Lo straniero senza diritti e la rappresentazione del nemico

Di Luigi Manconi Lunedì 16 Gennaio 2012 12:47 Stampa

I diritti degli stranieri, proclamati solennemente dal diritto internazionale e dalle Costituzioni, sono oggi quotidianamente violati. Ciò vale ancor più per l’ordinamento italiano, connotato dalla limitazione dei diritti e delle garanzie e dal ricorso, anche simbolico, alla sanzione penale, in particolare a partire dalla legge 189/02, la cosiddetta Bossi-Fini.


1. Ci sono i diritti e ci sono le violazioni dei diritti. E c’è un dato ineludibile: secondo l’osservatorio Italia-razzismo, curato da Valentina Brinis e Valentina Calderone, dal 1 gennaio al 15 dicembre del 2011, nel tratto di mare tra l’Africa e l’Europa sono stati 2160 i migranti morti o dispersi. Si tratta di una stima, presumibilmente per difetto, che corrisponde in sostanza a quella fornita da Fortress Europe e da un coordinamento di associazioni (ACLI, Centro Astalli, Caritas Italiana, Comunità di Sant’Egidio, Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, Fondazione Migrantes). Pertanto, quanto segue, va costantemente ricondotto a quelle cifre crudeli.

2. Singolare il destino dello ius migrandi: il più antico dei diritti naturali è oggi di fatto negato; in alcuni paesi (quali l’Italia) addirittura criminalizzato. Benché asimmetrico – in quanto invocato unilateralmente dagli europei a sostegno di una strategia colonialista – sin dalla sua prima teorizzazione (Francisco de Vitoria, nella prima metà del XVI secolo), lo ius migrandi entrò a far parte dei principi fondamentali del diritto internazionale consuetudinario. Considerato da Locke quale presupposto di diritti primari come la proprietà e il lavoro, con Kant fu addirittura affiancato – nel “Terzo articolo definitivo per la pace perpetua” – al diritto di immigrare, quale diritto, cioè, a essere accolto in uno Stato diverso da quello di appartenenza. 1 Sancito positivamente dall’articolo 13 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, lo ius migrandi è riconosciuto in quasi tutte le Costituzioni recenti, inclusa quella italiana che affianca alla libertà di espatrio (quale diritto civile: articolo 16) la libertà di emigrazione quale diritto sociale «fondamentale» del lavoratore (sentenza 269/86 della Corte costituzionale, in relazione all’articolo 35, comma 4 della Costituzione). Non meno paradossale è la sorte toccata al diritto d’asilo. Proclamato dal diritto internazionale (in particolare, Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati del 28 luglio 1981; articolo 14 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo), ricompreso dalla nostra Costituzione tra i principi fondamentali, viene quotidianamente violato. Innanzitutto, dalla prassi dei respingimenti in mare (contrastante anche con il divieto di espulsioni collettive sancito dalla CEDU, Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, nonché con l’articolo 13 della Costituzione, che subordina alla convalida giurisdizionale le misure limitative della libertà personale, quali i respingimenti che si traducano in accompagnamenti coattivi), oltre che delle espulsioni in violazione del divieto di refoulement (si pensi alla sentenza CEDU Saadi versus Italia del 2006, in relazione alle espulsioni di soggetti sospettati di terrorismo messe in atto ai sensi dell’articolo 3 del decreto legge 144/05, cosiddetto decreto Pisanu).

Se la libertà di emigrazione e il diritto d’asilo rappresentano diritti specifici del migrante, una volta stabilitosi nel territorio dello Stato ospite, l’immigrato e il richiedente asilo sono titolari dei diritti riconosciuti alla persona in quanto tale, fatta salva la possibilità del legislatore nazionale di escluderli dal godimento dei diritti di cittadinanza, strettamente legati cioè allo status activae civitatis. Il fatto che in questa categoria rientrino tradizionalmente i diritti politici (pietre angolari dell’ordinamento democratico secondo la sentenza 19/62 della Corte costituzionale) dimostra allora in primo luogo, per quanto concerne l’Italia, l’inadeguatezza della disciplina della cittadinanza. Da fattore di promozione dell’eguaglianza, quest’ultima rischia di diventare, paradossalmente, – in contrapposizione agli status con cui nelle società dell’antico regime venivano designati i singoli – strumento di discriminazione.2 In secondo luogo, l’esclusione da diritti fondamentali, quali i diritti politici, di quella che oggi rappresenta una parte decisiva del demos nelle nostre democrazie dimostra come, rispetto al fenomeno dell’immigrazione, saltino le categorie in cui tradizionalmente sono stati classificati i diritti sinora.

