in quanto è accaduto nel mondo giovanile, almeno a partire dagli anni Ottanta. Proprio nel periodo in cui intellettuali e media alzavano alti lamenti sul “riflusso” nel privato e orgogliosamente la generazione dei padri (e delle madri) ricordava con nostalgia la propria vita “per” la politica si stava, invece, diffondendo in tutto il mondo, e anche in Italia, un atteggiamento più secolarizzato, meno totalizzante, verso la partecipazione e l’impegno politici. Alcuni anni dopo sarebbe entrato nell’uso comune parlare di una forma di partecipazione “non convenzionale”, giusto per sottolinearne il carattere di estraneità (ma non di rifiuto) rispetto ai comportamenti tradizionali del voto e della militanza partitica. Questa forma di partecipazione, diversamente da quella più tradizionale, dagli anni Ottanta ai nostri giorni non fa che aumentare. Si tratta di impegno civico, ossia firmare petizioni, appelli e partecipare a manifestazioni, che riguarda circa la metà della popolazione giovanile tra i 18 e i 30 anni. Meno frequentemente si tratta di una partecipazione più radicale, come prendere parte a boicottaggi o manifestazioni non autorizzate. Si tratta, infine, della partecipazione associativa, nell’ambito del volontariato e dell’associazionismo culturale.1 Tale trasformazione, peraltro, non riguarda solo i giovani, ma anche le altre fasce di età della popolazione italiana.

A queste forme di impegno pubblico si deve aggiungere anche un altro fenomeno, di cui si parla molto ma che è ancora assai poco indagato: l’impegno politico realizzato attraverso i social media. Un’indagine nazionale compiuta da poco negli Stati Uniti tra i giovani di età compresa tra i 15 e i 25 anni 2 evidenzia che la metà dei giovani americani (trasversalmente all’origine etnica) si impegna in attività di “politica partecipativa”, ossia in attività che includono dare vita a un nuovo gruppo politico online, scrivere e diffondere dei post che riguardino temi politici, far circolare video di tipo politico nel proprio social network e così via. Gli aspetti peculiari di questo modo di affrontare la politica sono il carattere interattivo, il fatto che si svolga tra pari, il rifiuto della deferenza verso le élite e le istituzioni, l’aggiramento dei tradizionali gatekeepers dell’informazione, la capacità di mobilitazione, l’azione di controllo e di sorveglianza sul potere politico. È, invece, assente ogni tentativo di influire sulle decisioni politiche del governo. In questo caso – ma credo che la considerazione possa estendersi a tutte le società contemporanee – l’attiva impoliticità, di cui anche questi risultati sono un esempio, genera assai più protesta che capacità di influenza e potrebbe avere derive antipolitiche, esacerbando l’idea che il popolo debba limitarsi a sorvegliare quanto avviene nella sfera politica e a esprimere la propria disapprovazione e valutazione etica rifiutando ogni coinvolgimento diretto per cambiare la realtà.

 

LE RAGIONI DELLA (NON) PARTECIPAZIONE

I giovani, dunque, in generale continuano a impegnarsi in una sfera pubblica allargata, con modalità spesso inedite. Ma i giovani non sono tutti uguali. Tra di essi, mostrano più interesse alla politica, presentano maggiori probabilità di andare a votare alle elezioni nazionali, di essere iscritti a partiti e gruppi politici, di prender parte a manifestazioni e a ogni sorta di coinvolgimento in iniziative pubbliche quelli che dispongono di maggiori risorse culturali e sociali. Non si tratta solo di avere risorse individuali, come, ad esempio, un buon livello di istruzione, ma anche di far parte di reti associative, disporre di un capitale culturale familiare e avere genitori impegnati politicamente. Conta, insomma, in maniera rilevante quanto si è appreso in famiglia, attraverso la socializzazione (anche se è la disponibilità all’impegno a essere “trasmessa” dai genitori ai figli, assai più che l’orientamento politico). Il vecchio modello della centralità/ perifericità sociale, formulato agli inizi degli anni Sessanta in ambito politologico per spiegare la partecipazione e secondo il quale sono i soggetti periferici i più estranei alla politica, vale ancora oggi, ma solo in parte. Oltre a quegli aspetti che definiscono la centralità/perifericità sociale di un giovane, ne compaiono oggi anche altri che il modello non considerava. Almeno a partire dagli anni Novanta fa il suo ingresso tra le ragioni della partecipazione – a tutti i livelli considerati – la dimensione etica e ideale. Si partecipa sulla base di valori di libertà, difesa dei diritti umani e civili, salvaguardia della natura, trasparenza e accessibilità della politica. Torniamo nuovamente a quella forma di impegno giovanile “impolitico”, più interessato a giudicare i comportamenti dei politici di professione, a denunciare le malefatte del potere e il malgoverno che a gestire direttamente la cosa pubblica o comunque incidere sulla sua gestione e sulle decisioni che vi sono prese.

Non sorprendono dunque i recenti risultati di una indagine Eurofond 2011 sulla condizione giovanile nei 27 paesi dell’Unione europea, che ha analizzato un settore specifico molto importante sia per le sue connotazioni sociali che per le sue dimensioni: quello dei giovani cosiddetti NEET (Not in Employment, Education or Training, ovvero disoccupati e al di fuori di ogni ciclo di istruzione e formazione). Le dimensioni del problema sono impressionanti: sulla base delle stime Eurostat più recenti, nel 2010 la percentuale di giovani NEET nella fascia di età 15-24 era del 12,8% nei 27 paesi dell’UE, percentuale che corrisponde a circa 7,5 milioni di giovani. Questa percentuale, che varia in modo significativo tra gli Stati membri, ha registrato un aumento rilevante a partire dall’insorgere della crisi. Secondo il rapporto Eurofond, nel 2010 in Italia e nel Regno Unito le dimensioni del gruppo NEET hanno raggiunto la cifra di circa 1,1 milioni tra i giovani di età compresa tra i 15 e i 24 anni. Questo settore giovanile, come mostra la ricerca, è il più esposto alla disaffezione e alla sfiducia rassegnata. I NEET hanno il 70% di probabilità in meno di studenti e giovani lavoratori di far parte di partiti politici; mostrano in misura inferiore agli EET (in Employment, Education or Training) interesse per la politica (il 28% contro il 40%) e, in generale, una assai minore propensione alla partecipazione politica e sociale.

I giovani, nel loro complesso, non corrono per ora il rischio dell’apatia e della indifferente ripulsa della politica, ma quello della marginalizzazione dalla vita sociale e della mancanza di ascolto. Marginalità, incomprensione e restrizione dell’orizzonte di possibilità non fanno che aumentare il rancore e il risentimento verso una democrazia sempre più arroccata e fragile. L’attiva “impoliticità” si potrebbe trasformare davvero in una forma estrema e tragica di antipolitica che nell’oggettivo disordine politico attuale non vede segnali, né possibilità di superamento.

 


[1] Si veda World Values Survey 1981-2008, disponibile qui.

[2] The MacArthur Research Network on Youth and Participatory Politics (YPP), Participatory Politics. New Media and Youth Political Action, disponibile qui.

Acquista la rivista

Abbonati alla rivista