Ma l'unilateralismo di Bush è davvero superato?

Di Mario Del Pero Venerdì 01 Febbraio 2002 02:00 Stampa

Nei mesi precedenti l’attentato terroristico dell’11 settembre, l’amministrazione Bush aveva cercato di promuovere una politica estera marcatamente diversa da quella seguita durante il secondo mandato di Bill Clinton. Essa traeva spunto da una aperta critica nei confronti dell’approccio di cooperazione multilaterale adottato da Clinton e dal suo Segretario di Stato, Madeleine Albright, di cui si denunciavano i vincoli posti alla libertà d’azione degli USA, e proponeva invece una strategia a metà strada tra un engagement selettivo in alcuni ambiti e la ricerca di consolidare ed estendere il primato egemonico americano in altri (in particolare nel campo della politica di sicurezza).

 

Nei mesi precedenti l’attentato terroristico dell’11 settembre, l’amministrazione Bush aveva cercato di promuovere una politica estera marcatamente diversa da quella seguita durante il secondo mandato di Bill Clinton. Essa traeva spunto da una aperta critica nei confronti dell’approccio di cooperazione multilaterale adottato da Clinton e dal suo Segretario di Stato, Madeleine Albright, di cui si denunciavano i vincoli posti alla libertà d’azione degli USA, e proponeva invece una strategia a metà strada tra un engagement selettivo in alcuni ambiti e la ricerca di consolidare ed estendere il primato egemonico americano in altri (in particolare nel campo della politica di sicurezza).1

La svolta di Bush originava sia dall’applicazione di una diversa chiave di lettura geopolitica sia da considerazioni legate alla politica interna, e in particolare alla necessità di offrire una piattaforma comune al variegato arcipelago del conservatorismo statunitense. La prima, esposta soprattutto dal consigliere per la Sicurezza nazionale Condoleezza Rice, era centrata sull’applicazione delle categorie proprie di una tradizionale politica di potenza e sull’idea di un recupero del concetto d’interesse nazionale, abbandonato secondo Rice alla mercé di vari interessi particolari all’interno degli Stati Uniti e al condizionamento sia dei partner di Washington sia dei suoi potenziali antagonisti (Russia e Cina). L’interpretazione flessibilmente unipolare del quadro internazionale determinata dall’applicazione di tali categorie forniva così la giustificazione teorica ad un approccio di tipo unilaterale, secondo il quale l’indipendenza della politica estera americana, di per sé garantita dalla quasi assenza di vincoli sistemici all’operato dell’unica grande potenza rimasta, non doveva essere sacrificata alle costrizioni imposte dall’engagement multilaterale promosso da Clinton e Albright. Questo unilateralismo, che per convenienza potremo definire «strategico», s’intrecciava e si sovrapponeva con quello di natura più strettamente politica, legato agli equilibri interni del partito repubblicano. Sia durante la campagna elettorale sia nei primi mesi di governo, Bush ha tenacemente cercato di offrire un comune denominatore alle diverse anime del conservatorismo americano, evitando di marginalizzarne le componenti più radicali. Una politica estera dai connotati unilaterali permetteva di soddisfare pulsioni assai radicate nell’immaginario del partito repubblicano, in particolare in quella destra che era stata alla base della cosiddetta «rivoluzione neoconservatrice » del 1994 e che conserva tuttora un ruolo centrale nel garantire l’unità e la coesione del partito.2

L’unilateralismo di Bush si è manifestato in maniera per certi aspetti eclatante nel rigetto di una serie di accordi internazionali e, soprattutto, nella decisione di procedere sulla strada della creazione di un sistema missilistico di difesa (National Missile Defense, NMD), assai più ambizioso di quello previsto dall’amministrazione Clinton. A dispetto del successo di alcuni recenti test, la NMD in fase di sperimentazione rimane un progetto futuribile, di cui non si conoscono le effettive potenzialità. La valenza politica del sistema di difesa missilistica è però evidente. La NMD costituisce l’architrave simbolica su cui poggia l’unilateralismo della nuova amministrazione e il mezzo che permette di nirne la dimensione strategica e quella politico-dottrinale. Nella retorica fatta propria dalla destra repubblicana, la NMD offre lo strumento attraverso cui ritornare ad una inviolabile «fortezza America», liberando il paese dai vincoli corruttori del multilateralismo wilsoniano di Clinton e Albright.3