Depone in tal senso anche l’inadeguatezza della cittadinanza quale parametro – ammesso anche dalla Corte europea dei diritti dell’uomo – per il riconoscimento dei diritti sociali o di prestazione (che non siano ovviamente fondamentali). Si pensi, ad esempio, al lavoro: nel momento in cui viene configurato dal legislatore non già come un diritto ma come un onere da soddisfare ai fini della regolarità del soggiorno, esso diviene di fatto il presupposto essenziale per il godimento dei diritti fondamentali. Ciò contribuisce a rendere il diritto al lavoro sempre più equivalente a un diritto fondamentale. Del resto, anche rispetto agli stessi diritti fondamentali, la condizione giuridica dello straniero rischia di essere caratterizzata dal paradosso dell’ineffettività. Secondo la giurisprudenza costituzionale, infatti, se è il principio di eguaglianza (rispetto al cittadino) a regolare la condizione giuridica dello straniero per quanto concerne la titolarità dei diritti fondamentali, il loro esercizio può essere diversamente modulato in ragione della cittadinanza, purché in modo ragionevole e al fine di salvaguardare interessi meritevoli di tutela (si pensi, in particolare, all’ordine e alla sicurezza pubblici): sentenze 62/94 e 148/08. Fermo restando, in ogni caso, il rispetto del nucleo essenziale di ciascun diritto fondamentale (per il diritto alla salute, sentenza 252/01 della Corte costituzionale).

Quanto fin qui riportato dimostra come la disciplina dell’immigrazione richieda, come si è anticipato, un profondo ripensamento delle categorie in cui tradizionalmente sono stati classificati i diritti, ispirato al rispetto del principio di eguaglianza e all’esigenza di affiancare all’astratta titolarità dei diritti la reale possibilità di esercitarli.

Tale esigenza è ancora più forte in un ordinamento, quale il nostro, che almeno a partire dalla legge 189/02 (cosiddetta Bossi-Fini) è caratterizzato da una corsa al rialzo delle norme sanzionatorie, a fronte della scarsità delle misure volte a favorire l’integrazione sociale o la stessa tutela dei migranti rispetto ad atti sempre più frequenti di discriminazione. Particolarmente significativi appaiono, in tal senso, i provvedimenti emanati nella legislatura in corso (in particolare, il decreto legge 92/08, convertito con modificazioni dalla legge 125/08, e la legge 94/09) che, oltre a inasprire sanzioni già previste o a introdurne di nuove, hanno sancito norme limitative dei diritti (anche fondamentali) degli stranieri – comprensive di misure volte a impedire l’accesso degli irregolari ai servizi pubblici (salvo le prestazioni sanitarie e scolastiche obbligatorie), a contrarre matrimonio, a conseguire atti di stato civile, la cittadinanza o il titolo di soggiorno, a trasferire denaro da e verso il paese di origine – così da fare “terra bruciata” attorno allo straniero irregolare ed estendere il termine di permanenza nei CIE (Centri di identificazione ed espulsione). Molte delle norme introdotte a partire dalla legge 189/02 sono state dichiarate illegittime dalla Consulta, che ha subordinato la legittimità delle disposizioni – comunque non irragionevoli né contrastanti con obblighi internazionali – limitative dei diritti degli stranieri alla loro idoneità a realizzare «un ragionevole e proporzionato bilanciamento tra i diversi interessi, di rango costituzionale (…) specialmente quando esse siano suscettibili di incidere sul godimento di diritti fondamentali» (sentenza 245/11; in senso analogo si vedano le sentenze 61/11, 187/10 e 306/08). Come afferma la Corte, infatti, è certamente vero che la «basilare differenza esistente tra il cittadino e lo straniero» può «giustificare un loro diverso trattamento» nel godimento di certi diritti (sentenza 104/69; e in senso analogo si veda la sentenza 62/94). Tuttavia, i diritti inviolabili, di cui all’articolo 2 della Costituzione, spettano «ai singoli non in quanto partecipi di una determinata comunità politica, ma in quanto esseri umani», ne consegue che la «condizione giuridica dello straniero non deve essere considerata – per quanto riguarda la tutela di tali diritti – come causa ammissibile di trattamenti diversificati e peggiorativi» (sentenza 249/10; in senso analogo si veda la sentenza CEDU O’Donoghue versus Regno Unito del 2010, secondo cui il margine di apprezzamento riservato agli Stati non può estendersi fino al punto di introdurre una limitazione generale, automatica e indiscriminata, a un diritto fondamentale garantito dalla Convenzione). Esattamente ciò che ha fatto, invece, il legislatore italiano, introducendo (soprattutto di recente ma a partire almeno dalla legge 189/02) istituti derogatori del diritto comune e norme fortemente limitative dei diritti fondamentali degli stranieri, non sorrette neppure da un ragionevole bilanciamento con interessi costituzionali di pari rango, come la Consulta ha avuto modo di rilevare, in particolare, a proposito del diritto dello straniero a contrarre matrimonio (subordinato, dalla legge 94/09, alla presentazione di un documento attestante la regolarità del soggiorno nel territorio italiano) o dell’aggravante di clandestinità introdotta dal decreto legge 92/08, ovvero dell’aggravante comune – e come tale applicabile a ogni reato, a prescindere dal legame con il bene giuridico tutelato o con la natura della condotta – fondata sulla mera condizione di irregolarità del soggiorno del migrante. Tale norma è stata dichiarata incostituzionale con la sentenza 249/10, per violazione dei principi di ragionevolezza, offensività e materialità, secondo cui, insomma, non si può incriminare una persona per ciò che è o pensa di fare ma solo per ciò che ha fatto, sempre che abbia violato un bene ritenuto meritevole di tutela per l’ordinamento. Dunque l’aggravante aveva natura “discriminatoria”, non attenuata ma anzi, asseverata, dal reato di clandestinità, in quanto costituente la premessa per «duplicazioni sanzionatorie, (…) originate dalla qualità acquisita con un’unica violazione delle leggi sull’immigrazione, ormai oggetto di autonoma penalizzazione, e tuttavia priva di qualsivoglia collegamento con i precetti penali in ipotesi violati dal soggetto interessato. (...) La qualità di immigrato “irregolare” diventa così uno “stigma”, che funge da premessa a un trattamento penalistico differenziato del soggetto, (…) in base a una presunzione assoluta, che identifica un “tipo di autore” assoggettato, sempre e comunque, a un più severo trattamento» (sentenza 249/10 della Corte costituzionale).

