Un nuovo mix di politiche per la crescita globale

Di Paolo Guerrieri Martedì 22 Novembre 2011 18:14 Stampa
Un nuovo mix di politiche per la crescita globale Illustrazione di Emanuele Ragnisco

Gli scenari aperti dalla crisi economica non lasciano spazio all’ottimismo; il mercato da solo non è in grado di generare una domanda adeguata, in assenza della quale la ristrutturazione dell’offerta non può concretizzarsi. Tuttavia, ridurre le disuguaglianze e rilanciare la crescita è possibile: l’individuazione di “nuovi motori della crescita” e il rilancio della cooperazione internazionale diventano prioritari.


Gli scenari di ristagno a livello globale

L’economia mondiale è nel pieno di una fase di transizione dal vecchio ordine bipolare a un contesto multipolare. Gli effetti della grande crisi globale sono ben lungi dall’essere stati riassorbiti: tra questi, vi è l’accelerato ridisegno della mappa delle produzioni a livello mondiale, che va avanti dalla metà degli anni Novanta, sospinto da una grande rivoluzione tecnologica. Si è aperta una fase di interregno, dagli sbocchi tuttora aperti e incerti, che rischia di produrre per svariati anni ristagno ed elevata disoccupazione in tutta l’area avanzata.

Le prospettive dell’economia mondiale sono decisamente peggiorate a partire dalla scorsa estate, in particolare per l’area dei paesi più avanzati. Le maggiori organizzazioni internazionali quali il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale e l’OCSE, hanno rivisto verso il basso le loro proiezioni e scontano un marcato rallentamento negli Stati Uniti e in Europa a cavallo tra la fine dell’anno corrente e l’inizio del prossimo. Nello scenario di previsione più negativo, a cui vengono attribuite probabilità di realizzazione poco inferiori al 50%, si prevede addirittura una vera e propria fase recessiva in tutti i paesi più sviluppati, a partire dalla prima metà del 2012.

Previsioni assai negative che contrastano apertamente con le aspettative ottimistiche di qualche tempo fa. Una volta avviata la ripresa a partire dalla fine del 2009 grazie ai massicci stimoli pubblici monetari e fiscali, si puntava su una sorta di staffetta tra spesa pubblica e spesa privata (consumi più investimenti), che avrebbe dovuto rafforzare e consolidare l’espansione in corso. Ma non è andata così. Venuti meno i benefici effetti degli stimoli fiscali, la ripresa ha cominciato a rallentare nettamente. In realtà gli incrementi della spesa privata si sono rivelati assai modesti, in particolare negli Stati Uniti; anche la dinamica complessiva di crescita dell’intera economia americana ne ha risentito e si è fortemente indebolita.


Eccesso di debiti e disuguaglianze soffocano la ripresa

Tra le cause molteplici di questo anemico andamento della spesa privata figura in primo piano l’eccessivo indebitamento che caratterizza oggi a tutti i livelli – famiglie, banche e governo – l’economia americana. In tali condizioni funzionano poco e/o male le tradizionali politiche di stimolo (monetario e fiscale) della domanda aggregata, che finiscono per favorire maggiori risparmi più che nuove spese di consumatori e imprese. Tanto più che le marcate disuguaglianze economiche – determinate dalla massiccia redistribuzione di reddito verificatasi in questi anni a favore dei percettori di redditi molto elevati – hanno prodotto un notevole abbassamento della propensione alla spesa e quindi della domanda aggregata. Molti studi, anche recenti, dimostrano che una crescente disuguaglianza porta a una minore crescita. Interventi diretti a contrastarla non sono giustificati solo da ragioni di equità, pur se assai rilevanti, ma anche da motivi di efficienza economica.

Ora, il ristagno americano ha finito per generare un rallentamento economico globale, dal momento che nessun altro paese è oggi in grado di sostituire gli Stati Uniti nel loro ruolo di motore chiave della domanda aggregata e, quindi, della crescita mondiale. Per capire il perché bisogna guardare ai profondi cambiamenti intervenuti nel regime macroeconomico internazionale in questi anni e ai peculiari meccanismi di funzionamento del sistema economico multipolare, che si è affermato con l’ascesa dei nuovi attori globali quali Cina, India e Brasile.


I difficili equilibri del sistema multipolare

Va ricordato innanzitutto che a partire dai primi anni Novanta le politiche mercantilistiche di molti paesi hanno rappresentato un tratto distintivo del funzionamento del sistema macroeconomico internazionale. Paesi avanzati, come la Germania, e paesi emergenti dell’Asia, come la Cina, hanno realizzato strategie di crescita “export-led” e hanno accumulato crescenti avanzi commerciali.