Di fatto, però, la strategia della nuova amministrazione ha incontrato una serie di ostacoli già prima della tragedia dell’11 settembre. Le categorie proposte da Rice hanno rapidamente evidenziato la loro sostanziale debolezza teorica: l’idea di un interesse nazionale declinabile in senso unitario e omogeneo si è scontrata con la natura pluralista e articolata della società statunitense; il recupero delle categorie proprie di una politica di potenza di taglio realista è risultato a sua volta inadeguato rispetto a un sistema internazionale caratterizzato da una rete d’interdipendenze alle quali nemmeno l’unica grande potenza rimasta può sottrarsi. Questi aspetti sono emersi con chiarezza nel maggio scorso in occasione della crisi con la Cina (il «competitore strategico » principale nella linea della nuova amministrazione) causata dall’abbattimento di un aereo spia americano. In quell’occasione, le pressioni degli elementi più moderati del partito repubblicano e dei rappresentanti d’interessi economici ostili ad un deterioramento dei rapporti tra i due paesi indussero l’amministrazione a riporre la propria retorica anticinese e ad abbandonare la linea dell’intransigenza sostenuta da Rumsfeld e dal suo vice, Paul Wolfowitz.

Prima dell’11 settembre è parso inoltre che le ambizioni unilaterali di Bush fossero destinate ad essere frustrate dall’opposizione del partito democratico (che nel maggio scorso ha riacquisito il controllo del Senato) e da quella, interna all’amministrazione, del dipartimento di Stato e del suo Segretario, Colin Powell. La diffusa rappresentazione mediatica di Powell come continuatore della linea Clinton-Albright è quantomeno discutibile. Il segretario di Stato condivide con gli altri membri del gabinetto una profonda avversione nei confronti della linea dell’«interventismo umanitario» e della politica di nation e democracy-building adottata nel secondo mandato clintoniano. L’origine delle tensioni tra Powell e il Pentagono risiede piuttosto nell’ostilità del primo verso il modello di difesa hightech sostenuto da Rumsfeld e Wolfowitz, e la conseguente marginalizzazione del ruolo dell’esercito. Nondimeno, l’antagonismo venutosi a determinare all’interno dell’esecutivo ha creato un ulteriore ostacolo al dispiegamento di una strategia coerentemente unilaterale.

Le ambizioni unilaterali di Bush hanno condizionato l’interpretazione statunitense del significato della comunità occidentale e del futuro dell’alleanza atlantica. Le ambivalenze spesso presenti nelle modalità con cui Washington ha concepito il proprio ruolo all’interno della NATO sono legate ai diversi obiettivi per i quali l’alleanza è stata concepita: essa fu al contempo strumento della guerra fredda, istituito per contenere l’Unione Sovietica e offrire una cornice di sicurezza militare al processo di crescita economica e consolidamento democratico in Europa occidentale, e mezzo per risolvere problemi che predatavano l’antagonismo bipolare postbellico, quali l’inadeguatezza del tradizionale equilibrio di potenza europeo nel garantire la stabilità del continente, il coinvolgimento americano nelle vicende europee e il controllo delle possibili pulsioni revansciste tedesche. Accentuando uno di questi elementi a discapito degli altri, Washington ha spesso assunto una posizione ambivalente verso il processo di allargamento dell’alleanza e, con esso, di ampliamento dei confini della communitas occidentale. Esso può infatti essere interpretato sia come veicolo di una estensione della sicurezza collettiva costruita in Europa nel dopoguerra, attraverso l’inclusione di nuovi membri nella rete d’interdipendenze politiche, strategiche e finanche culturali sviluppate anche grazie alla cornice istituzionale offerta dalla NATO, sia come strumento del contenimento delle mire egemoniche russe sul continente europeo.4

L’approccio unilaterale di Bush e la decisione di procedere alla creazione di un sistema di difesa missilistica contro il parere dei propri alleati europei riflettevano una visione assai rigida dell’alleanza atlantica, concepita principalmente come strumento di una politica di neo-contenimento della Russia. Tra il gennaio e il settembre 2001 ciò ha contribuito ad accrescere le difficoltà nei rapporti tra gli Stati Uniti e i loro partner europei, alimentato la diffidenza russa (solo in parte attenuata da quello che appare come un rapporto di fiducia personale tra Putin e Bush) e indotto un avvicinamento tra Russia e Cina, simboleggiato dal trattato di amicizia e cooperazione ratificato dai due paesi nel luglio scorso.

