L'ascendente declino della leadership personale

Di Andrea Pinto Lunedì 02 Maggio 2005 02:00 Stampa

Due lustri di seconda Repubblica sono forse un tempo sufficiente per tentare un’esegesi e un primo bilancio delle leaderships scaturite dal bipolarismo nostrano, sforzandosi di coglierne le linee evolutive o involutive. Per fare ciò occorre necessariamente compiere un passo indietro e confrontare specularmente la loro genesi e le diverse strategie messe a punto dai suoi principali interpreti per affrontare la crisi sistemica della prima Repubblica. È in quel momento, nelle contraddizioni non risolte e trascinatesi fino ad oggi con alterni esiti, che si annida il male oscuro di un sistema politico e istituzionale pericolosamente avvitato su se stesso nonostante i tentativi, talora encomiabili, tesi a una sua stabilizzazione.

 

Due lustri di seconda Repubblica sono forse un tempo sufficiente per tentare un’esegesi e un primo bilancio delle leaderships scaturite dal bipolarismo nostrano, sforzandosi di coglierne le linee evolutive o involutive. Per fare ciò occorre necessariamente compiere un passo indietro e confrontare specularmente la loro genesi e le diverse strategie messe a punto dai suoi principali interpreti per affrontare la crisi sistemica della prima Repubblica.

È in quel momento, nelle contraddizioni non risolte e trascinatesi fino ad oggi con alterni esiti, che si annida il male oscuro di un sistema politico e istituzionale pericolosamente avvitato su se stesso nonostante i tentativi, talora encomiabili, tesi a una sua stabilizzazione.

Com’è noto, con il crollo e la dissoluzione di DC e PSI e di tutto il vecchio pentapartito, appare subito evidente che con la prima Repubblica va in crisi tutto l’assetto istituzionale fondato sulla «centralità» dei partiti che fino a quel momento rappresentano il canale privilegiato di formazione delle decisioni pubbliche e di selezione della classe dirigente. Il vuoto che ne consegue pone immediatamente un problema di rappresentanza politica di una vasta area politica desertificata dal ciclone giudiziario, vuoto che viene subito colmato in misura preponderante dal nascente leader del polo di centrodestra con il suo «partito nuovo»: Forza Italia. Sfruttando abilmente l’antipartitismo dilagante nell’opinione pubblica, Berlusconi coglie la necessità di offrire al mercato elettorale un «prodotto nuovo» che segni una chiara soluzione di continuità con il tradizionale modello di partito-apparato entrato irrimediabilmente in crisi anche a causa dell’evidente insufficienza del finanziamento pubblico e del progressivo inaridimento di quello irregolare o illegale. Così affida alla sua collaudata struttura di forza-vendita il compito di posizionare il nascente partito che, al di là del suo inevitabile e congenito imprint padronale, subito intercetta e offre «asilo politico» (non foss’altro che per un elementare calcolo di convenienza elettorale) a gran parte di quell’elettorato moderato che fatica, in qualche misura, a riconoscersi nelle «gioiose macchine da guerra» messe in piedi per risolvere la più grave crisi istituzionale della Repubblica.

