Partito e sindacato “in convergente disaccordo”

Di Paolo Feltrin Martedì 28 Gennaio 2020 09:59 Stampa

Di recente, Jelle Visser, uno studioso olandese che da decenni ag­giorna il più completo database sulla sindacalizzazione nel mondo, è tornato a riproporre la spiegazione mainstream del declino sindacale nel mondo come dovuta alle difficoltà nell’entrare in rapporto con quella che, con gergo desueto, potremmo chiamare “la nuova com­posizione di classe” (terziario, piccole dimensioni aziendali, giovani, donne, precariato, immigrati). Di qui un’attenzione – forse eccessi­vamente esasperata – ai temi della nuova sindacalizzazione di questi segmenti del mercato del lavoro, magari con l’aiuto del sostegno po­litico e istituzionale o, alternativamente, dei movimenti oppositivi di base a scala locale. Il caso italiano appare poco presente in queste comparazioni a largo raggio, anche se potrebbe offrire spunti di ri­flessione alternativi, non fosse altro perché queste ricette, proposte da almeno tre decenni, a partire dalle esperienze angloamericane di “Revitalizing Unions”, finora non hanno dimostrato grande efficacia.

Una diversa prospettiva di analisi è possibile.

Spesso, quando si confronta la condizione attuale con le epoche passate, si tende a inclinare verso interpretazioni del tipo mundus inclinat in deteriora, mentre, anche solo in via ipotetica, si potrebbe compiere l’esercizio di pensare che le cose sarebbero potute andare molto peggio. Nel caso italiano, ciò che è realmente curioso non è il declino del fenomeno sindacale, ma le ragioni che ne spiegano la sopravvivenza, la persistenza, a volte perfino il rafforzamento or­ganizzativo. Pertanto la domanda da farsi è: come mai il sindacato italiano, il sindacato confederale, non è stato travolto dall’onda mon­tante della rivoluzione digitale, della globalizzazione e delle politi­che neoliberiste? Non mancano altrove esempi di crisi drammatiche, basta guardare al declino sindacale in Inghilterra o negli Stati Uniti, ben raccontato nel recentissimo documentario di Steven Bognar e Julia Reichert “American Factory”, distribuito da Netflix con il titolo “Made in USA. Una fabbrica in Ohio”.

Guardando i trend sulla sindacalizzazione si nota con evidenza, dopo il punto massimo di fine anni Settanta, una forte caduta del tessera­mento sindacale lungo quasi tutti gli anni Ottanta. Successivamente le cose cambiano e il declino rallenta vistosamente, fino a registrare addirittura dei recuperi, per quanto limitati. Se il trend degli anni Ottanta fosse proseguito con lo stesso andamento negativo, oggi i tassi di sindacalizzazione sarebbero inferiori al 20%, invece si man­tengono leggermente sopra o poco sotto la soglia del 30%, a seconda dei metodi di calcolo. Di nuovo: come mai questa “resilienza” sinda­cale? Si tratta cioè di capire perché il sindacato italiano, almeno dal punto di vista organizzativo, abbia mostrato a partire dai primissimi anni Novanta una tenuta maggiore rispetto a larga parte dei sinda­cati dei paesi avanzati. Di questo successo organizzativo del nostro sindacalismo quasi ci si vergogna, se ne parla poco o nulla, per la pro­babile ragione che analizzare questi dati porterebbe alla luce aspetti del modello organizzativo confederale non del tutto compatibili con le retoriche sindacali di tipo tradizionale, tutte rivolte alla rappresen­tanza sui luoghi di lavoro, e poco o nient’affatto interessate alle tutele specifiche dei singoli lavoratori (e dei cittadini) in carne e ossa. Par­lare delle ragioni per cui il sindacato – lo ripetiamo, dal punto vista organizzativo – è andato meglio del previsto significa infatti parlare di alcuni effetti non previsti di azioni (in parte) non volute.

 

