Vecchi e nuovi islamisti nel Medio Oriente di Bush

Di Fabio Nicolucci Mercoledì 01 Marzo 2006 02:00 Stampa

Tre anni fa, nella notte tra il 19 e il 20 marzo, la coalizione guidata dagli USA invadeva l’Iraq di Saddam Hussein. Ciò avveniva spaccando irresponsabilmente, a metà tra favorevoli e contrari, la amplissima coalizione internazionale che aveva invece guidato subito dopo l’11 settembre 2001 l’intervento in Afghanistan contro i Talebani. Suscitando in tutto il mondo proteste popolari di una tale ampiezza da far scrivere al «New York Times» che era scesa in campo, per opporsi al proponimento americano, l’altra vera superpotenza superstite: quella dell’opinione pubblica mondiale. L’intervento in Iraq è stato insomma talmente controverso e talmente significativo da porsi accanto, e forse sopravanzare, l’11 settembre 2001 come evento periodizzante dell’inizio di un mondo globale postmoderno e postwestfaliano. Pare giusto, dunque, abbozzare dopo tre anni un suo primo bilancio. Quello militare è contenuto in poche crude e durissime cifre: dal 19 marzo 2003 al 23 marzo 2006 sono morti in Iraq 4.355 soldati e poliziotti iracheni, 2.322 soldati statunitensi, 206 soldati non anglosassoni della coalizione (tra cui i nostri morti di Nassirya) e 103 soldati britannici; i civili iracheni morti come effetto di atti di guerra sono stati tra i 33.600 e i 37.800 per Iraq Body Count e 21.217 secondo l’Iraq Index; per quanto riguarda i soldati feriti non esistono stime per quelli di nazionalità irachena, ma sono stati 17.269 quelli dell’esercito USA; gli atti di guerriglia sono passati dai 24.496 del 2004 ai 34.131 del 2005.

 

Tre anni fa, nella notte tra il 19 e il 20 marzo, la coalizione guidata dagli USA invadeva l’Iraq di Saddam Hussein. Ciò avveniva spaccando irresponsabilmente, a metà tra favorevoli e contrari, la amplissima coalizione internazionale che aveva invece guidato subito dopo l’11 settembre 2001 l’intervento in Afghanistan contro i Talebani. Suscitando in tutto il mondo proteste popolari di una tale ampiezza da far scrivere al «New York Times» che era scesa in campo, per opporsi al proponimento americano, l’altra vera superpotenza superstite: quella dell’opinione pubblica mondiale. L’intervento in Iraq è stato insomma talmente controverso e talmente significativo da porsi accanto, e forse sopravanzare, l’11 settembre 2001 come evento periodizzante dell’inizio di un mondo globale postmoderno e postwestfaliano. Pare giusto, dunque, abbozzare dopo tre anni un suo primo bilancio. Quello militare è contenuto in poche crude e durissime cifre: dal 19 marzo 2003 al 23 marzo 2006 sono morti in Iraq 4.355 soldati e poliziotti iracheni, 2.322 soldati statunitensi, 206 soldati non anglosassoni della coalizione (tra cui i nostri morti di Nassirya) e 103 soldati britannici; i civili iracheni morti come effetto di atti di guerra sono stati tra i 33.600 e i 37.800 per Iraq Body Count e 21.217 secondo l’Iraq Index; per quanto riguarda i soldati feriti non esistono stime per quelli di nazionalità irachena, ma sono stati 17.269 quelli dell’esercito USA; gli atti di guerriglia sono passati dai 24.496 del 2004 ai 34.131 del 2005. Meno brutale – ma non meno grave – è invece il bilancio politico, che da quello militare del resto direttamente discende. La prima considerazione da fare è proprio sulla lunghezza del conflitto: una guerra che doveva chiudersi in tre mesi dura invece da tre anni. La seconda considerazione, sviluppo diretto della prima, è sulla sua virulenza. Occorre dire che nessuno, nemmeno i più pessimisti, poteva immaginare che la situazione di oggi sarebbe stata così terribile: perché non solo l’intervento in Iraq ha scoperchiato – come preconizzavano in molti – il vaso di Pandora della «Yugoslavia araba», ma ha anche in modo imprevisto riattizzato una più ampia guerra civile all’interno dell’Islam che fino ad allora era rimasta ai margini del cuore della regione, e che invece adesso vi si installa grazie all’incendio iracheno. Oggi in Iraq vi sono tre volte il numero di jihadisti stranieri che vi erano all’inizio della guerra. Prima dell’intervento in Iraq il terrorismo globale aveva tentato, anche con l’11 settembre, di scatenare una guerra di civiltà per accreditarsi tra le masse islamiche quale integrale difensore della vera fede, rispetto alle élite arabe corrotte e asservite all’Occidente: la linea di frattura era solo tra popolo e regimi.

