Strumenti nuovi per affrontare la complessità dei processi migratori

Di Marcella Lucidi Lunedì 20 Gennaio 2014 10:43 Stampa

Il fenomeno migratorio ha assunto in Italia, negli ultimi venti anni, i tratti di un processo epocale. A esso, pur essendo il nostro paese al centro dei consistenti flussi che attraversano il bacino del Mediterraneo, si è reagito prendendone le distanze, pretendendo di controllarlo e contrastarlo. A dimostrare quanto fosse inefficace e miope questo approccio sta la realtà della consistente presenza straniera sul territorio nazionale e della volontà di integrazione degli immigrati nel tessuto sociale. È giunto il momento, per il sistema politico, di divenire consapevole della complessità dei flussi migratori e di farsi carico, con strumenti normativi e conoscitivi adeguati, del compito di dare forma alla realtà interculturale che abbiamo di fronte.

Siamo sempre più consapevoli del fatto che l’Italia, da oltre venti anni, è protagonista di un fenomeno migratorio epocale. C’è voluto tanto tempo per riconoscerci all’interno di un processo storico globale e di lungo periodo che abbiamo preferito catalogare come emergenza per il timore di doverne sentire la scomodità, per l’esigenza di difenderci dal cambiamento che, inevitabilmente, si sarebbe prodotto e che, nonostante le resistenze, ci ha coinvolti.

L’ONU ha stimato che, nel 2013, il numero delle persone che hanno lasciato il paese d’origine per andare a vivere altrove ha raggiunto i 232 milioni, senza contare le migrazioni interne. Questa costante crescita della popolazione migrante, che ha interessato maggiormente l’Europa, l’Asia e soprattutto gli Stati Uniti, non è bastata a rassicurarci su quanto, al contempo, è accaduto nel nostro paese, che, più tardi di altri, ha do-vuto riconoscersi come terra di destinazione, fino a divenire, insieme alla Spagna, un fulcro del bacino mediterraneo nella geografi a migratoria europea.

Tanto è stato che dagli anni Novanta, quando a seguito di una regolarizzazione durata due anni (1986-88) si cominciò a superare il mezzo milione, il numero delle presenze straniere è salito continuamente, anche negli anni della crisi economica, fino a farci registrare, al 1° gennaio 2013, un totale di 4.387.721 cittadini stranieri residenti, dei quali 3.746.236 soggiornanti non comunitari.

Va da sé che voler ricondurre un fenomeno così consistente a una causa congiunturale è certamente servito a prenderne le distanze, a pensare di poterne impedire o quanto meno controllare, mediante una bolla mediatica e politica, l’impatto su una società “spaesata”, dando ascolto al sentimento di inquietudine diffuso e alla percezione di poter perdere alcune sicurezze, che si è presto trasformata in allarme sociale e in paura. Non sfugge, tuttavia, quanto questa strategia abbia portato a dover esaltare gli aspetti più conflittuali dell’“invasione” straniera, anche quando, su un piano di realtà, iniziava a prodursi una strutturazione del fenomeno, attraverso la volontà di integrazione degli immigrati e una corrispondente risposta di adattamento da parte del sistema sociale. Senza voler negare quanto sia ancora attuale la difficoltà di realizzare una convivenza a partire dalle differenze e dalle reciproche diffidenze e quanto sussista una buona dose di nervosismo sociale, è evidente, analizzando i dati e osservando ogni contesto di vita pubblica, quale e quanta distanza si sia prodotta tra l’obiettivo declamato di fermare, se non addirittura di respingere, la spinta migratoria verso l’Italia e la capacità degli stranieri di fare ingresso e di interagire nel corpo sociale. Basti citare l’85% di forza straniera attualmente impegnata nel lavoro di cura alla persona o l’apporto che mezzo milione di piccole e medie attività guidate da cittadini immigrati sta recando al nostro sistema imprenditoriale per dimostrare quanto la realtà sia andata più avanti di una sua riduttiva e sempre più tragica rappresentazione. Il fatto è che c’è stata e c’è ancora una resistenza ad accettare l’idea che all’immigrazione, in quanto carattere proprio del nostro tempo, occorra reagire in un’ottica di governo e non difensiva o di contrasto. Non c’è nulla di facile in questo, né di scontato, cominciando dal comprendere che una questione così complessa richiede ben più di una soluzione legislativa. Le dinamiche migratorie sono talmente veloci e coinvolgono tali e tanti attori che interagiscono nel teatro geopolitico mondiale che non si può immaginare che le regole, una volta scritte, siano inossidabili. I movimenti di persone da un paese all’altro si determinano e si modificano in un gioco costante di cause ed effetti che non si riescono a condizionare del tutto, né tanto meno a fermare. Gli accadimenti interni ed esterni a un territorio o a un’area vanno osservati e capiti sia per orientarsi tempestivamente nelle scelte da compiere, sia per orientare i processi in divenire. Per questo, anche la comprensibile ricerca di un modello normativo di riferimento, in ambito nazionale come europeo, dovrebbe essere successiva alla decisione di investire su alcune linee strategiche di governo dei flussi migratori, riconoscendo di doverle sviluppare dentro un percorso non asettico, che ammetta perciò approssimazioni o correzioni per quanto non è dato fino in fondo determinare, e ricercando le opportune alleanze che possano ridurre le incognite.