TRE PREMESSE SUL CAMBIAMENTO STORICO E SU COME OSSERVARLO

Per avviare questo ragionamento occorre partire da tre premesse. La prima è che la storia non va avanti a senso unico, come a volte in modo ingenuo tendiamo a pensare, ma può presentare un percorso tortuoso, con momenti di stagnazione o anche di arretramento per quanto riguarda la forza tanto dei diversi gruppi sociali quanto del­le loro espressioni rappresentative, siano essi movimenti, sindacati o partiti. Acquisita questa consapevolezza occorre chiedersi come si organizzano le ritirate, ovvero come si gestiscono le fasi storiche nel­le quali i rapporti di forza sono sfavorevoli. Come è ben noto, un esempio in questo senso lo offre Gramsci, che ha riflettuto a lungo, negli anni trascorsi in carcere, su come sopravvivere alla sconfitta della propria parte, proponendo finanche l’idea di una qualche com­promissione sul terreno avversario, come quando suggeriva strategie “entriste” nel sindacalismo di regime. Era ben chiara a Gramsci la necessità assoluta di salvaguardare la propria sopravvivenza organiz­zativa, perché solo a questa condizione si sareb­bero potute sfruttare le debolezze degli avversari e gli eventuali, magari inattesi, tornanti della storia. Anche questo è un modo di affrontare la questione del sindacalismo. Insomma, il pri­mum vivere è per i sindacati una priorità asso­luta, senza la quale il rischio è quello di cadere nella trappola delle cosiddette heroic defeats (le sconfitte gloriose), quelle che si ricordano nelle ballate militanti ma lasciano i lavoratori privi di qualsiasi tutela organizzata.

La seconda premessa è la seguente: il sindaca­to ha perso il suo fascino, non interessa più dal punto di vista intellettuale, è visto con sufficien­za dai mezzi di informazione. Già quindici anni fa lo studioso ame­ricano Michael J. Piore prendeva atto della chiusura dei dipartimenti di relazioni industriali nel mondo angloamericano, sostituiti dalle scuole di human relations; con qualche lustro di ritardo, la stessa sor­te sta toccando agli insegnamenti universitari di diritto del lavoro e di relazioni sindacali in molti paesi europei. Ne deriva una sorta di strabismo analitico dovuto alla circostanza che, mentre il sindacato si ringiovanisce, chi continua a occuparsi di sindacato invecchia: gli studi sindacali sono spesso appannaggio di docenti e studiosi an­ziani, che si occupano da svariati decenni di questi temi, con scarso apporto di risorse e sguardi nuovi.

Ciò suggerisce l’opportunità di guardare con occhiali nuovi e diversi dal passato al fenomeno sindacale, quantomeno se si vuol davvero capire in quale direzione sta andando mentre, viceversa, il rischio è di rimanere prigionieri degli infiniti stereotipi del “mondo di ieri”. Sot­to questo profilo il sindacalismo mostra una straordinaria capacità di aderire alle trasformazioni del mondo del lavoro. Cambiando la pro­pria pelle: vale a dire adeguandosi alla terziarizzazione dell’economia, facendosi egli stesso organizzazione di servizi e tutele prevalentemen­te individuali, adeguando in questo modo quello che chiamo il suo “sistema di offerta” alle domande del mondo del lavoro di oggi, in prevalenza più femminilizzato, più giovane, più istruito, più mobile.

Un’ultima osservazione iniziale riguarda il fatto che, al contrario di quanto ci si attenderebbe, la stragrande maggioranza di chi lavora si dichiara soddisfatto del proprio lavoro, almeno sulla base delle (frammentarie) indagini internazionali sul clima interno ai luoghi di lavoro. Di sicuro, il cosiddetto “benessere organizzativo” – così viene chiamato nel gergo contemporaneo della gestione delle risorse umane – sembra molto più elevato rispetto ai decenni passati. Spesso invece leggiamo resoconti dai quali sembra che tutti i lavoratori ab­biano peggiorato le proprie condizioni di lavoro, e che vivano l’espe­rienza lavorativa come dramma, sfruttamento, mancato rispetto dei diritti. Tuttavia, non abbiamo alcuna evidenza empirica che questa descrizione a tinte fosche corrisponda al vero, tranne che per alcune sezioni ben delimitate del mondo del lavoro, alle quali verrà dedicato uno specifico approfondimento in seguito. Grosso modo, il 75-80% dei lavoratori di questo paese, come pure di molti altri paesi svilup­pati, dichiara di stare bene al lavoro, anzi considera il lavoro che fa un motivo di identificazione e realizzazione delle proprie aspirazioni. Si nota spesso scetticismo verso affermazioni di questo tipo, e tuttavia bisogna essere cauti rispetto alle letture troppo catastrofiste, perché i “tempi moderni” sono davvero cambiati, e i luoghi di lavoro sono quasi ovunque altra cosa rispetto a quaranta anni fa. Come riflesso di tanti cambiamenti – dell’azione sindacale, del progresso tecnico e delle nuove politiche del personale – per larga parte dei posti di lavoro fatica, penosità, sicurezza, nocività, ambiente, relazioni con i superiori, rispetto del diritto del lavoro sono tutt’altra cosa rispetto agli anni Settanta. Va ribadito che a questi esiti hanno contribuito le conquiste sindacali di allora che si sono – per così dire – “inverate” in una legislazione del lavoro e della sicurezza molto efficaci e pervasive, la cui elusione non è affatto conveniente. Perché non riconoscerlo, accettando l’idea che la sola esistenza del sindacalismo imponga alla stragrande maggioranza delle aziende comportamenti responsabili? Ciò non significa che non ci siano situazioni di prevaricazione e di oppressione sul lavoro, ma solo che adesso sono molto meno nume­rose di quanto a volte si creda, anche grazie – va ancora ripetuto – alla trasformazione delle conquiste sindacali in norme legislative difficili o non convenienti da eludere.