Una separazione che però, nonostante la debolezza in Medio Oriente della tradizione statuale, i terroristi globali non erano riusciti ad allargare più di tanto. L’intervento americano in Iraq – che ha puntato da subito sugli sciiti per scompaginare equilibri non più graditi – ha offerto al terrorismo globale un’opportunità unica: quella di giocare anche sulla frattura tra sunniti e sciiti. Una frattura particolarmente perniciosa perché essa in realtà in Medio Oriente diventa anche la fenditura da dove riemerge l’esplosiva questione delle minoranze, dato che la vera battaglia in questo senso non si svolge sui diritti delle minoranze cristiane bensì sui diritti delle minoranze islamiche, in particolare quella sciita in paesi a prevalenza sunnita. Le linee di faglia sono così diventate due: tra sunniti e sciiti, e tra popolo e regimi. Dove sciiti e popolo coincidono, il terremoto è stato dirompente. Come in Iraq. Un terremoto talmente intenso da spazzare via ogni possibile capacità di mediazione degli USA e di una ricostruzione politica da loro guidata. In Iraq, dopo la distruzione della moschea d’oro di Samarra il 22 febbraio 2006, la guerra civile divampa senza più controllo. E come per la Yugoslavia, quando un paese si spezza a pagare il conto politico è la potenza regionale: nel caso yugoslavo fu l’Unione europea, nel caso iracheno saranno gli USA. E gli USA hanno già cominciato: intanto piegandosi ad accettare umilianti colloqui diretti con l’Iran, la nuova potenza regionale emergente, su come far cessare la guerra civile in Iraq. Altro che Iran nuovo paria della comunità internazionale per il suo programma nucleare: i colloqui per stabilizzare l’Iraq si svolgeranno a Baghdad, con l’Iran che si premura di far sapere come il suo ruolo potrebbe alternativamente essere utile come lo fu dopo l’11 settembre – quando USA e Iran si incontrarono in Svizzera per coordinare la loro lotta ad al Quaeda e ai Talebani – oppure d’ostacolo, magari solo astenendosi dall’esercitare pressioni costruttive sui vari e concorrenziali leader sciiti iracheni. E che l’Iran stesse diventando più potente lo aveva già registrato anche Kenneth Pollack – l’ex analista CIA, poi nel National Security Council di Clinton, capofila dei «democratici interventisti» e alleato dei neconservatori per l’intervento in Iraq – in una deposizione al Congresso del settembre 2005, quando segnalò come «un’altra potenziale minaccia agli interessi americani la possibilità che, ad un certo punto, l’Iran scelga di combattere attivamente gli sforzi di ricostruzione in Iraq». Finora ha scelto di non farlo, perché «la leadership iraniana, che conosce la società irachena molto meglio dell’Amministrazione Bush», ha lo stesso interesse alla stabilizzazione che hanno gli americani.