L’affermazione e il consolidamento politico-elettorale di Forza Italia – e quindi della sua leadership – avviene grazie a un sapiente mix di continuità e discontinuità nel quale alla condivisione quasi «emotiva» e sapientemente giocata a livello subliminale delle ragioni dei «sommersi» e dei «salvati» della prima Repubblica fa da contraltare – ed è questo il dato di discontinuità – un tono populista e antipartitico che punta a intercettare l’indignazione delle masse. L’abilità di Berlusconi all’inizio della sua avventura sta appunto nella capacità di utilizzare la «massa elettorale di manovra» ereditata dal pentapartito – opportunamente depurata di qualsiasi connotazione politica originaria che non sia un generico richiamo ai valori di libertà e di filoatlantismo – al servizio di un «nuovismo» intriso di antipolitica funzionale al clima del momento e favorito dalla naturale propensione, alquanto demagogica, a presentarsi come un self made man. In ciò, a differenza del centrosinistra, Berlusconi è indubbiamente agevolato dall’avere a disposizione un partito sì nuovo, ma non certamente affetto dal «vizio della diversità». Un vizio assurdo che, in quei frangenti, la sinistra invece esaspera in termini quasi antropologici, con il risultato di alienarsi gran parte di quell’elettorato moderatamente centrista e insieme riformista che finisce, suo malgrado, per rifugiarsi nell’astensione oppure – più per reazione che per convinzione – verso incoerenti approdi, senza mai consolidarsi stabilmente in termini politici o di blocco sociale. L’insieme di questi fattori e il bisogno di rinnovamento del ceto politico che si avverte nell’opinione pubblica del tempo, se consente a Berlusconi di arrivare al potere non gli consente, tuttavia, di governare efficacemente il paese proprio perché i suoi homines novi difettano di senso dello Stato e hanno una scarsissima conoscenza dei meccanismi di funzionamento delle istituzioni pubbliche. Sarà solo dopo la caduta del suo primo governo che Berlusconi, ritornato all’opposizione, per ovviare a tale inconveniente, procederà a un graduale ma deciso avvicendamento della sua prima linea, tanto nel partito che nel parlamento, favorendo l’inserimento di consistenti elementi di «professionismo» politico di lungo corso. Se ciò gli consente di affrontare meglio la sfida elettorale che lo vede vittorioso nel 2001 – a causa delle convulsioni che agitano il centrosinistra, alle prese con il tentativo di «ristrutturazione» del suo assetto – e di riconquistare il potere, facendo conseguire al suo gabinetto il record di durata nella storia repubblicana, non gli permette però, alla lunga, di governare efficacemente il paese. Ciò a causa di una visione «impoliticamente egocentrica e autosufficiente» che mal si concilia con le logiche di una coalizione alquanto articolata che poco sopporta l’eccesso di potere del leader della Casa delle Libertà e il tentativo di privilegiare l’asse nordista rispetto a quello centrista. Una visione assolutista e semplificatrice della complessità della politica che, nel lungo periodo, ha rivelato tutti i suoi limiti derivanti in larga misura dalla natura «autocratica» della sua leadership e da una sostanziale sopravvalutazione dell’efficacia del messaggio mediatico all’insegna di un personalismo a-ideologico rispetto ai più tradizionali, meno visibili ma più duraturi, meccanismi di costruzione e consolidamento del consenso sul territorio basati sulla credibilità politica, la capacità di amministrare la cosa pubblica e di stabilire un rapporto non episodico con gli elettori. La costruzione di un «partito apicale» è, da questo punto di vista, la conseguenza inevitabile di questa errata prospettiva e impedisce da un lato all’organizzazione di consolidarsi sul territorio nel rapporto con i propri militanti e dall’altro di diventare un momento serio di elaborazione di una linea politica, oltre che di crescita di una classe dirigente.

Lo stesso apporto dei think tank, che in altri contesti si erano rivelati effettivi laboratori di idee, analisi e proposte rispetto alle quali i partiti di riferimento operavano la necessaria sintesi politica, diviene un mero orpello svilito e asservito ai desideria principi. Pur in presenza di questi limiti, l’impulso riformatore del leader della Casa delle Libertà si rivela quasi sempre decisivo, ma non sempre efficace per il superamento delle non poche fibrillazioni della sua maggioranza e nell’assicurare, anche a costo di qualche sbrego, il rispetto del patto di coalizione. In quegli anni a sinistra si produce invece qualcosa di veramente singolare e, per certi versi, paradossale se si considera che a presidiare quest’area resta il PDS, ossia l’erede di una tradizione politica fondata sul primato del partito: la sostanziale abdicazione al proprio ruolo in nome di un antipartitismo che ha come conseguenza alquanto imperfetta, sul piano della normale dialettica democratica, il trionfo di quella tecnocrazia che pure aveva vissuto, spesso da protagonista, le vicende della prima Repubblica e che era sempre stata border line al sistema dei partiti, ben inserita nei circuiti dell’establishment economico-finanziario e alla quale viene delegata irrevocabilmente la transizione italiana. In un paese distratto dall’ossessione della corruzione,1 diventata un potente fattore di instabilità e insieme la lente deformata e deformante attraverso la quale si consumerà la destrutturazione del sistema politico ed economico. In quegli anni si assiste, per ragioni diverse e non ancora del tutto chiarite,2 a una sostanziale «devoluzione» di quote di sovranità politica e di legittimazione democratica a favore di questa nuova «aristocrazia politica» che sfrutta abilmente la debolezza di quel che resta dei partiti per orientare il centrosinistra verso un assetto speculare a quello realizzato da Berlusconi. È in questo contesto fortemente segnato dal passaggio dalla «democrazia organizzata, fondata sulla mediazione dei partiti, a democrazia individualistica fondata sul rapporto immediato tra singoli e rappresentanti »3 che si afferma, anche nel centrosinistra, un modello di leadership il quale, nonostante le iniziali pulsioni personaliste, per un verso risente della maggior forza relativa dei partiti di riferimento e della loro naturale idiosincrasia verso forme di personalizzazione ritenute espressive di una cultura autoritaria da contrastare e, per l’altro verso, della perdurante «minorità politica» del maggior partito della coalizione il quale, privo evidentemente di un credibile coté riformista a causa della sua travagliata partenogenesi, non esita a vedere in una leadership non autoctona il passaggio necessario per realizzare l’antico «sogno rodaniano» e biodegradare, in tal modo, la propria diversità in un più ampio progetto federativo e unionista all’insegna di un rinnovato spirito «ciellenista» contro il comune avversario da battere.