Anche la fine della grande fabbrica, o il fatto che ve ne siano molte meno, da chi oggi lavora è vissuta come una liberazione, non come un arretramento. La nostalgia della (grande) fabbrica è in realtà una prerogativa di chi attualmente è pensionato ed era giovane cin­quant’anni fa. D’altra parte, riflettendoci, non è chiaro perché do­vrebbe essere giudicato positivo lavorare per quarant’anni in aziende di decine di migliaia di persone. Alcuni lamentano come fatto ne­gativo le dimensioni ridotte tipiche dei luoghi di lavoro terziari nel­le economie contemporanee, ma le persone in carne e ossa trovano molto più piacevole lavorare in negozi e uffici di poche unità, basati su relazioni vis-à-vis, senza ritmi vincolati, piuttosto che stare stipati in capannoni di migliaia di persone a fare tutto il giorno sempre le stesse identiche operazioni. Semmai, andrebbe portata maggiore attenzione agli elementi di insoddisfazione fuori dal posto di lavoro, dove il disagio è molto più elevato: basti pensare ai quartieri periferi­ci, ai territori marginali, alla scarsità di servizi ai cittadini ecc.

 

COME SOPRAVVIVERE ALLA FINE DEL PARTITO AMICO

Dalla contestualizzazione effettuata fin qui emerge la tesi di una cri­si della socialdemocrazia molto più legata all’azione politica fuori dai luoghi di lavoro e in larga parte indipendente dalle traversie del sindacato. Torniamo così alla domanda iniziale: come mai la crisi della socialdemocrazia non ha travolto con eguale forza il sindacato? Come mai il declino del cosiddetto “partito amico” non ha messo in crisi anche il mestiere sindacale?

Una prima risposta introduttiva è che la vicenda storica del sindaca­lismo precede l’epoca della socialdemocrazia e continua anche oltre il suo declino. In altri termini, la storia del sindacalismo va nettamente distinta dalla storia della socialdemocrazia. Sono due percorsi che per un periodo si sono abbracciati e hanno camminato fianco a fian­co, ma che a ben vedere non si erano incrociati prima dell’avvento della socialdemocrazia novecentesca, e forse non lo faranno lungo il Ventunesimo secolo, del quale abbiamo già percorso i primi due decenni. Il sindacalismo come forma organizzativa della tutela di chi lavora dimostra una straordinaria capacità camaleontica di adattamento, anche in “tempi difficili” e avversi come quelli attuali. Sopravvive, riemerge ovunque, anche dove meno te lo aspet­ti, in forme nuove, a volte inedite; costituisce dunque un’esperienza viva dell’attualità, non un cane morto del passato come, almeno in parte, è invece la socialdemocrazia. Questo elemento di vitalità, tuttavia, si vede meglio quando ne ven­gono messe a fuoco alcune caratteristiche, non prive di elementi problematici. La prima riguar­da la centralità del settore terziario, che impiega il 75% dei 23 milioni di occupati in questo pa­ese. In altri contesti europei e negli Stati Uniti siamo già all’80-85% di occupazione terziaria. Dopo il terziario c’è l’industria, ma vale la pena ricordare come la manifattura in senso stretto, senza cioè l’edilizia, oggi in Italia occupi appe­na 4 milioni circa di lavoratori. Questa mutata “composizione di classe” – per usare i termini antichi utilizzati più sopra – esprime domande di tutela che il sin­dacato italiano è stato in grado di intercettare attraverso una trasfor­mazione implicita, mai dichiarata esplicitamente, del suo “sistema di offerta”, e nonostante uno iato evidente tra la retorica antica delle dichiarazioni ufficiali e una prassi quotidiana molto pragmatica. Po­tremmo dire che il sindacato “razzola bene anche se predica male”.