Siamo dunque in presenza di un mutamento nella bilancia del potere. Dopo tre anni di Iraq, l’Unione europea è sparita dalla scena, l’Iran è più forte, gli USA più deboli. Questo mutamento, innescato dal tragico errore iracheno, è stato tanto sfavorevole per gli USA da cominciare ad avere forti riflessi politici interni. Sono stati gli analisti a registrare inizialmente la necessità di una svolta: per il gruppo diretto dall’autorevole Kenneth Pollack «la ricostruzione in Iraq non è condannata a fallire, ma l’Amministrazione Bush non ha ancora una strategia che ha probabilità di riuscire». Nel rapporto, intitolato «una nuova strategia per l’America in Iraq», si scrive poi che ci sono «due problemi separati ma interrelati: una insurrezione e uno Stato “fallito”; gli Stati Uniti hanno devoluto considerevoli energie e risorse a combattere l’insurrezione, ma usando una strategia sbagliata. Comunque ancora più dannoso è stato il fallimento nel ricostruire lo Stato iracheno “fallito”». Che infatti oggi rischia di spezzarsi. Risultando questa analisi sempre più incontrovertibile, agli analisti si stanno così aggiungendo anche i politici: e tale transumanza è stata accuratamente fotografata dalla nuova National Security Strategy (NSS), uscita a metà marzo 2006 e che aggiorna quella del 2002 alla base dell’intervento in Iraq. In essa cambia l’impianto filosofico, tanto da far dire ad alcuni commentatori che con la sua pubblicazione la «rivoluzione di Bush è ufficialmente finita» e che la nuova NSS è piuttosto il ritorno a quella di Clinton del 1999. L’accento infatti non è più sulla forza, bensì sulla diplomazia, e mentre in quella del 2002 la priorità era l’abbattimento di «Stati canaglia» attraverso una politica di esportazione della democrazia fatta di unilateralismo e di azioni militari preventive, oggi invece l’obiettivo è – finalmente – la cura degli «Stati falliti», che immersi nel vortice della globalizzazione possono destabilizzare tutto il sistema. Perché mentre nella guerra fredda – che sorprendentemente tanto ha influenzato i neoconservatori – il problema del sistema internazionale erano gli «Stati canaglia», nel mondo post-guerra fredda e immerso nella globalizzazione il problema diventa piuttosto quello degli «Stati falliti». Il nuovo capitolo dedicato alle minacce transnazionali, del resto, è il tardivo riconoscimento di tutto questo. Con quattro anni di ritardo, si passa così dal «cambio di regime» alla «democratizzazione»: ed essa – come si vede in Iraq – non può essere fatta dagli Stati Uniti da soli. In questo quadro le istituzioni multilaterali ridiventano necessarie: ma non certo per essere legittimati – come troppo spesso intendono gli europei (e la sinistra) con una pigra e anacronistica visione normativa della politica internazionale – bensì per essere veramente efficaci.

Oggi l’enfasi è su «costruire» e non più su «esportare» la democrazia. Ma lo scottante problema politico da risolvere, però, è che l’intervento del 2003 sta già sconvolgendo il Medio Oriente e il suo status quo. E non nel senso auspicato dagli USA.

Il primo paese a beneficiarne è stato l’Iran, che si trova improvvisamente a capo di una «internazionale sciita» ora al centro delle dinamiche politiche. Tanto da far scrivere amaramente all’autorevole giornale arabo «Al-Hayat» che «per un colpo di fortuna l’Iran è diventato il primo beneficiario della politica americana e degli arabi in Medio Oriente». Un secondo effetto importante è stato poi la creazione di un destabilizzante «asse degli esclusi»: Russia e Turchia. Per quanto riguarda la Russia, l’intervento in Iraq l’ha esclusa per la seconda volta – dopo l’intervento nel Kossovo del 1999 – dal poter partecipare alla decisione in paesi dove prima era la potenza regolatrice: ciò avrà ripercussioni sia nel rafforzamento del suo isolazionismo neoimperiale – nel campo dell’energia in particolare – sia nel suo porsi come sponda di disturbo in vicende dove questo potrebbe fare la differenza, come sul nucleare in Iran. Per quanto riguarda la Turchia, invece, l’intervento in Iraq e il nuovo ruolo acquisito dai curdi iracheni ha dato grande impeto al nazionalismo turco e all’antiamericanismo: basti pensare all’enorme successo che in Turchia sta avendo il film «La valle dei lupi», basato su un incidente realmente avvenuto tra esercito americano e forze speciali turche nel luglio del 2003 a Sulemainya, nel kurdistan iracheno. Nel film, pieno di torture e abusi degli americani in Iraq, un leader turcomanno iracheno protesta per il fatto che gli americani hanno concesso le montagne ai curdi, dato il deserto agli arabi e tenuto il petrolio per sé. Nella storia naturalmente è presente anche un dottore ebreo americano che traffica in organi di iracheni per mandarli in Israele e negli USA. In questo contesto il nazionalismo facilmente diventa antioccidentale, e dunque favorisce l’islamismo politico. Anche nella finora laica Turchia: non a caso il partito islamico al potere, l’AKP, ha iniziato il 10 novembre 2005 il percorso legislativo per avere la certificazione «halal» del cibo, finora assente: e l’opposto di «halal» (legale) non è «non halal» bensì «haram» (proibito), una parola con tante implicite conseguenze politiche.

