Il lavoro fragile in cerca di rappresentanza politica

Di Gianluca Busilacchi Martedì 28 Gennaio 2020 09:59 Stampa

I risultati elettorali degli ultimi anni, in molti paesi europei e in par­ticolare in Italia, hanno mostrato che esiste un problema di rappre­sentanza politica del mondo del lavoro. Terminata l’epoca storica in cui i grandi partiti di massa costituivano il principale riferimento politico dei lavoratori, già negli anni Novanta il nostro paese ha visto indebolirsi la relazione tra appartenenza alla classe dei lavoratori e voto alle forze progressiste. In estrema sintesi possiamo individuare due ordini di questioni legate all’allentamento di tale legame.

Il primo aspetto ha a che fare con l’emersione di nuovi schemi di competizione politica: sebbene lo schema tradizionale progressisti vs. conservatori permanga, esso appare affievolito nella capacità di interpretare gli attuali comportamenti elettorali. Emergono infatti nuovi cleavages, ancora da definire con chiarezza e da testare: una frattura di competizione politica potrebbe risultare essere quella tra sovranisti ed europeisti, o ancora più specificamente tra forze appartenenti alle principali famiglie politiche europee (socialista e conservatrice) e altri partiti; un tentativo (riuscito) è quello di rappresentare una competizione tra partiti antisistema (in partico­lare il M5S, ma anche la Lega) rispetto a quelli facenti parte del sistema. Tale contrapposizione, come hanno recentemente notato Ilvo Diamanti e Marc Lazar,1 emerge del resto in tutte le recenti competizioni elettorali a livello europeo. Mi sembra che sia possi­bile presentare anche un’altra tesi relativa alla nuova competizione politica, vale a dire tra una politica “razionale”, basata sulla costru­zione del consenso, e una “irrazionale”, fondata sul dissenso, che oggi parrebbe meglio intercettare le pulsioni di una società fram­mentata, che sembra quasi desiderare di alimentarsi di fake news, per poter rafforzare la propria identità di voto di protesta. Una politica non basata sull’evidenza di dati, o di costruzione di rispo­ste realistiche, credibili e praticabili per far fronte ai problemi, ma piuttosto capace di rilanciare paure, sentimenti e schemi cognitivi quasi premoderni.

Non ci dilunghiamo oltre su questo primo aspetto, se non per con­cludere che l’emersione di nuovi schemi di competizione politica determina di per sé una riduzione della capacità di rappresentare politicamente il mondo del lavoro da parte dello schieramento pro­gressista: l’appartenenza a diverse costituency elettorali, a seconda del diverso schema di competizione, fa sì ad esempio che un operaio inglese possa scegliere di votare il partito conservatore non tanto per le proposte in tema di politica del lavoro, quanto perché preferisce collocarsi con nettezza a favore della Brexit.

In questa sede intendiamo però dedicarci mag­giormente a un secondo ordine di ragioni che indebolisce la capacità delle forze progressiste di rappresentare politicamente il mondo del lavo­ro, che attiene alla modalità con cui la sinistra ha interpretato il rapporto tra capitalismo e demo­crazia negli ultimi trent’anni e di ciò che questa scelta ha comportato in particolare per i lavo­ratori meno tutelati. Una delle grandi promesse del socialismo, in­sieme al contrasto alla diseguaglianza, era proprio la trasformazione del lavoro da strumento di alienazione a strumento di realizzazione della vita umana. Tale mutamento di senso metteva al centro il valore del lavoro come straordinario meccanismo di opportunità delle classi più deboli per acquisire sicurezza economica e diritti.

Nei “trenta gloriosi” anni del secondo dopoguerra le socialdemocra­zie europee hanno realizzato politiche capaci di conciliare capitali­smo e democrazia, crescita economica ed eguaglianza: il welfare state beveridgiano ha garantito diritti sociali per i tutti i cittadini, contra­sto alla povertà e ai principali rischi sociali; le relazioni industriali hanno assicurato piena occupazione e politica salariale all’interno di una economia di mercato regolata dalla contrattazione collettiva; le politiche economiche keynesiane hanno provveduto a sostenere la domanda. In sostanza quell’esperienza, definita da Wolfgang Streeck come “capitalismo democratico”, è stata la prova che fosse possibi­le sottoporre il capitalismo a meccanismi regolativi volti a garantire giustizia sociale, senza frenarne le spinte competitive. All’interno di questo “modello di capitalismo”, i sindacati confederali e i partiti progressisti di massa erano il naturale riferimento di rappresentanza del mondo del lavoro e delle sue istanze di giustizia.

In seguito alla crisi economica e occupazionale degli anni Settanta si è ritenuto, anche a sinistra, che tale modello fosse superato:2 la diffu­sione del liberismo negli anni Ottanta non è stata solo la vittoria di una dottrina economica (quella della scuola di Chicago), o politica (a partire da Reagan e Thatcher), ma innanzitutto culturale.