Di recente la rivista “Una città” ha pubblicato un’intervista a Elena Lattuada, segretario regionale della CGIL Lombardia, tutta dedicata al tema di come svolgere tutele sindacali in una società terziaria.1 Dal momento che normalmente si parla di imprese di piccole o piccolis­sime dimensioni, è inevitabile che le tutele e la rappresentanza siano innanzitutto di tipo individuale, ovvero che la rappresentanza collet­tiva debba tradursi in beni e servizi di tipo individuale. Basta entrare in una sede sindacale: assistenza ad personam sul contratto nazionale, uffici vertenze, CAF, patronati, uffici immigrati ecc. Queste attività costituiscono la spina dorsale del sistema di offerta sindacale. In que­sto modo in Lombardia, secondo l’intervista citata, ci si assicura ogni anno quasi il 45% del tesseramento. Si tratta di un cambio di pelle in parte inconsapevole, in parte ca­suale, ma se il sindacato oggi gode di (relativa) buona salute, sempre tenendo conto dei tempi difficili nei quali viviamo e del confronto con le altre esperienze sindacali, lo si deve ad alcune scelte preterin­tenzionali compiute in modo condiviso dai tre sindacati confederali negli anni Ottanta e nei primi anni Novanta, proprio nel momento di massima divaricazione delle strategie di CGIL, CISL e UIL. Dopo la sconfitta alla Fiat nel 1980, la stagione dell’unità sindacale deperì rapidamente, sostituita da tre diverse prospettive politico-organizza­tive: a) la linea di difesa a oltranza della scala mobile da parte di Bru­no Trentin (CGIL) poi integrata dalla teorizzazione della difesa anta­gonista dei diritti (individuali e) indisponibili di tutti i lavoratori, di cui il sindacato avrebbe dovuto diventare il tutore e il propugnatore; b) l’opzione della concertazione, dello scambio politico e del neocor­porativismo proposta da Pierre Carniti (CISL) con l’ambizione di farsi carico del ruolo politico del sindacato attraverso l’assunzione di responsabilità di governo delle società complesse; c) infine l’idea di Giorgio Benvenuto (UIL) di un sindacato che va oltre i confini cor­porativi del lavoro dipendente, a difesa non solo dei lavoratori, ma in grado di esercitare la tutela dei cittadini in tutti i mondi vitali in cui si trovano a vivere in condizione di subalternità o disagio.

Per larga parte degli anni Ottanta queste tre opzioni strategiche si scontrarono aspramente, anche a causa delle interferenze del partito amico, il PCI, nelle scelte della CGIL. Basti pensare alla successione di almeno i seguenti episodi: a) l’opposizione di Berlinguer all’accor­do firmato da Lama, Carniti e Benvenuto il 2 luglio 1980 sul fondo di solidarietà dello 0,50%, una trattenuta nelle buste paga dei lavo­ratori finalizzata allo sviluppo industriale; b) l’intervento dello stesso Berlinguer ai cancelli della Fiat il 26 settembre 1980; c) la rottura dell’unità sindacale in conseguenza dell’accordo separato sulla scala mobile di San Valentino il 14 febbraio 1984; d) la sconfitta del PCI e della CGIL (almeno in parte) nel referendum del 10 giugno 1985 sul ripristino dei punti della scala mobile tagliati l’anno prima; e) la gestione della successione alla segreteria generale della CGIL dopo la lunga stagione di Luciano Lama con la scelta di Antonio Pizzinato (11 marzo 1986); f ) la defenestrazione di quest’ultimo con una vera e propria congiura che portò Bruno Trentin al vertice della CGIL (29 novembre 1988). Le pagine dei diari di Trentin offrono lo spunto per aprire uno squar­cio sulla dialettica interna al gruppo dirigente della CGIL in quegli anni cruciali, gli anni Ottanta, ancora in attesa di una adeguata si­stemazione storiografica. L’interrogativo è: come si fa a tenere unito un gruppo dirigente che si va dividendo lungo traiettorie tra loro incompatibili, senza più l’ombrello protettore del partito amico, or­mai incapace di scelte avvedute? Questo sembra essere il dramma di Trentin: vede il baratro in cui la “sua” CGIL sta precipitando, tenta la mossa del cavallo immaginando di poterlo evitare con la strategia dei diritti, il sindacato-programma, ma l’astrattezza delle proposte amplifica i dissensi interni al gruppo dirigente centrale invece di smussarli. Alcuni protagonisti dell’epoca, ad esempio Luigi Agostini, individuano il punto di avvio del circolo vizioso nella “defenestra­zione” di Pizzinato, i cui retroscena, compresi gli antecedenti della fase finale della segreteria di Luciano Lama, sono ancora tutti da scrivere. L’impressione è che il “male oscuro” della CGIL di cui parla Trentin si sia alimentato del groviglio di problemi non risolti in quel peccato originale successorio tra 1985 e 1986. Le stesse traversie post 1989, pare di capire, avrebbero potuto avere altro svolgimento se si fossero sciolti i grumi strategici irrisolti lasciati in sospeso in occa­sione dell’avvicendamento a Lama, ovvero il necessario chiarimento strategico (teorico) dopo la sconfitta del 1985 nel referendum sulla scala mobile.