Questo è infatti il terzo, e forse più importante, effetto dello sconvolgimento iracheno: a giovarsi degli spazi politici creatisi ex novo è l’Islam politico radicale. Beffardamente, anche nelle elezioni: ha cominciato l’Iran con la vittoria di Ahmadinejad, subito dopo è stata la volta di Hizballah in Libano, poi quella dei Fratelli Mussulmani in Egitto, per terminare – almeno per ora – con la grande affermazione di Hamas. E non sembra finire qui: il partito islamista sciita Al-Uifaq (la concordia) ha deciso di partecipare e sembra poter vincere le prossime elezioni politiche di ottobre in Bahrein, dove il 70% della popolazione è sciita e dove ci sono state – per protesta alla distruzione della moschea d’oro di Samarra dello scorso febbraio in Iraq – le più grandi proteste popolari della storia del paese. Lo stesso potrebbe accadere in Yemen, dove peraltro dal 18 giugno 2004 è in atto una rivolta dei seguaci dello sciismo zaidita, che intercetta il malcontento per l’inamovibilità di un presidente al potere dal 1978 e lo collega con l’esplodere del protagonismo politico sciita in Iraq e in tutta l’area del Golfo. Tanto che in Giordania – dove a metà anno ci saranno (forse) importanti elezioni municipali – il re Abdallah si è spinto fino a parlare della costruzione di un «muro sunnita» per arginare l’emergere di una «mezzaluna sciita» dall’Iran fino al Libano che isolerebbe proprio la Giordania dove la spinta favorevole all’Islam politico ha già reso l’Islamic Action Front il primo partito del paese, riducendo l’agibilità politica delle élite riformiste.

In conclusione, mentre gli USA immaginavano un Medio Oriente molto simile all’Europa dell’Est in cui, spazzata via la dittatura, sarebbe facilmente emersa una matura società civile e una forte generazione di pimpanti riformisti, la realtà si è rivelata dolorosamente assai diversa ed esotica. Il Medio Oriente non è l’Europa dell’Est e i riformisti sono braccati e combattuti, e spesso vinti, in una feroce guerra civile per l’egemonia all’interno della civiltà islamica. Perché il primo problema del Medio Oriente non è quello del deficit democratico, quanto piuttosto quello dell’identità nazionale, che è appunto l’oggetto di tale guerra civile. Dopo la rottura dell’impero ottomano, il Medio Oriente infatti ha visto importare sul suo suolo dalle potenze occupanti il modello dello Stato nazione europeo. A fatica, nei decenni, ha costruito uno Stato, ma non è mai riuscito ad accompagnarlo con una nazione. Con l’eccezione della Turchia. E mancando la dimensione nazionale ecco, che si spiega il grande richiamo esercitato dalla religione. In questo spazio si è inserito l’Islam politico radicale, con slogan assai suggestivi: «l’Islam è la soluzione » e «il Corano è la Costituzione». Al contrario di ciò che hanno immaginato gli USA, dunque, non si tratta di riscattare identità nazionali oppresse, bensì di costruirne di nuove. Un compito molto più complesso, e certo da non affidare ad una concezione taumaturgica della democrazia, eventualmente da imporre con le armi: perché gli arabi non sono avversi alla democrazia. Quando ne hanno l’opportunità partecipano e votano. Però non votano per partiti liberali e democratici. Il messaggio del nasserismo panarabo, una volta assai influente, ha infatti perso la sua forza, perché la parte «nazionale» si è rivelata caduca, mentre quella della giustizia sociale è stata fatta propria dagli islamisti. Questi ultimi, dopo le sconfitte degli anni Novanta, nel nuovo Medio Oriente forgiato da Bush hanno anche mostrato grande duttilità e maturità politica, incorporando nella loro agenda elementi chiave della piattaforma liberale, come la domanda di trasparenza, di libertà di espressione, di riforme costituzionali, di onestà nell’azione di governo.

Tutto ciò ha spaventato gli USA, che hanno gradualmente smesso di lavorare per la democratizzazione dell’Arabia Saudita, di spingere per le riforme in Giordania, di protestare con l’Egitto per la detenzione del dissidente Iman Noor e per il rinvio delle elezioni municipali, di operare per la caduta del regime di Bashar Assad in Siria.

Ma la questione politica si è davvero posta – per la centralità della questione israelo-palestinese – con la dirompente vittoria di Hamas: che cosa fare in questo nuovo Medio Oriente? Andare avanti con il processo di democratizzazione – magari nella versione più westfaliana e multilaterale della nuova NSS – oppure tornare indietro? Insomma: si può correre il rischio che ad approfittare dei nuovi spazi politici ed elettorali possano essere dei partiti islamisti? Dalla risposta a questa domanda dipende il corso delle cose in Medio Oriente.