L’attacco terroristico dell’11 settembre si è inserito pertanto entro un quadro di tensioni all’interno della comunità occidentale, che l’improvviso materializzarsi di un nuovo nemico comune ha inizialmente rimosso. La decisione dei paesi membri di invocare per la prima volta l’articolo 5 del Patto Atlantico ha avuto un profondo significato simbolico, in cui l’espressione di solidarietà e sostegno nei confronti degli Stati Uniti si è intrecciata con una riaffermazione implicita, ma chiara, della centralità della NATO e della necessità di non abbandonare la via della cooperazione multilaterale nel campo della sicurezza. Il dramma delle Twin Towers e la minaccia del terrorismo hanno stimolato una rinnovata coesione all’interno della comunità atlantica, provocato un forzoso ma genuino rigurgito internazionalista nell’opinione pubblica americana e, infine, obbligato l’amministrazione Bush a ripensare la propria strategia unilaterale. È significativo come i frequenti riferimenti analogici alla guerra fredda, fatti propri da numerosi commentatori e studiosi dopo l’11 settembre, non si siano quasi mai concentrati sulla facile e immediata equazione tra terrorismo e comunismo, quanto sulla dimensione collettiva della sicurezza violata e sulla conseguente necessità di farvi fronte attraverso percorsi cooperativi e non unilaterali.5

La discussione sulla comunità occidentale e sui confini dell’Alleanza atlantica è stata radicalmente condizionata dagli eventi dell’11 settembre e dal senso di pericolo che essi hanno suscitato. La minaccia del fondamentalismo islamico e la necessità inderogabile di collaborare con la Russia e di coinvolgerla nella campagna contro il terrorismo internazionale hanno portato all’accantonamento della logica del neo-contenimento, e sono sembrate rilanciare quell’approccio universalista wilsoniano aspramente denunciato in passato da Bush e Rice. Come ha sottolineato lo storico Frank Ninkovich, «il wilsonismo privo di un senso vivo del pericolo è come il cristianesimo senza un terrore profondo della dannazione e delle fiamme dell’inferno».6 L’improvvisa accelerazione della discussione sulle forme e i tempi di una futura integrazione della Russia nelle strutture dell’Alleanza atlantica ha costituito l’esempio più evidente di come l’11 settembre abbia ridefinito i termini del dibattito sulla comunità occidentale: l’invito dell’ex Segretario di Stato James Baker a valutare concretamente la possibilità di un ingresso della Russia nella NATO sarebbe stato semplicemente impensabile nel clima di qualche mese fa.7

Nondimeno, le posizioni unilaterali rimangono assai forti all’interno dell’amministrazione Bush e gli esiti del processo in corso tutt’altro che chiari. Il vertice del novembre scorso tra Bush e Putin è stato caratterizzato da frequenti riferimenti alla necessità di giungere a un «superamento» definitivo sia della guerra fredda sia della incerta transizione degli anni Novanta. È incerto, però, se tale «superamento» avverrà portando a compimento il percorso intrapreso da Clinton e Albright, e una conseguente estensione geografica e concettuale dell’idea di comunità occidentale, o seguendo un percorso quale quello sostenuto da Bush e Rice prima dell’11 settembre. Le ambivalenze a tale riguardo rimangono significative e anche il processo di allargamento dell’Alleanza atlantica fino a includere la Russia può essere interpretato come strumentale a una strategia egemonica di Washington, finalizzata a diluire il significato della NATO e le costrizioni da essa imposte alla libertà di azione internazionale degli Stati Uniti.8