Non a caso in tutti gli anni della segreteria Trentin la scala mobile rimane come perenne convitato di pietra, in buona compagnia con il clamoroso errore di strategia che ha portato nel 1980 l’intero sin­dacato italiano nel vicolo cieco della più grande sconfitta operaia del secolo. E a poco serve esaltare quell’accordo torinese scrivendo che è stata una vittoria incompresa, come fa in modo stupefacente Pio Galli in “Fiat 1980. Sindrome della sconfitta”.2 Una ipotesi di lavoro è che la mancata riflessione strategica sui cambiamenti e le sconfitte della prima metà degli anni Ottanta condussero la CGIL totalmente disarmata all’appuntamento fatale del 1992, quando inevitabilmente tutti i nodi arrivarono al pettine. Al contrario di quanto molti scrivo­no, nello scontro interno al palazzo di Corso d’Italia, come sul Tita­nic in corsa verso il disastro, incapaci di confrontarsi con la realtà, si diedero battaglia i fantasmi di due opposte ideologie novecentesche, ipostatizzate intorno alle parole d’ordine del “sindacato dei diritti” (Trentin) e della “scala mobile non si tocca” come linea Maginot su cui resistere senza se senza ma (Bertinotti, Agostini, Garavini ecc.). La tesi di quest’ultimi ancora oggi è che la scala mobile funzionava come una aurea catena che teneva insieme un blocco sociale inattaccabile, senza avvertire che quel blocco sociale era stato davvero unificato dal­la scala mobile negli anni Settanta, ma non lo era più da tempo nei primi anni Novanta, dopo la disintegrazione degli anni Ottanta, sulla quale era mancata – come già abbiamo ricordato – una adeguata ri­flessione teorica. La controprova? Se davvero fosse stato così solido lo schieramento sociale a favore della scala mobile non si sarebbe sciolto come neve al sole di fronte alla minaccia di dimissioni di Amato il 31 luglio 1992. Insomma, la cancellazione della scala mobile non produceva la frantumazione del fronte sociale, ma semplicemente ne prendeva atto e lo certificava in termini di decreto legislativo.

Tuttavia, al netto del contorno retorico e ideologico, vi erano abboz­zi di “preveggenza” tanto nell’idea della tutela dei diritti di Trentin, quanto nell’opzione di un sindacalismo responsabile e governativo del Carniti seconda maniera, come pure nell’ipotesi di sindacato dei cittadini avanzata da Benvenuto. La curiosa mistura di queste tre idee ha dato origine a una sensibilità tutta italiana per i servizi indivi­duali, intesi come un possibile approdo, un riparo nel quale mettere in sicurezza le organizzazioni sindacali nei tempi duri che stavano arrivando. Nessuno dei tre aveva la più pallida idea di come sarebbe­ro state concretamente interpretate le loro intuizioni, come nessuno dei tre aveva alcun presagio della durezza dei tempi nuovi in via di maturazione. La miscela generata in modo involontario trent’anni fa non ha equivalenti noti altrove nel mondo: tre sindacati nazio­nali, tutti e tre confederali, in tutto e per tutto simili tranne che per una blanda colorazione politica, formalmente divisi ma quasi sempre uniti, tutti e tre a svolgere (a Roma e sul territorio) più o meno le stesse identiche attività, ovvero contrattazione nazionale e azienda­le, tutele individuali, difesa dei pensionati, servizi ai lavoratori e ai cittadini. Se guardiamo il sindacato dal punto di vista organizzativo c’è da rimanere sorpresi: oggi CGIL, CISL e UIL hanno il massimo di sedi mai avute in Italia, più di 7000; un numero di stipendiati mai raggiunto prima, circa 25.000; almeno 200.000 delegati eletti nei luoghi di lavoro; un fatturato di quasi 2 miliardi l’anno; oltre 5.000.000 di pensionati iscritti; un numero di iscritti attivi più basso dell’apice di fine anni Settanta, poco più di 6.000.000, anche se in tema di tesseramento le valutazioni sono sempre articolate, per usare un’espressione diplomatica, data la natura volontaria – diciamo così – delle autocertificazioni sindacali. Molti altri sindacati in giro per il mondo ci invidiano questa tenuta organizzativa. Essa dipende in primo luogo dal “multiverso” di attività offerte, e questo vale per una qualsiasi sede sindacale nel più sperduto angolo del paese.