Uno sguardo su quanto è accaduto fin qui basta a dimostrare che il sistema politico non ha ancora trovato la capacità o il coraggio per assumere su di sé la complessità dei processi migratori. Già indeboliti dalla crisi della democrazia sociale, sulla quale è pesantemente calata una fase di recessione economica, i partiti e i movimenti politici hanno assecondato la rigida contrapposizione tra ricette progressiste e ricette reazionarie, tra una visione irenica e una repressiva, piuttosto che procedere a una lettura comune dei cambiamenti in atto e trovare una mediazione in grado di prevalere sulle derive ideologiche. Costretti ad agire nel mezzo di questa divisione, i governi che si sono succeduti non sono riusciti a portare il paese oltre la paradossale percezione di una “emergenza di lungo periodo” e a convincerlo della importanza – nonché dell’utilità – di “progettare” l’immigrazione anziché subirla. Anche il governo attuale delle “larghe intese” pare non essere indenne da questa difficoltà, che si ripropone ogni qualvolta si tenti di passare da un’azione congiunturale di governo del fenomeno – come, purtroppo, si è reso necessario a seguito di drammatici episodi di sfruttamento dell’immigrazione irregolare – all’ideazione di un progetto organico. Cosicché anche la buona intuizione di demandare a uno specifico dicastero le politiche di integrazione perde le sue potenzialità quando si provi soltanto a ragionare di una riforma legislativa che intacchi l’impianto del Testo unico dell’immigrazione, un “totem” inservibile per incoraggiare l’ingresso e il soggiorno regolare degli stranieri che ha costretto, finora, a procedere mediante provvedimenti di regolarizzazione del tutto incuranti di includere gli immigrati “emersi” nella già fragile rete di protezione sociale.

Sul finire degli anni Ottanta, quando gli arrivi degli immigrati cominciarono ad aumentare, governo e Parlamento ritennero di dover disporre una serie di strumenti per la regolazione e la gestione del fenomeno. L’adozione di un primo sistema giuridico e amministrativo fu accompagnata dallo svolgimento di una Conferenza nazionale dell’immigrazione, il 4-6 giugno 1990, promossa dalla presidenza del Consiglio e organizzata dal CNEL con l’obiettivo di dare dignità a una tematica ancora inedita e tuttavia meritevole di “riflessioni e proposte”. A distanza di tempo, l’iniziativa venne ripresa, nel 2007, dal ministro dell’Interno Giuliano Amato e, nel 2009, dal suo successore Roberto Maroni: constatando quanto l’immigrazione fosse divenuta un dato strutturale della società italiana, questi due appuntamenti si proponevano di ricercare e dare la più ampia condivisione a una visione strategica e integrata di governo del fenomeno. In una società in cui gli stranieri hanno finito per rappresentare «tutto ciò che produce ansietà» (Zygmunt Bauman), il fatto che nell’agenda del governo – nel suo insieme prima ancora che nella persona del ministro dell’Interno – entri e sia mantenuta la buona abitudine di organizzare, con cadenza fissa, una Conferenza nazionale, con il fine di avere uno sguardo sempre attuale sul fenomeno e di trarne indicazioni di lavoro, potrebbe procurare il doppio beneficio di uscire dalle secche di un contrasto ideologico e di rassicurare i cittadini circa l’assunzione di una responsabilità pubblica – a tutti i livelli istituzionali e sociali – in merito alla complessità e alle difficoltà che devono essere affrontate.