Questo spiega la faticosa gestazione di una leadership condivisa che non è, come nel centrodestra, la «naturale proiezione» dei rapporti di forza tra i partiti della coalizione, ma il frutto di un artificio democratico di fondo (l’investitura di secondo grado anziché primaria di una personalità non espressa dal maggior partito della coalizione), che la priva, volutamente, di quella legittimazione carismatica che deriva solo dal quotidiano cimento nella contesa politico-elettorale.

Una soluzione resa indispensabile che nasce dalla difficoltà, tutta politica, di riunire in un soggetto politico unitario le diverse forze politiche che si riconoscono in modo affatto unificante nel centrosinistra e che, in realtà, riflette l’estrema caducità del sistema bipolare. Un atteggiamento che, al di là delle contingenze, è il portato di una tradizione politica, quale quella italiana, che ha sempre trovato il proprio equilibrio nell’alternanza tra leadership di partito e di governo e ha sempre guardato con diffidenza a ogni forma di concentrazione di potere tipica dei modelli di leadership europei e che taluno riconduce storicamente alla «primogenitura» dei partiti rispetto alle istituzioni repubblicane e, quindi, al carattere «geneticamente partitocratrico»4 della Repubblica. Questo retaggio culturale consente di orientare il modello di leadership verso una connotazione indubbiamente meno «cesarista» fondamentalmente ispirata, nei suoi meccanismi di governance interna, alla dialettica comunitaria tra Consiglio e Commissione che sottende il diverso grado di legittimazione dei due organismi. Un modello rivelatosi, alla distanza, certamente più democratico e inclusivo ma che è tuttavia destinato a fare i conti, prima o poi, sul piano sistemico, con la rovinosa crisi del berlusconismo, drammaticamente esplosa nelle consultazioni regionali del 2005 e nella conseguente crisi di g overno (solo formalmente ricomposta) che segna l’irrefutabile e inesorabile «ascendente declino» di un modello di leadership personale, espressione di una cultura politica pre-moderna (che richiama nei suoi tratti distintivi e istintivi la monarchia assoluta con annesso Stato patrimoniale) sviluppatasi all’insegna di un «paganesimo politico cresocratico».

Una crisi che acclara, altresì, l’evidente immaturità del gracile bipolarismo italian style5 destinato a liberare e rivitalizzare, tanto a destra quanto a sinistra, quelle soggettività che, per quanto destrutturate da un decennio di maggioritario, determineranno il riemergere di un profilo di leadership coalizionale meno personalista, più equilibrata e meno omologante delle differenze. Come tale, certamente più esposta alle turbolenze della politica ma, probabilmente e paradossalmente, maggiormente propedeutica a una definitiva stabilizzazione del sistema politico italiano verso assetti più articolati e consoni alla sua tradizione, ma non per questo meno efficaci. Gli stessi passaggi istituzionali della crisi di governo sono stati rivelatori della schizofrenia di un sistema nel quale, da troppo tempo, convivono due Repubbliche (la prima e la seconda) e, per dirla con Manzella,6 tre Costituzioni: quella reale, quella materiale e, da ultimo, quella virtuale, che ha suggestionato pericolosamente l’immaginario di Berlusconi portandolo a un passo da una clamorosa rottura della prassi costituzionale ritardando e ritrattando le sue dimissioni, poi formalmente rassegnate, dinanzi al Capo dello Stato.

