Nuove regole per un’immigrazione sostenibile

Di Marcella Lucidi Martedì 05 Novembre 2013 16:22 Stampa
Nuove regole per un’immigrazione sostenibile Foto: Orazio Esposito

Il drammatico naufragio al largo delle coste di Lampedusa del 3 ottobre scorso ha riportato alla ribalta la questione del ripensamento delle normative che regolano l’immigrazione nel nostro paese, a partire da quella che introduce il reato di immigrazione clandestina. Fino ad ora, è mancata una legislazione che guardasse al fenomeno in modo ampio e lo considerasse non come una contingenza ma come un elemento imprescindibile della nostra epoca.


È trascorso un mese da uno dei più drammatici naufragi avvenuto a pochi metri da Lampedusa. Naufragio che ha restituito alla terra i cadaveri di 366 migranti. Insieme all’eco delle loro storie individuali, dei drammi familiari, della generosità della comunità dell’isola, ormai custode della porta d’accesso d’Europa, nonché delle parole sentite e forti di personalità istituzionali e religiose, resta l’esigenza tanto avvertita di ripensare gli strumenti normativi con i quali disporci, finalmente, a governare un fenomeno epocale, che non si arresta e che va oltre le tragedie con cui si rappresenta.

Intanto, anche i superstiti del 3 ottobre scorso cominciano a essere gli stranieri che vivono tra noi, come tanti altri che li hanno preceduti e che, come loro, sono riusciti a raggiungere la “terra promessa”, sia essa il luogo dove trovare lavoro sia quello dove chiedere asilo. Ben sapendo che ai rifugiati spetta il diritto di rimanere sul territorio nazionale, potremmo, invece, domandarci dove sono finiti tutti gli altri, ovvero coloro che, con mezzi di fortuna o con il pretesto di un permesso turistico, sono riusciti, nel corso di questi anni, a entrare in Italia e a rimanerci, con una posizione iniziale di “irregolarità”. Da una lettura attenta delle politiche migratorie fin qui adottate, potremmo dedurre che la gran parte di loro compone la cifra degli immigrati che, oggi, dispone di un permesso di soggiorno e si è integrata nelle nostre comunità locali ricongiungendosi con i propri familiari.

Secondo l’Istat, al 1° gennaio 2013, l’Italia ha registrato una presenza di 3.764.236 cittadini non comunitari regolarmente soggiornanti. Tra loro, risulta in crescita la quota degli stranieri soggiornanti di lungo periodo, ovvero da almeno cinque anni (da 1.896.223 nel 2012 a 2.045.662 nel 2013), che, soprattutto al Centro-Nord, costituiscono la maggior parte dei cittadini non comunitari regolarmente presenti (54,3%). A eccezione dei ricongiungimenti familiari, le storie di queste persone ci raccontano che la via dell'irregolarità è stata per loro l’unica strada conosciuta oppure praticabile, e in fin dei conti la più conveniente, per accedere alla nostra società e guadagnarsi un posto di lavoro. E, nei fatti, così è stato, perché l’Italia, terra di immigrazione, non ha ancora ideato un sistema di ingresso legale in grado di funzionare, che sia ben conosciuto a chi progetta di lasciare il proprio paese natale e sia percorribile fin dall’origine del viaggio. Già la legge Turco-Napolitano non era riuscita in questo intento. Ma il peggio è stato fatto dalla legge Bossi-Fini, con la pretesa, poco verosimile, di un incontro a distanza tra domanda e offerta di lavoro, che la realtà ha presto trasformato in finzione, al prezzo di una crescente irregolarità.

La difficoltà di colmare questa lacuna, che vizia fin dall’origine il percorso migratorio verso il nostro paese, ha prodotto diverse criticità: non ha consentito di gestire gli ingressi in correlazione con i flussi stabiliti; ha incentivato i canali di immigrazione irregolare; ha incoraggiato le organizzazioni criminali al controllo delle rotte. Tutto questo ha costretto i governi che si sono succeduti – di centrosinistra e ancor più di centrodestra – a disporre procedure di emersione per sanare, a determinate condizioni, la posizione di tanti cittadini extracomunitari privi del permesso di soggiorno, o a gestire i cosiddetti “decreti flussi”, con la consapevolezza che tanti immigrati già presenti sul territorio dello Stato ne avrebbero usufruito per uscire dall’irregolarità. Vale la pena costatare che, a distanza di tre anni dalla precedente, la procedura di emersione disposta nel 2012 ha prodotto 134.576 domande a favore di altrettanti cittadini extracomunitari che sarebbero irregolarmente impiegati nel nostro paese.

Queste, e tante altre buone ragioni, dovrebbero indurre a riformare, fuori dalla diatriba ideologica, la legislazione vigente. Volendo superare, in prima istanza, l’insostenibile ipocrisia e vergogna di avere scritto nel nostro diritto quel reato di immigrazione clandestina per cui sono stati indagati, d’ufficio, i sopravvissuti al naufragio del 3 ottobre scorso.

Un’elaborazione normativa che volesse, tra l’altro, disporre l’Italia a un maggior governo dei flussi migratori dovrebbe preoccuparsi di offrire alle nostre istituzioni efficaci strumenti di pianificazione, al fine di gestire gli ingressi nell’ottica dell’integrazione e, quindi, della progettazione di un’immigrazione sostenibile.

A questo obbiettivo si era inteso contribuire, nel 1998, con l’articolo 3 della legge Turco-Napolitano, prevedendo che il presidente del Consiglio predisponesse, ogni tre anni, un Documento programmatico per la politica dell’immigrazione nel territorio dello Stato, approvato dal governo e trasmesso al Parlamento per il parere. In linea con questa disposizione, furono redatti e approvati i Documenti relativi ai trienni 2001-2003 e 2004-2006. Il Documento per il triennio 2007-2009 fu predisposto dal governo Prodi ma non giunse all’esame parlamentare a causa della fine della legislatura, né i governi successivi intesero acquisirlo o predisporne un altro. Sebbene la norma sia ancora vigente, il dato attuale è che dal 2007 in poi nessun Documento programmatico ha motivato o orientato le scelte compiute in tema di immigrazione, lasciate, piuttosto, a valutazioni contingenti e, a volte, adottate sull’onda dell’emergenza.

Con l’intento di recuperare una visione ampia e oggettiva del fenomeno e, conseguentemente, di ideare le politiche migratorie di lungo periodo, nella scorsa legislatura venne depositato al Senato un interessante disegno di legge a prima firma di Massimo Livi Bacci, nel quale era proposta l’istituzione di un’Agenzia nazionale per la programmazione dell’immigrazione, organo che avrebbe dovuto essere composto da personalità di alto profilo tecnico e, per questo, sarebbe risultato indipendente dalle maggioranze politiche. Tra i compiti dell’Agenzia si tornava a prevedere la redazione di un Documento programmatico pluriennale che desse a ogni istituzione competente gli elementi utili a compiere scelte coerenti e giustificabili.

Nell’auspicio che detta proposta torni a vivere nelle aule parlamentari per divenire legge dello Stato, la discussione su un cambiamento delle regole vigenti non può più prescindere dalla qualità e dall’idoneità del sistema giuridico a saper trattare il fenomeno migratorio per quello che esso realmente è, ovvero un segno indelebile del nostro tempo che ha già inciso sulla società occidentale, obbligandola a ripensarsi come società interculturale e, pertanto, impegnandola a non subire i cambiamenti ma, per quanto le è possibile, a governarli.

 

 


Foto: Orazio Esposito

 

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