La legge 94/09 ha poi accentuato la tendenza alla “precarizzazione” della condizione dello straniero, in particolare subordinando il rilascio (e il rinnovo) del permesso di soggiorno alla stipula di un “accordo di integrazione” tra lo straniero e lo Stato e il riconoscimento dello status di soggiornante di lungo periodo al superamento di un test di lingua italiana; ampliando le cause di revoca e le condizioni ostative al rilascio del permesso di soggiorno (peraltro subordinato al versamento di una “tassa”); introducendo nuovi e più stringenti requisiti per l’ottenimento della cittadinanza italiana iure matrimonii. Ma soprattutto, la legge 94/09 ha introdotto il reato di ingresso e soggiorno illegali nel territorio dello Stato che, sebbene sia stato dichiarato non illegittimo dalla Consulta (sentenza 250/10 della Corte costituzionale), sembra incompatibile, in particolare, con il principio di sussidiarietà della sanzione penale, secondo cui essa si giustifica solo come extrema ratio, cui ricorrere per tutelare beni giuridici dotati di significativa rilevanza sociale e di copertura costituzionale (almeno implicita), e sempre che non siano sufficienti misure meno restrittive di quella penale.3 Tale argomento è avvalorato dalla giurisprudenza costituzionale, secondo cui «per quanto possano essere percepiti come gravi i problemi di sicurezza e ordine pubblico connessi a flussi migratori incontrollati, non può risultarne minimamente scalfito il carattere universale della libertà personale» (sentenza 105/01).

Come detto, molte delle norme introdotte durante le legislature di centrodestra, a partire dalla legge 189/02, sono state dichiarate illegittime dalla Consulta e dalla Corte di giustizia, che con la sentenza El Dridi del 2011 ha censurato la previsione della detenzione per uno dei reati cardine del sistema sanzionatorio del Testo unico (l’inottemperanza all’ordine di allontanamento), ribadendo come secondo la direttiva 2008/115/CE le misure restrittive della libertà debbano costituire l’extrema ratio. In conformità a tale principio, il decreto legge 89/11 ha sostituito la pena pecuniaria a quella detentiva in alcune norme del Testo unico, tornando peraltro a configurare come residuale la modalità coattiva di esecuzione dei provvedimenti di espulsione, favorendo in via generale il rimpatrio volontario. Tuttavia, in maniera contradditoria, lo stesso decreto ha esteso fino a diciotto mesi il termine per il trattenimento nei CIE, nonostante l’aperto contrasto non solo con l’articolo 13 della Costituzione, ma anche con il favor libertatis e il principio di “minimizzazione” dell’uso della forza cui s’ispira la direttiva.

E se è ragionevole prevedere che questa norma – come molte altre del Testo unico – sarà censurata dalla Consulta o dalla Corte di giustizia, ciò che nessuna sentenza potrà mai eliminare è l’effetto – prodotto da norme quali il reato di clandestinità – sulla rappresentazione e sull’idea stessa dello straniero, percepito come criminale e nemico insieme, da cui difendere le nostre “piccole patrie”.

3. Si intende che qualunque strategia finalizzata ad affermare e a tutelare efficacemente i diritti degli stranieri, rendendoli esigibili, debba porre mano a una riforma intelligente e razionale dell’attuale disciplina sulla cittadinanza. Va da sé, infatti, che – come autorevolmente affermato – essa costituisca una vera e propria “follia”.

 


 

[1] L. Ferrajoli, Il razzismo istituzionale del governo, in “il manifesto”, 12 settembre 2009.

[2] V. Onida, Lo statuto costituzionale del non cittadino, in “Diritto e società”, 3-4/2009.

[3] Si veda F. Resta, Il delitto di immigrazione irregolare tra comparazione e riforma, in S. Lorusso (a cura di), Le nuove norme sulla sicurezza pubblica, Cedam, Padova 2008.

Acquista la rivista

Abbonati alla rivista