È necessario, infatti, assumere una nuova modalità di raccontare l’immigrazione, insistendo su immagini e contenuti che ne favoriscano una lettura corretta e, quindi, ridimensionino le rappresentazioni allarmistiche e strumentali. In questa direzione, gioverebbe alla politica riconoscere e valorizzare l’autonomia del lavoro di indagine, di elaborazione dei dati e di previsione delle dinamiche migratorie. Si pensi, ad esempio, a quanto tornerebbe utile far precedere i provvedimenti che fissano le quote di ingresso dalle opportune verifiche sul grado di assorbimento dello straniero nella comunità al fine di ricondurre le cifre e le nazionalità nella giusta ottica della sostenibilità dei flussi. Si tratterebbe, quindi, di specializzare e depoliticizzare l’indispensabile lavoro preliminare di conoscenza dei fenomeni demografi ci, sociali ed economici, della compatibilità tra richieste del mercato del lavoro, orientamenti macroeconomici e capacità di integrazione. Con questa intenzione, il senatore Massimo Livi Bacci propose al Parlamento, nella scorsa legislatura, di istituire un’Agenzia nazionale per la programmazione dell’immigrazione, un organismo composto da personalità di alto profilo tecnico e, per questo, indipendente dalle maggioranze di governo, in grado di offrire alla politica gli elementi utili per la decisione. Riportare all’ordine del giorno del Parlamento questo disegno sarebbe certamente utile per una maggiore razionalizzazione del dibattito pubblico.

Inoltre, una elaborazione normativa che volesse disporre l’Italia a un maggior governo dei flussi migratori, gestendoli nell’ottica di una immigrazione sostenibile e, quindi, della integrazione, dovrebbe preoccuparsi di offrire alle nostre istituzioni efficaci strumenti di pianificazione. A questo obiettivo si era inteso contribuire, nel 1998, con l’articolo 3 della legge Turco-Napolitano, prevedendo che il presidente del Consiglio predisponesse, ogni tre anni, un Documento programmatico per la politica dell’immigrazione nel territorio dello Stato, approvato dal governo e trasmesso al Parlamento per il parere. In linea con questa disposizione, furono redatti e approvati i Documenti relativi ai trienni 2001-03 e 2004-06. Il Documento per il triennio 2007-09 fu predisposto dal governo Prodi, ma non giunse all’esame parlamentare a causa della fine della legislatura, né i governi successivi intesero acquisirlo o predisporne un altro. Sebbene la norma sia ancora vigente, il dato attuale è che dal 2007 in poi nessun Documento programmatico ha motivato o orientato le scelte compiute in tema di immigrazione, lasciate, piuttosto, a valutazioni contingenti e, a volte, adottate sull’onda dell’emergenza.

Conferenza nazionale dell’immigrazione, Agenzia nazionale per la programmazione e Documento programmatico sono solo tre delle idee possibili che servirebbero a dare al discorso sull’immigrazione la giusta dignità e una fondatezza che, purtroppo, si perde nei rivoli comunicazionali e nelle risposte inadeguate di un sistema di governo in affanno. Troppe questioni sono ancora confinate dentro un dibattito introverso. E la mancanza di respiro, se per un verso ha costretto a operare su un doppio livello ideologico-pragmatico – si pensi ai provvedimenti di regolarizzazione –, per l’altro sta impedendo di cogliere i possibili vantaggi di un ricorso sostenibile alle politiche migratorie, nonché di adottare nuove soluzioni che favoriscano i percorsi regolari di ingresso, di soggiorno e finanche di uscita dal territorio dello Stato.

In queste condizioni appare anche più difficile incoraggiare l’Unione europea a concepire una politica comune di governo dei flussi migratori. Sulla soglia del semestre di presidenza italiana e delle elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo si registra un arretramento dei processi di armonizzazione e una tensione della cooperazione intergovernativa, soprattutto in ordine a tematiche che interessano fortemente l’Italia, quali la gestione dei flussi via mare e la circolazione degli immigrati e dei richiedenti asilo all’interno dello spazio comune.

E allora, se alle nostre spalle rimane l’impressione di non avere ben compreso, da subito, la portata del fenomeno migratorio, possiamo ora apprendere dalla realtà che ci sono, comunque, le condizioni per dare forma a una società che, nel frattempo, è diventata interculturale e interdipendente. A questo riguardo sul tappeto restano aperte tante questioni che occorre continuare a nominare e a indicare, esigendo dalla politica due atteggiamenti: il primo è la convinzione che non c’è tema di attualità che possa essere affrontato senza fare i conti con la presenza strutturale degli immigrati; il secondo è risparmiarci la presunzione di voler governare i flussi migratori attraverso semplificazioni e senza un progetto di lungo periodo, ovvero senza raccontarci quale futuro possibile abbiamo in mente. Senza ondeggiare tra sopravvalutazioni e sottovalutazioni, resta il fatto che trattare di immigrazione significa voler affrontare un tema assai difficile, dal quale è preferibile lasciarsi appassionare anziché impressionare.

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