Per questo è utile un ragionamento a favore del prosieguo della strada che porta all’inclusività e alla responsabilità di governo dell’Islam politico radicale. Non solo per il vecchio e sempre valido argomento che con il consenso è sempre razionale fare i conti. Ma anche perché l’Islam, anche quello politico radicale, non è tutto uguale e univoco. A cominciare da Hamas, che sulla partecipazione o meno a quelle elezioni si è prima spaccata e poi ha visto un’emarginazione della leadership di Khaled Mesha’al, contraria alla partecipazione. Molte organizzazioni islamiche radicali sono infatti in transizione: Hamas, Hizballah ed altri dispongono al momento sia di una organizzazione politica sia di un braccio armato. Una decisione di inclusione o esclusione in un processo politico potrebbe influenzare in modo decisivo la loro evoluzione in un senso o nell’altro. Favorendo le nuove leve aperte al nuovo e alla politica, oppure la vecchia guardia attaccata alla dimensione resistenziale e militare degli anni duri e di emarginazione del decennio scorso, che magari in questo sconvolgimento rischia di essere attratta da al Quaeda. Nei numerosi movimenti islamici prevalgono ora l’una ora l’altra: nel Partito della giustizia e dello sviluppo (PJD) del Marocco – che ha accettato il nuovo e progressivo codice di famiglia del 2003 – e nel partito egiziano Al-Uasat (il centro) prevalgono i riformatori; nei Fratelli Mussulmani in Egitto e in Giordania prevale la vecchia guardia. Su molte questioni – come l’applicazione della Sharia, l’uso della violenza, la validità del pluralismo politico, i diritti civili e sociali a cominciare da quelli delle donne e delle minoranze religiose – la galassia dell’Islam politico e radicale mantiene al momento una posizione politica ambigua, che può indirizzarsi in un senso o nell’altro. Ed ecco dunque il dilemma di fronte agli USA in primo luogo, e all’Occidente in generale: sembra difficile operare qualche trasformazione in Medio Oriente senza l’attiva partecipazione dell’ala moderata dell’Islam politico radicale. Un’ala che per poter diventare compiutamente moderata – e dunque smentire il timore che la sua inclusione porti alla situazione di «una testa, un voto, una volta soltanto» – deve essere riconosciuta e poi lentamente trasformata.

Tutto ciò implica una rivoluzione nel modo di pensare il Medio Oriente molto più profonda di quella tentata da Bush con l’esportazione della democrazia, che pure gettava alle ortiche una politica statunitense di stabilità seguita dal 1945. Ciononostante si tratta di un passo necessario. Non solo per il Medio Oriente, ma per il mondo in generale, che dall’assetto di questa regione tanto è influenzato. Non sarà possibile farlo senza il concorso degli USA. Allora la prima cosa da evitare è che la sconfitta in Iraq faccia virare la politica estera USA verso il tradizionale isolazionismo repubblicano. Ogni guerra perduta spinge all’isolamento, e l’Iraq in questo è assai simile al Vietnam: fu anche in conseguenza di quella sconfitta che gli USA decisero la rottura dell’ordine di Bretton Woods nato nel 1945. Prima che questo esito diventi ineluttabile, la comunità internazionale – e in primo luogo l’Europa – dovrebbe allora fare un passo in avanti: in Iraq è troppo tardi per lasciare gli USA soli davanti alla loro punizione. Non solo perché ciò lascerebbe un paese in via di esplosione alle porte d’Europa, ma anche perché la sindrome irachena li potrebbe spingere di nuovo verso l’isolazionismo e il protezionismo. Con il rischio che in questo contesto postmoderno e postwestfaliano ciò diventi una tendenza mondiale più generale. Svuotando le già malridotte sedi multilaterali. E lasciando un mondo in fiamme, con il corpo dei pompieri sdegnosamente in sciopero, e i cittadini del Medio Oriente abbandonati in numero sempre maggiore nelle mani dell’unico interlocutore su piazza: un’Islam politico radicale non più costretto al confronto e alla contaminazione, bensì ancor più radicalizzato nella ricerca solipsistica di una purezza e una identità sdegnosamente e pericolosamente avulse dal mondo circostante.