Così una crisi che, nelle intenzioni del presidente del consiglio, doveva sancire, con una condotta irrituale, il primato della seconda Repubblica, si è invece risolta all’insegna del puntuale rispetto delle regole della prima, decretando il tramonto di una stagione e il ridimensionamento di un leader acconciatosi, suo malgrado, a presiedere un governicchio sostenuto dalla «non sfiducia» di Follini.

Paolo Segatti7 ha illustrato su queste colonne, con dovizia di dati, la qualità ma anche la problematicità delle istanze politiche sottese ai flussi elettorali messisi in movimento con il voto regionale, che denotano come la vittoria delle regionali è stata una vittoria innanzitutto «politica», enfatizzata da un sistema elettorale che lascia tuttavia irrisolte le dinamiche interne alla coalizione di centrosinistra, caratterizzate certo da una tendenziale maggiore omogeneità dell’ala riformista, ma da una altrettanto irriducibile pluralità non sufficiente a farne prevedere una evoluzione in termini di partito unico, quanto piuttosto in termini di una federazione un po’ più strutturata (mediante una cabina di regia) ma ancora fortemente dicotomica nella sua identità portante. È, infatti, del tutto evidente che il voto amministrativo del 3 e 4 aprile ha innescato nel polo di centrodestra una «deriva elettorale» dal cui esito dipenderà la nuova geografia politica italiana prossima ventura. Da questo punto di vista, se si considera che il centrosinistra oggi racchiude al suo interno il nucleo più consistente delle eredità politiche un tempo tra loro alternative, è abbastanza prevedibile che esse, venendo meno il «fattore B», tenderanno a rioccupare la propria naturale collocazione. Diversamente non si comprenderebbe l’avvincente collaborazione-competizione tra le due componenti più significative della FED, fermamente impegnate a delimitare e ampliare il proprio perimetro elettorale, se non nella prospettiva di un loro più generale «riposizionamento» conseguente all’esito delle dinamiche in atto e che muovono tutte nella direzione di una riaggregrazione di uno schieramento moderato, sostanzialmente centrista nel suo asse portante, in grado di intercettare il voto forzista in libera uscita. Per ora si tratta di movimenti lenti, quasi impercettibili, destinati a dispiegarsi, con ogni probabilità e a meno di imprevedibili accelerazioni, nel corso della prossima legislatura, quando sarà più chiara la parabola di Forza Italia e, con essa, di tutto il centrodestra. Sarà solo allora, dalla capacità di riassorbire l’anomalia italiana riportando nell’alveo originario delle rispettive storie il latente moderatismo e il latente riformismo variamente disperso, che dipenderà il definitivo assestamento dell’«instabilità costituiva»8 del nostro sistema politico in due grandi rassemblements, l’uno liberaldemocratico e l’altro liberalsocialista, sufficientemente articolati e coesi, che potranno limpidamente contendersi – magari attraverso un nuovo sistema elettorale che salvaguardi rappresentatività, stabilità e alternanza – il governo del paese senza bisogno «di inventarsi Ulivi e Margherite».9 Ma questo è un capitolo ancora tutto da scrivere. Per ora siamo solo ai prolegomeni.

 

 

Bibliografia

1 M. Naìm, La questione morale soffoca la democrazia, in «Il Corriere della Sera», 25 marzo 2005, p. 16.

2 G. De Michelis, La lunga ombra di Yalta, Marsilio, Venezia 2003.

3 M. Dogliani, Costituzione e sistema politico, pp. 2-3, su: www.magistraturademocratica.it/md.php/6/674

4 L. Ornaghi e V. E. Parsi, La virtù dei migliori, Il Mulino, Bologna 1994, p. 146.

5 M. Salvati, L’alternanza necessaria, in «Corriere della Sera», 15 aprile 2005.

6 A. Manzella, La terza Costituzione, in «La Repubblica», 22 aprile 2005.

7 P. Segatti, Elezioni regionali: analisi e promesse del voto, in «Italianieuropei», 2/2005.

8 I. Diamanti, La democrazia fluida, in «La Repubblica», 24 aprile 2005.

9 Salvati, Senza compromessi, in «Il Corriere della Sera», 8 maggio 2005.

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