La virata delle forze socialiste verso la Terza via ha di fatto rappresen­tato la ammissione indiretta che non fosse possibile conciliare capi­talismo e democrazia politica e che fosse errato tentare di regolare il mercato, in particolare il mercato del lavoro, poiché l’effetto sarebbe stato quello di frenare la crescita, con effetti negativi anche per le classi più svantaggiate; il modello di capitalismo anglosassone, e in particolare la deregolamentazione del mercato del lavoro operata in quella realtà, ha rappresentato un emblema di questa visione.

Eppure tale politica non ha favorito una crescita economica vantag­giosa per tutte le classi sociali, e a farne le spese sono stati soprattut­to i lavoratori più deboli: dove deregolamentazione del mercato del lavoro e riduzione del welfare state sono stati più significativi, sono aumentate maggiormente le diseguaglianze, e il lavoro, da strumento che allontanava dalla povertà e avvicinava al benessere (come avve­nuto nel dopoguerra), è divenuto elemento di disparità sociale, con la crescita dei working poor e dell’occupazione nei settori dei servizi a bassa qualifica. Quelle forze progressiste che nel passato avevano pro­mosso politiche capaci di attuare una delle promesse del socialismo, la diffusione del lavoro come strumento di riscatto sociale e oppor­tunità di realizzazione per tutti i cittadini, hanno successivamente rinunciato alla tutela dei diritti del lavoro per garantire maggiore libertà di crescita all’economia di mercato.

La vittoria culturale di questa impostazione neoliberista nella sinistra europea è stata facilitata da una fase di forte crescita economica: il periodo 1995-2007, vale a dire il decennio precedente alla crisi eco­nomica, quando i principali partiti socialisti europei hanno maturato tale svolta di impostazione nelle politiche del lavoro, è stato il decen­nio in cui il PIL pro capite nell’UE ha fatto registrare una crescita costante a un tasso medio annuo del 2,4%. Con tale contesto era possibile dunque ipotizzare che evitare qualsiasi meccanismo regola­tivo che rischiasse di frenare tale crescita economica fosse da un lato la scelta migliore per garantire un aumento di prosperità anche per i ceti meno abbienti, e dall’altro anche per conquistare politicamente, da parte dei governi di centrosinistra dell’epoca, il voto di ceti medi, professionisti e imprenditori.

La crisi economica iniziata nel 2007-08 ha cancellato non solo quella fase di crescita, ma anche le ipotesi politiche su cui era stata fondata, vale a dire quel tentativo di trasformare la rappresentanza politica del lavoro in una rappresentanza politica congiunta del lavoro e dei produttori. Da questo punto di vista appare dunque bizzarro che, pur dopo che tale fallimento fu conclamato, in Italia ancora pochi anni fa e in piena crisi economica si siano portate avanti, da sini­stra, proposte di deregolamentazione del mercato del lavoro, come ad esempio il Jobs Act, lasciando senza rappresentanza politica la parte più debole del mondo del lavoro e senza risolverne i principali problemi sostanziali.

 

COME CAMBIA IL MODELLO DI MERCATO DEL LAVORO ITALIANO DURANTE LA GRANDE CRISI

Il modello del mercato del lavoro italiano, prima della crisi, si con­traddistingueva per alcune specifiche caratteristiche: un tasso di oc­cupazione tra i più bassi in Europa (8 punti percentuali in meno del­la media UE nel 2008) e con una forte penalizzazione in particolare per giovani e donne; un basso livello di part time e lavoro atipico; un tasso di disoccupazione medio non particolarmente alto, ma che tendeva a colpire – nuovamente – giovani, donne, persone poco sco­larizzate e Mezzogiorno; salari poco sotto la media europea. Il mix di queste caratteristiche determinava un quadro per cui il capofamiglia maschio, in particolare nel Centro e nel Nord del paese, godeva quasi certamente di un lavoro “standard” (a tempo pieno e indeterminato), capace di garantire la sicurezza economica alla propria famiglia. In Italia, prima della crisi, il lavoro era dunque il miglior predittore di contrasto alla povertà e di realizzazione economica e sociale del nu­cleo familiare.