Queste politiche non hanno penalizzato la crescita dell’economia mondiale nel suo complesso, mantenutasi molto elevata durante due decenni, in quanto gli Stati Uniti hanno giocato il ruolo di paese residuale (ennesimo) del sistema aumentando il loro deficit commerciale così da aggiustare la somma algebrica ex ante dei surplus e dei deficit degli altri n-1 paesi, considerato il gioco a somma zero, com’è noto, che caratterizza i saldi delle bilance dei pagamenti dei paesi su scala mondiale. Le politiche espansive e il conseguente deficit commerciale americano hanno avuto un rilevante effetto positivo di sostegno alla domanda effettiva globale (e alla crescita), mentre gli Stati Uniti riuscivano a ottenere finanziamenti a basso costo dai paesi emergenti dell’Asia (soprattutto dalla Cina) in avanzo commerciale.

Senza dubbio si è trattato di un “sistema di squilibri” assai peculiare che ha poi mostrato tutta la sua fragilità nell’ultimo periodo, sfociando nella recente gravissima crisi.

La novità è che nel nuovo contesto multipolare che si va configurando a livello internazionale non vi è più alcun paese in grado di svolgere il ruolo residuale di ennesima componente del sistema. Gli Stati Uniti, in particolare, a causa dell’enorme debito accumulato in quest’ultimo decennio (da famiglie, imprese e Stato), non potranno più fungere da paese consumatore di ultima istanza che registra ampi e crescenti disavanzi correnti così da neutralizzare gli avanzi di altri paesi. Ciò comporta che nell’attuale sistema multipolare, le politiche mercantiliste dei paesi in surplus – come Cina, Giappone, Germania ed emergenti – non troveranno più adeguate compensazioni e finiranno per infliggere un bias deflazionistico all’intera economia mondiale. E la crisi ha attenuato, non certo risolto, questi preoccupanti squilibri geografici nella domanda globale.


Alla ricerca di nuovi motori della crescita

A questo punto le previsioni delle maggiori organizzazioni internazionali sembrano dare per scontato l’affermarsi inevitabile degli scenari più negativi. Eppure spazi di intervento, volendo, si potrebbero ancora trovare. Servirebbero innanzitutto politiche di sostegno e stimolo alla domanda globale. Evitando che politiche di austerità fiscale siano applicate su scala generalizzata, come si sta facendo ora. Servono ricette differenziate: i paesi più indebitati, come quelli della periferia dell’Europa, devono continuare a perseguire politiche di rigore fiscale; mentre altri paesi – quali Stati Uniti, Germania, Cina – che possono farlo dovrebbero fornire questi stimoli, inserendoli in un piano di aggiustamento a medio termine dei loro bilanci pubblici.

Interventi del genere sopra indicato richiedono necessariamente un adeguato livello di coordinamento internazionale delle politiche economiche dei maggiori paesi da realizzare, ad esempio, nell’ambito del G20. Si vedrà, comunque, il 3 novembre alla prossima riunione del G20 a Cannes quali possibilità ci siano di mettere in piedi una tale ricetta. A giudicare, tuttavia, dalle anticipazioni della vigilia le probabilità ad oggi appaiono estremamente modeste.

Interventi in grado di agire sulla domanda, seppur necessari, non sono sufficienti. Servono anche misure rivolte a fronteggiare i problemi di struttura dell’offerta produttiva, lasciati in eredità dalle debolezze del modello di sviluppo prevalso nei due decenni antecedenti la crisi e da essa aggravati. È evidente che per rilanciare in modo stabile la dinamica di crescita non sarà sufficiente produrre ciò che risultava profittevole prima della crisi. Bisognerà sforzarsi di incentivare e riallocare le risorse verso nuovi prodotti e settori in grado di soddisfare bisogni privati e pubblici (infrastrutture materiali e immateriali, energie rinnovabili, sanità, istruzione). In altre parole, per tutte le economie avanzate lasciarsi alle spalle le conseguenze della grande crisi significherà promuovere investimenti pubblici e privati in aree in grado di fungere da “nuovi motori della crescita”. E anche in questo caso servirà un certo grado – seppur minore rispetto agli interventi a sostegno della domanda – di cooperazione internazionale.


Il ristagno e i crescenti squilibri dell’area euro

Tutto ciò è molto evidente in Europa ove si praticano, viceversa, politiche generalizzate di austerità e/o restrizione della spesa destinate ad aggravare le tendenze recessive. È così in atto un netto rallentamento economico e la prospettiva – negli scenari più ottimistici di superamento della crisi del debito – di un ristagno più o meno prolungato dell’area euro nel suo insieme. È fuor di dubbio che il consolidamento fiscale dei paesi più indebitati dell’Europa dipenda in misura determinante dalla crescita europea. In assenza di una dinamica di espansione, l’austerità fiscale, oggi perseguita dai più, rischia di divenire in poco tempo intollerabile e trasformarsi in un vero e proprio boomerang per questi stessi paesi. A meno di non contare su altamente improbabili – e di fatto mai verificatisi in un’area grande quale l’Europa – aumenti di domanda da parte di famiglie e imprese indotti da una ritrovata fiducia ispirata da bilanci pubblici in via di risanamento.