 

COSA FA IL SINDACATO OGGI

Proviamo allora a elencare i mestieri svolti dentro una qualsiasi delle tre confederazioni. In primo luogo i sindacalisti fanno una certosi­na manutenzione contrattuale: senza contratto nazionale di lavoro, niente sindacato come lo conosciamo qui da noi. Anche quando, come in anni recenti, il contratto nazionale di lavoro porta a casa poco o nulla, la sua funzione è importante per il solo fatto di esserci e di venire rinnovato, magari con contratti separati come per due volte nei meccanici: è comunque utile, e questo anche per chi non lo firma. Questa manutenzione contrattuale viene fatta ogni giorno in azienda, nei recapiti sindacali, negli uffici vertenze, dal momento che il contratto produce diritti legalmente riconosciuti davanti a qualsia-si pretore del lavoro (il recupero inatteso di Trentin). Ora, questa dimensione del contratto nazionale spiega la differenza tra i sinda­cati che resistono, specie in Europa, e quelli che vacillano, come nel mondo angloamericano, dove non troviamo, o solo marginalmente, il contratto nazionale di lavoro.

La seconda azione che il sindacato italiano svolge consiste in una con­tinua attività di lobbying e pressione su ministeri, Parlamento e go­verno, per garantire una legislazione di favore ai lavoratori dipendenti e ai cittadini meno abbienti. Siccome lobby sembra una brutta parola nessuno ne parla, ma si tratta di un’attività importante, fatta dalle segreterie confederali nazionali con sede nella capitale, e tutta basata su un implicito scambio politico, con alla base richieste responsabili e conflitto regolato (il recupero inatteso di Carniti). La terza grande area di attività sono i servizi individuali ai lavoratori, ai pensiona­ti, ai cittadini (vertenze individuali, CAF, patronati). Ad esempio, i CAF e i patronati non si occupano solo di dichiarazioni dei redditi e delle pensioni, ma anche di ISEE, successioni, reddito di cittadinan­za, regolarizzazione delle badanti, domande di disoccupazione ecc., una marea di attività minute ma indispensabili per sopravvivere nella giungla di adempimenti in cui tutti noi siamo coinvolti (il recupero inatteso di Benvenuto). Attraverso queste pratiche e servizi indivi­duali, il sindacato italiano entra in contatto grossomodo con oltre 10.000.000 persone ogni anno, il che significa 10.000.000 persone che una o più volte l’anno entrano in una sede sindacale.

Qualcuno potrà storcere il naso, ma in tempi difficili non è già un successo resistere salvando l’organizzazione? È da questo che si vede anche la differenza tra il partito e il sindacato. Il partito oggi non ha sedi, non ha funzionari, non ha iscritti, non offre nulla alla propria base; le sedi sindacali sono invece affollate di gente, dalla mattina alla sera. Non a caso le sedi sindacali di moderna concezione asso­migliano sempre più a un centro commerciale: sono collocate in periferia, con grandi parcheggi, preferibilmente a piano terra; all’ingresso si trova un banco di accoglienza, poi sale di attesa, il bar, lo spaccio di prodotti equosolidali e così via. I vecchi uffici delle categorie stanno ai piani su­periori o in una sede laterale. Lo ripeto: si tratta di un esito non voluto e non previsto delle ten­sioni sindacali di quarant’anni fa. A partire dagli anni Ottanta, non sapendo come affrontare la crisi incipiente, non potendo sposare in toto né l’opzione Carniti, né l’opzione Benvenu­to, né quella Trentin, il sindacato ha optato per tutte e tre le scelte, ritraducendole in opzioni organizzative tra loro compatibili. Innan­zitutto, costruendo il sindacato dei pensionati a tutela dei diritti dei non attivi, che, tra l’altro, si è rivelato una fonte inattesa per compen­sare le risorse economiche declinanti provenienti dai lavoratori attivi, consentendo di gestire la transizione ai primi anni Novanta. Tuttora i sindacati dei pensionati sono importanti per garantire un flusso co­stante di risorse finanziarie, senza vincoli di destinazione immediata, decisivo per la sopravvivenza del sindacato. In secondo luogo, mesco­lando scambio politico, diritti e servizi ai cittadini, il sindacato ha ot­tenuto nel 1993 una delega da parte dello Stato a costruire i CAF. Lo possiamo interpretare come un tipico rapporto di agenzia, nel quale un soggetto privato collettivo svolge compiti pubblici in nome e per conto dello Stato. A questa prima sperimentazione ne sono seguite molte altre, affidando sempre nuovi compiti ai CAF e ai patronati. Il terzo filone, anche questo non teorizzato né dichiarato, è stato quello della diffusione della bilateralità, ovvero degli istituti di codecisio­ne paritaria tra organizzazioni datoriali e organizzazioni sindacali, ad esempio nella formazione professionale, nella previdenza integrativa, nella sanità integrativa, nell’integrazione in caso di disoccupazione, e così via. Stiamo parlando di centinaia di istituti bilaterali, in grado di genera­re risorse organizzative e servizi ai lavoratori.