Lo stesso andamento della guerra ha evidenziato una volta di più quanto siano forti le idee unilaterali all’interno dell’amministrazione repubblicana. Alla inevitabile centralità del Pentagono, ove più forti sono tali idee, è corrisposta una progressiva marginalizzazione di Powell e del dipartimento di Stato. La crisi ha inoltre stimolato l’affermazione di un «discorso di sicurezza nazionale» che ha sortito l’effetto paradossale di rimuovere gran parte delle obiezioni dei democratici nei confronti della strategia militare dell’amministrazione e della decisione di procedere alla creazione di un sistema missilistico di difesa. È di dicembre la decisione di Bush di abbandonare unilateralmente il trattato ABM del 1972 nonostante l’opposizione (peraltro assai rassegnata) di Putin. Questa decisione evidenzia i limiti della politica statunitense di coinvolgimento della Russia in un nuovo sistema di sicurezza collettiva, ma anche l’impatto relativo dell’11 settembre sugli obiettivi di lungo periodo di Bush: il dividendo politico garantito dalla NMD e la sua valenza simbolica sono risultati più importanti delle richieste dei partner degli Stati Uniti (presenti e potenziali) e della evidente inutilità della NMD rispetto alle effettive minacce alla sicurezza degli Stati Uniti, drammaticamente evidenziata dall’attacco terroristico al World Trade Center.

I sondaggi indicano ovviamente un tasso di consenso elevatissimo per le scelte compiute da Bush e la condotta del conflitto in Afganistan. Ma per quanto coesa e unita nel rispondere alla situazione di crisi, l’opinione pubblica statunitense rimane assai divisa e segmentata rispetto alle tematiche internazionali. Entro l’asse definita agli estremi dall’idea di una separazione degli Stati Uniti dal resto del mondo ovvero da quella di una loro partecipazione piena alle vicende mondiali permangono una pluralità di posizioni intermedie e sfumate, che tendono a scivolare verso una delle due parti a seconda delle necessità e delle contingenze. L’unilateralismo originale di Bush, non di rado male interpretato come una forma di neo-isolazionismo, rappresentava al contempo un approccio internazionalista e «anticomunitario», laddove privilegiava un’interpretazione delle relazioni internazionali centrata sull’idea dell’interesse nazionale e dei rapporti di potenza. Come sottolineato, esso offriva un comune denominatore all’eterogeneo mondo conservatore, evitando di dover ricorrere a populismi isolazionisti. Le aporie generate da tale approccio, già evidenti prima dell’11 settembre, sono state esacerbate dall’attentato alle Twin Towers. Da un lato l’attacco terroristico è parso stimolare il ritorno a nuove forme di cooperazione multilaterale, simboleggiato anche da una rinnovata fiducia verso un maggior ruolo delle Nazioni Unite nella gestione delle situazioni di crisi; dall’altro l’andamento della guerra ha confermato lo scetticismo di vasti settori dell’opinione pubblica statunitense verso meccanismi di sicurezza collettiva e ha finito per offrire ulteriori elementi al fronte unilateralista all’interno dell’amministrazione. 9

Il terrorismo internazionale rappresenta un nemico assoluto e onnipresente,  ma proprio per questo privo di ancoraggi istituzionali e strategie definite. In quanto tale, la sua semplice esistenza contribuisce a definire, per reazione, quella di una communitas internazionale potenziale, capace di andare oltre l’immaginario della guerra fredda e la sua divisione dicotomica per antonomasia: quella tra oriente e occidente. Il comune denominatore negativo della lotta al terrorismo può pertanto rappresentare uno stimolo assai potente al consolidamento di una rete d’interessi comuni nel campo della sicurezza. Esso indica inoltre con chiarezza la necessità di ridefinire una cornice istituzionale adeguata all’interno dell’Alleanza atlantica, come primo passo verso la gestione multilaterale di un’emergenza che difficilmente cesserà con la cattura di Bin Laden e la fine del conflitto in Afghanistan.