La grande crisi 2008-18, che è stata definita da Emilio Reyneri come la più grande crisi occupazionale dell’Italia moderna, ha trasformato completamente il tradizionale modello del mercato del lavoro italia­no: il tasso di occupazione è diminuito in modo significativo (come del resto in tutta Europa, ma in modo ancora più marcato in Ita­lia), ma è anche aumentato il tasso di disoccupazione, che dal 2012 ha superato la soglia del 12%, sopra cui non era mai andato dal dopoguerra. Anche la crescente precarizzazione del mercato del lavoro, in Italia più che altrove, è stata un effetto della crisi, così come la frenata dei salari. In sintesi nel decennio successivo al 2008 il lavoro ha perso valore e si è indebolito nella sua funzione di pilastro della sicurezza socioeconomica delle famiglie italiane. Dieci anni di crisi occupazionale hanno infatti prodotto tre fenomeni nuovi, un tempo scono­sciuti al modello del mercato del lavoro italiano: disoccupazione involontaria, lavoratori poveri e senza tutele, aumento dello scoraggiamento, che porta ad abbassare il tasso di partecipazione al mercato del lavoro dopo un periodo di crescita.

Il primo aspetto è forse il più rilevante sul piano quantitativo e su quello analitico: se ci limitiamo infatti a misurare il numero com­plessivo degli occupati, essi sono tornati, nel corso del 2019, agli stessi livelli precedenti la crisi (anzi, superando persino il volume di occupazione pre crisi); va detto però che tale livello di occupazione complessivo è stato raggiunto al prezzo di 1,8 milioni di ore lavorate in meno. In sostanza il problema non è tanto il numero dei lavora­tori, ma quanto lavorano; e l’aspetto più rilevante è che questo forte incremento di part time non è una scelta del lavoratore, ma assume la forma del part time involontario, che coinvolge soprattutto lavora­tori del Sud, a bassa scolarità, famiglie giovani (under 36) con figli e che ha un effetto di ridurre mediamente del 19% i salari. Si vorrebbe lavorare di più, ma non c’è possibilità e dunque ci si accontenta di part time, spesso accompagnato a demansionamento e sotto-quali­ficazione rispetto all’offerta di lavoro. Tale fenomeno si verifica in seguito alla crisi solo in Spagna e Grecia, oltre al nostro paese.

Il secondo aspetto che emerge, in parte connesso al primo, è l’au­mento per la prima volta in Italia del fenomeno dei working poor: se prima della crisi avere un lavoro era la principale tutela per con­trastare la povertà, oggi questo meccanismo non è più automatico. Sia perché, appunto, aumentano i part time involontari a redditi più bassi, sia perché aumentano i posti di lavoro a scarse tutele, connessi in particolare alla economia dei servizi alla persona (si pensi ai cosid­detti riders).

Infine, dopo un periodo in cui il tasso di partecipazione al mercato del lavoro, pur rimanendo lontano dalla media europea, era aumen­tato, si segnala un significativo scoraggiamento che allontana dalla ricerca di lavoro, specie donne e giovani: il nostro paese fa registrare infatti il primato europeo dei NEET, giovani che non studiano né lavorano, e anche il tasso di inattività femminile, già molto alto, è ul­teriormente aumentato. Se abbiniamo questo dato alla diminuzione di badanti straniere recentemente registrata, si potrebbe ipotizzare che vi sia una quota di donne che trova più conveniente tornare a svolgere lavori domestici piuttosto che cercare lavoretti poco remu­nerati e dover poi pagare qualcuno che si occupa delle attività di cura del proprio nucleo familiare: se così fosse sarebbe un arretramento alla società degli anni Cinquanta.

Quale effetto determinano questi cambiamenti nel mercato del la­voro italiano sul piano della rappresentanza politica? Anzitutto fan­no emergere nuovi bisogni, che chiedono una risposta in termini di tutela della dignità del lavoro e dei diritti ad esso connessi.3 Ma, al di là delle risposte specifiche in termini di politiche del lavoro, che pure chiedono di essere rappresentate politicamente, rimane il tema di fondo, vale a dire restituire senso e valore al lavoro all’interno del rapporto tra capitalismo e democrazia politica, come si fece nel dopoguerra: da questo punto di vista va ad esempio aumentato lo sforzo di elaborazione rispetto alle politiche di supporto alla doman­da di lavoro, a partire dalle modalità con cui le politiche formative e dell’istruzione da un lato e quelle industriali, dell’innovazione e della ricerca dall’altro, possono essere orientate non solo a fare crescere lo sviluppo economico del paese, ma anche a dare alle famiglie italiane un orizzonte di speranza e sicurezza socioeconomica e fiducia nel futuro.


[1] I. Diamanti, M. Lazar, Popolocrazia, Laterza, Roma-Bari 2019.

[2] Per una efficace ricostruzione del rapporto tra capitalismo e democrazia politica si veda tra gli altri C. Trigilia, Capitalismo e democrazia politica, in “il Mulino”, 2/2019.

[3] Oltre ai diritti legati alla condizione occupazionale, in parte ridotti con il Jobs Act e con la battaglia politico-culturale contro l’articolo 18, ci riferiamo anche ai diritti legati alla sicurezza nei luoghi di lavoro, tema sempre sottovalutato e che non ha mostrato negli ultimi decenni significativi avanzamenti di civiltà del nostro paese.