Questo vero e proprio sistema di offerta, via via cresciuto nel tempo in modo involontario e in­consapevole, protegge il sindacato dalla crisi di consenso dei partiti di sinistra. Il punto da richia­mare a questo proposito è la razionalità nei com­portamenti dell’elettore-lavoratore, vale a dire la natura precauzionale-assicurativa delle sue scelte. Si tratta di tutelarsi, anche facendo scelte diverse con i due piedi a disposizione: con un piede scel­go il voto di protesta rispetto alle mancate risposte della politica, correndo così un rischio dal quale in qualche modo mi devo tutelare; con l’altro pie­de, tuttavia, mantengo l’iscrizione al sindacato perché mi garantisce le tutele di base e mi protegge dai rischi delle mie stesse scelte di voto. Siccome i lavoratori sono in genere persone ragionevoli e di buon sen­so, hanno scoperto questo principio di precauzione tanto tempo fa, sia quando votavano per la Democrazia Cristiana, sia quando votavano per Forza Italia, oppure adesso per la Lega e i Cinque Stelle. Sotto que­sto profilo, il sindacato non viene messo in discussione quando i parti­ti di sinistra sono deboli, proprio perché non è mai stato visto come la gamba sindacale del partito socialdemocratico. Anche per questo i due destini vanno tenuti distinti. Il sindacato soffre meno la crisi, perché ha rotto per tempo i rapporti con i partiti.

 

ALCUNE ULTIME RIFLESSIONI SU SINDACATO E PARTITO

Proviamo a riassumere. La ricetta del successo sindacale italiano è costituita in primo luogo dalla pervasività del contratto nazionale di lavoro; poi, in secondo luogo dalle deleghe di agenzia da parte dello Stato. Ma ci sono altri fattori esplicativi: ad esempio, un ruolo importante viene dal pluralismo a competizione limitata tra CGIL, CISL e UIL, che consente di diversificare i marchi e raccogliere i delusi di questa o quell’altra sigla. Sempre che la competizione sia limitata e controllata; siccome il sindacalismo italiano, a parte qual­che momento di sbandamento pericoloso (quasi sempre alla Fiat), ha mantenuto la competizione entro confini ragionevoli, la divisione sindacale va interpretata non come un limite ma come una risorsa. Quarto ingrediente: il modello confederale, vale a dire che le tutele e i servizi individuali a base confederale vengono prima delle categorie, come pure il nazionale viene prima dei territori. Infatti, solo organiz­zazioni nazionali con forte guida centralizzata possono offrire strut­ture e società di servizi in grado di garantire la più ampia diffusione territoriale. Ne consegue che chi teorizza in epoca contemporanea il sindacalismo a sola base categoriale sic et simpliciter è fuori di sen­no. L’ultimo aspetto è relativo all’efficienza organizzativa e alle regole burocratiche. I sindacati sono sane organizzazioni burocratiche di produzione di servizi efficienti, con i conti in regola e gente prepara­ta. Ma per fare questo implicitamente hanno cambiato modalità di reclutamento, regole di funzionamento, sistemi di controllo interno. Infine, va ricordata la relativa e sempre maggiore autonomia dalla politica, che consente di civettare con tutti gli attori politici e con chiunque vada al governo.

Rimangono tuttavia alcuni problemi, legati ai diversi segmenti di vigenza contrattuale e di conseguente peso sindacale. La prima que­stione riguarda la parte alta delle aziende, tanto industriali quanto terziarie. Si tratta di aziende con elevata ability to pay, capacità di dare soldi, in grado di praticare la regola “il sindacato ha fatto il contratto nazionale, io do di più”. Ecco, anche in questo caso è im­portante il ruolo del sindacato e del contratto, perché definisce per questo segmento di aziende fortunate cosa possono dare “di più”. Queste aziende possono poi mettere in campo pratiche partecipative senza il sindacato (modello partecipativo no union), oppure con il sindacato in posizione ancillare (modello partecipativo con sindacato junior partner) dove l’azienda decide il tasso di sindacalizzazione ri­tenuto ottimale e lo riequilibra, sia quando scende troppo sia quando sale troppo. Dal mio punto di vista anche questo modello può essere accettabile, perché legittima la presenza sindacale, i lavoratori sono tutelati e le relazioni di lavoro sono positive. Poi ci sono i model­li standard, quelli tipici delle relazioni industriali ordinarie, più o meno conflittuali, a tutti ben note e che considero scontate.