La praticabilità di tale percorso non dipenderà ovviamente solo dalle scelte degli Stati Uniti, ma sarà radicalmente condizionata dalla disponibilità dell’amministrazione Bush ad abbandonare un unilateralismo inadeguato per far fronte alla nuova realtà internazionale. Proprio le ambivalenze americane e la presenza di linee diverse all’interno dello stesso esecutivo guidato da Bush offrono all’Europa una possibilità, peraltro non nuova, di condizionare la politica estera americana, sostenendo quella politica di engagement e cooperazione adottata fino ad ora dal dipartimento di Stato e sostenuta da figure assai importanti all’interno del partito repubblicano (oltre che dalla quasi totalità del partito democratico). I mesi futuri offriranno un primo test della capacità europea di vincere l’opposizione dogmatica e pregiudiziale di molti esponenti dell’amministrazione Bush, a partire da Rice, verso operazioni di nationbuilding che conseguono inevitabilmente a conflitti quale quello in corso in Afghanistan. Per fare ciò, sarà però buona cosa che i principali paesi europei si ricordino di fare parte di una comunità istituzionalmente definita, e abbandonino una volta per tutte l’ambizione velleitaria, ma ricorrente, di potere muoversi secondo gli schemi di una politica nazionale di potenza obsoleta e inattuabile.

 

 

Bibliografia

1 Per una sintetica introduzione alle principali strategie di politica estera discusse negli Stati Uniti durante gli anni Novanta – il neo-isolazionismo, la sicurezza collettiva e cooperativa, l’engagement selettivo e il primato egemonico (primacy) – si veda B. P. Posen e A. Ross, Competing Visions for U.S. Grand Strategy, in «International Security», XXI, (1996/7), Winter, pp.5-53. Per un primo bilancio della politica estera clintoniana, cfr. D. Halberstam, Bush, Clinton and the Generals, Simon & Schuster, New York 2001, e P. Melandri e J. Vaïsse, L’Empire du milieu. Les États-Units et le monde après la guerre froide, Odile Jacob, Paris 2001.

2 Il manifesto della politica estera di Bush è C. Rice, Campaign 2000: Promoting the National Interest, in «Foreign Affairs», (2000), January/February. Sulla linea di politica estera adottata dalla destra repubblicana dopo il successo elettorale del 1994 si veda R. Greenberger, Dateline Capitol Hill: The New Majority’s Foreign Policy, in «Foreign Policy», (1995-96), Winter, pp.159-169.

3 Alcuni sondaggi recenti hanno evidenziato come la percentuale di sostenitori della NMD sia assai più elevata all’interno della destra repubblicana che tra le componenti più moderate del partito. Cfr. Sondaggio del Pew Research Center for the People and the Press, in Public Behind Bush on Key Issues. Modest Support for Missile Defense. No Panic on China (https://www.cfr.org/p/pubs/Pew_BushEurope.html) e K. H. Bowman, Americans High on Missile Defense System, in «Roll Call», May 3, 2001.

4 Su questa ambivalenza si veda ad esempio S. Talbott, Why NATO Should Grow, in «The New York Review of Books», XLII, (1995), August 10. Sui molteplici significati dell’Alleanza atlantica e sulla sua intrinseca dimensione «wilsoniana» si veda F. Ninkovich, The United States, NATO, and the Lessons of History, in D. J. Kotlowsky (a cura di), The European Union. From Jean Monnet to the Euro, Ohio University Press, Athens 2000, pp.203-211.

5 W. A. McDougall, Cold War II, Foreign Policy Research Institute, FPRI Wire, IX, (2001), October (https://www.fpri.org/fpriwire/0907.200110.mcdougall.colldwar2.html) e F. Romero, La guerra come metafora: la costruzione di una strategia internazionale per gli Stati Uniti, in «Italianieuropei», (2001), 1.

6 F. Ninkovich, The United States, NATO, op. cit., p.210. Sempre di Ninkovich si veda The Wilsonian Century. US Foreign Policy Since 1900, University of Chicago Press, Chicago 1999.

7 J. Baker III, Russia in NATO?, in «The Washington Quarterly», XXVI, (2002), Winter, pp.95-103.

8 In tal senso si esprime S. R. Schwenninger, Bush’s Globalized NATO, in «The Nation», (2001), December 24.

9 J. G.Ruggie, The UN: Bush’s Newest Ally?, in «The Nation», (2001), December 31.

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