In assenza di interventi, si rischia di procrastinare uno scenario macroeconomico caratterizzato da crescita bassa per l’Europa nel suo complesso, accompagnata da un ampliamento della distanza che separa oggi i paesi veloci (Germania e Olanda in primo luogo) da quelli lenti (economie dell’area meridionale, inclusa quella italiana). Sono aspetti che si intrecciano tra di loro. Bisogna tener conto, infatti, che la bassa espansione è anche il riflesso di un modello di crescita che in molti paesi – innanzitutto in Germania – è trainato per lo più dall’export e dalla domanda esterna e solo in minima parte da quella interna. È un modello che, necessariamente, assume le connotazioni di un gioco a somma zero: alcune economie della regione ne traggono beneficio (in testa la Germania) mentre altre vengono penalizzate (soprattutto i paesi della periferia dell’eurozona).

Per buona parte dello scorso decennio, la forte crescita dell’economia globale e l’abbondante disponibilità di liquidità internazionale – messe in luce in precedenza – hanno consentito di contenere gli effetti negativi della dinamica di crescita squilibrata dell’area dell’euro. Ma così non è più stato nel corso della debole ripresa dopo la crisi e così non sarà più nei prossimi anni per le ragioni prima ricordate. Il risultato finale potrebbe essere quello di aggravare ulteriormente il rischio di ristagno della zona euro e gli squilibri esistenti all’interno dell’area, con drammatiche conseguenze sulle future possibili evoluzioni della crisi del debito.


Serve un nuovo mix di politiche di domanda e d’offerta

Se la diagnosi fin qui delineata è corretta, la medicina da applicare per evitare un ristagno globale dell’attività economica unitamente al rischio di una prolungata depressione di stile giapponese è rappresentata da un insieme di politiche e interventi in grado di fronteggiare contemporaneamente sia la debole domanda aggregata sia il deficit dell’offerta. In altri termini, la grande sfida sta nel realizzare simultaneamente un mix di politiche di domanda di stampo keynesiano e di politiche in grado di agire dal lato dell’offerta, ispirate alla visione schumpeteriana dello sviluppo come forza di “distruzione creatrice”. Il sentiero che ci può condurre a una nuova fase di crescita sostenuta e stabile passa in effetti di qui: dalla costruzione di nuove infrastrutture, dalla riqualificazione del lavoro, da energie pulite e rinnovabili e non dall’alimentare nuove bolle speculative a sostegno dei consumi.

Tutto ciò comporta riaffermare quel delicato giusto equilibrio tra mercati e fornitura di beni pubblici che è alla base dell’efficiente funzionamento di un’economia di mercato orientata alla crescita. Un equilibrio che negli ultimi decenni la fase del liberismo ideologico e della globalizzazione senza regole ha spezzato generando crescenti instabilità, disuguaglianze e una eccessiva concentrazione del potere economico e finanziario nelle mani di una ristretta élite.

È necessario ristabilirlo non certo tornando alle forme di statalismo degli anni Sessanta e Settanta, ma promuovendo nuove politiche di intervento del tipo prima delineato. Solo mettendo in campo queste rinnovate strategie sarà possibile cominciare a ridurre le disuguaglianze e rilanciare la crescita globale e, attraverso essa, rispettare i vincoli, sempre più stringenti, derivanti dal necessario consolidamento dei debiti pubblici. Solo un ritorno alla creazione di ricchezza e occupazione può in effetti assicurare nell’area avanzata il graduale riassorbimento dell’eccesso di debiti esistente.

Per ora, tuttavia, siamo ben lontani dal mettere in atto tutto ciò. Negli Stati Uniti si continuano a riproporre tradizionali politiche di stimolo alla domanda di consumi, destinate a scontrarsi con l’eccesso di debiti, e in Europa – come abbiamo visto – va anche peggio.

Il risultato è la trappola a livello globale in cui siamo oggi imprigionati: il mercato lasciato a se stesso non è in grado di generare un’adeguata domanda, da un lato; la necessaria ristrutturazione dell’offerta, dall’altro, non riesce a dispiegarsi in assenza di una sufficiente domanda che la sorregga e la renda conveniente. Di qui le previsioni di prolungato ristagno se non addirittura di recessione globale.

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