Infine, c’è il fronte del porto, il quinto stato della concorrenza sul solo costo del lavoro e dei contratti sub standard. Si tratta di un problema serio, ma non dobbiamo confonderlo con l’universo del­le relazioni di lavoro. E neppure, a mio avviso, considerarlo indicativo di una tendenza generale prossima ventura. Parliamo di una parte che va trattata per quello che è, ovvero un segmento limitato del mondo del lavoro, dove sono sal­tate le regole di base delle società sindacalizzate. Va anche tenuto presente come, pure in questo caso, sia il contratto di lavoro standard a fare da riferimento delle inadempienze e a segnalare le situazioni di “fuori gioco”. Infine, è bene che in quei settori ci sia un pluralismo sindacale anche di tipo funzionale; è bene cioè che dove non si ri­spettano le regole di base ci sia campo aperto per il sindacalismo militante, per i COBAS, l’ADL ecc. Il sindacato confederale non dovrebbe stigmatizzare oltremodo questi soggetti sindacali, che costituiscono altrettanti segnavia di ten­sioni inattese in cerca di soluzioni adeguate, come lo erano nel ‘68 i CUB alla Pirelli. Quando qualcuno rompe le regole ci deve essere qualcun altro che si contrappone con modalità altrettanto dure, ma questo non è il mestiere del sindacato confederale, il quale deve ac­cettare anche questo tipo di pluralismo, non fosse altro perché, forse, a valle del conflitto militante, trova di nuovo un suo spazio per ri-regolare le relazioni di lavoro sub standard. Si tratta, insomma, di un ultimo modo di vedere il bicchiere mezzo pieno di un sindacalismo che sopravvive e si adatta al mondo che cambia nonostante la fine del partito socialdemocratico.

Insomma, la presenza di tre sindacati ideologicamente differenziati ha costituito per gli studiosi (stranieri e non) un problema inter­pretativo del caso italiano ma, al contempo, la principale variabile indipendente, per quanto imprevista, della tenuta del nostro sinda­calismo. Le differenze ideologiche, a lungo viste come un limite all’a­zione sindacale, sembrano aver avuto nel caso italiano la funzione decisiva di ridurre la dipendenza dal partito amico (il PCI), non fosse altro perché la CGIL doveva tenere conto dell’esistenza di un forte pluralismo delle culture sindacali radicate nel paese. Inoltre, le diver­se elaborazioni strategiche di CGIL, CISL e UIL (i diritti di Trentin, lo scambio politico responsabile di Carniti, l’attenzione ai cittadini di Benvenuto) hanno consentito al sindacalismo italiano di esplora­re strade inedite, senza la nostalgia dell’effetto “colonna in marcia” (echelon advance effect) tipico del sindacato di classe, di cui parlava negli anni settanta Fred Hirsch e di recente ridiscusso da Giancarlo Provasi. Andrebbe finalmente riconosciuto che l’eccezione italiana in campo sindacale è stata la sua salvezza, consentendo di limitare i danni della crisi dei partiti socialdemocratici.

Con ogni probabilità, di conseguenza, l’unità sindacale avrebbe ri­dotto gli spazi di sperimentazione e di “competizione controllata” tipici del caso italiano, riproponendo la spirale negativa della doppia crisi del sindacato e del partito osservata in tante parti del mondo. Il pluralismo sindacale ha consentito, invece, un confronto pragma­tico con il “nuovo mondo” (neoliberale, postmoderno, globale che dir si voglia) senza il peso dell’ipoteca socialdemocratica, ovvero ha impedito a quell’ipoteca – che pure c’era: si pensi alle vicende di Ber­tinotti, Cofferati e del primo Landini – di esercitare un peso troppo condizionante sul “sindacalismo reale” del nostro paese. Per quanto si possa intravedere oggi del futuro prossimo venturo, questi percorsi divergenti e discordanti tra sindacati e partiti sono destinati a durare a lungo perché troppo diverse sono le ragioni di difficoltà degli uni e degli altri, come pure troppo distanti sono le ipotetiche traiettorie di risposta alle rispettive sfide. Ma, forse, senza alcuna nostalgia rispetto ai rapporti forti del passato (il modello leninista, il modello socialde­mocratico, il modello neocorporativo), una fiammella da mantenere accesa potrebbe essere costituita dall’attivazione di sedi di riflessione culturale, prepolitica, alimentate sotto il profilo organizzativo e fi­nanziario dal mondo associativo, che mantengano viva una qualche “aria di famiglia” che pure resiste nonostante le tante diffidenze e le tante inimicizie che sono state alimentate nella legittima ricerca di fare ognuno, per proprio conto, sindacato e partito, i conti con la storia di nuovo in marcia.


[1] Intervista a Elena Lattuada, Individuali e collettive, in “Una città”, giugno-luglio 2019, disponibile su www.unacitta.it/newsite/intervista.asp?id=2697.

[2] P. Galli, Fiat 1980. Sindrome della sconfitta, Ediesse, Roma 1994.