Tassare le transazioni finanziarie non è più un tabù

Di Ronny Mazzocchi Martedì 05 Febbraio 2013 17:29 Stampa
Tassare le transazioni finanziarie non è  più un tabù Foto: Lore & Guille

L’autorizzazione concessa dall’Ecofin del 22 gennaio scorso all’introduzione di una tassa sulle transazioni finanziarie, pur essendo un’iniziativa apprezzabile in sé, rischia, se rimarrà il solo provvedimento in tal senso, di mancare l’obiettivo del contrasto all’eccesso di rischiosità nella speculazione finanziaria. È necessario che essa diventi invece il primo passo nel più ampio processo di revisione dell’architettura istituzionale che regola i sistemi monetari e finanziari internazionali.


Fra le varie decisioni prese nell’ultima riunione dell’Ecofin del 22 gennaio scorso la più rilevante è senza dubbio l’autorizzazione, concessa agli 11 Stati membri che ne hanno fatto richiesta, a introdurre una tassa sulle transazioni finanziarie (FTT). La palla passa ora alla Commissione europea che dovrà avanzare una proposta di cooperazione rafforzata sulla base dell’articolo 329 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea. Quello della FTT non è stato un percorso privo di ostacoli. Nel settembre del 2011 la Commissione aveva presentato una proposta per l’introduzione di una Tobin Tax a livello comunitario, ma nel Consiglio non si era raccolta una maggioranza sufficiente per procedere in tal senso. La stessa decisione dell’Ecofin di autorizzare alcuni paesi a introdurre una tassa sulle transazioni finanziarie è passata con l’astensione di quattro paesi – Repubblica Ceca, Lussemburgo, Malta e Regno Unito – quasi a voler sottolineare dubbi e resistenze verso un provvedimento che comunque sembra godere di un vastissimo sostegno popolare. Il suo appeal politico sembra dipendere da due aspetti fra loro intimamente legati: da un lato la FTT rappresenta idealmente un’arma per lottare contro l’odiata speculazione finanziaria, individuata come il colpevole numero uno dell’attuale situazione di crisi; dall’altro essa si concretizza in una piccola imposta prelevata a molti e distribuita a molti, capace così di finanziare nuovi investimenti infrastrutturali e migliori prestazioni di welfare. Ci sono tuttavia anche fondate ragioni tecniche per introdurre una tassa sulle transazioni finanziarie. Se c’è una cosa che la crisi del 2008 ha mostrato con chiarezza è che gli investitori hanno assunto troppi rischi e che questo è accaduto perché i prodotti finanziari non incorporavano una valutazione corretta della loro rischiosità. Cartolarizzazioni e portafogli sempre più diversificati avevano alimentato l’illusione che il rischio fosse scomparso, generando una crescita della produzione e dello scambio di titoli assicurativi derivati. Ma come una assicurazione per auto non fa diminuire il rischio di fare un incidente o subire un furto, così i titoli assicurativi non hanno affatto ridotto quella componente ineliminabile di rischio che è presente su tutti i mercati e che ne rappresenta la ragione stessa di esistenza.

A pagare il conto di questo clamoroso abbaglio non sono stati però solamente gli investitori, ma anche i clienti, i dipendenti, gli azionisti, i semplici cittadini e addirittura tutte quelle istituzioni finanziarie che si erano tenute alla larga dai mutui subprime. Gli effetti negativi dell’attività finanziaria e la loro ricaduta su persone terze ricalcano abbastanza fedelmente l’esempio manualistico della fabbrica che, con i suoi scarti, finisce per inquinare anche il torrente che scorre nelle vicinanze, creando un danno per i cittadini del villaggio a valle che non hanno nulla a che vedere con la sua attività produttiva. Gli economisti considerano questa situazione un classico fallimento del mercato: il prezzo a cui la fabbrica vende i suoi prodotti non incorpora il danno ambientale causato, quindi è più basso del dovuto. Di conseguenza la produzione risulta maggiore di quanto non sarebbe stata se si fosse tenuto conto anche dell’inquinamento del fiume. Per correggere questa stortura, la teoria economica si è inventata varie possibili soluzioni. Quella più utilizzata consiste nell’introduzione di una imposta di fabbricazione che trasferisca sul prezzo di vendita il costo di utilizzo del fiume, facendo così diminuire la produzione e, con essa, l’inquinamento. La tassa sulle transazioni finanziarie avrebbe un effetto analogo, facendo quello che il mercato non fa autonomamente: trasferirebbe il costo del rischio sul prezzo dei titoli, riducendone così la quantità commerciata. È vero che questo avrebbe un effetto negativo – seppur marginale – sui risparmiatori, ma la FTT permetterebbe di ottenere gli effetti auspicati: si pagherebbero un po’ di più i prodotti finanziari e se ne utilizzerebbero un po’ di meno, ma questo contribuirebbe a ridurre anche l’esposizione al rischio dei cittadini che è un risultato socialmente desiderabile.

L’idea che una piccola imposta su ogni transazione finanziaria possa correggere in futuro le errate valutazioni della rischiosità e ridurre così i rendimenti e i volumi di scambio dei titoli è indubbiamente affascinante e condivisibile, ma non priva di controindicazioni. La prima criticità riguarda lo spazio geografico di applicabilità dell’imposta: permettere alla Gran Bretagna di restare fuori dall’accordo sulla FTT significa tagliare fuori la piazza di Londra, dove si svolge la stragrande maggioranza delle transazioni finanziarie che riguardano l’Unione europea. Le uniche operazioni che verrebbero colpite sarebbero così solo quelle fra Londra e i paesi che decideranno di applicare l’imposta, con il rischio che la riduzione vada a colpire solo i già modesti volumi d’affari che transitano sulle piazze del continente. La seconda criticità è, invece, di natura istituzionale: è ormai largamente accettato nel dibattito economico che a incentivare la diffusione di strumenti finanziari come le cartolarizzazioni e la creazione di società-veicolo fuori dal bilancio delle banche abbia contribuito la discutibile regolamentazione finanziaria introdotta dai criteri di Basilea II. In mancanza di una revisione dell’attuale sistema di incentivi che premia la redditività a breve a scapito di quella a lungo termine, c’è la concreta possibilità che una FTT, aumentando i costi delle transazioni finanziarie, finisca per ridurre i profitti degli istituti di credito, incentivando – invece di scoraggiare – l’assunzione di sempre maggiori rischi da parte di ciascun operatore. Infine, l’ultima criticità riguarda la scelta dello strumento: se lo scopo è quello di introdurre qualche forma di controllo del settore finanziario, sarebbero probabilmente più efficaci dei vincoli ai movimenti di capitale, capaci – fra le altre cose – di discriminare fra transazioni “buone” e “cattive”. Dopo tre lustri in cui i controlli di capitale sono stati considerati un inviolabile tabù, la più recente ricerca economica e lo stesso Fondo monetario internazionale li stanno riprendendo in considerazione come utili strumenti per la messa in atto delle politiche monetarie e come elementi di stabilizzazione dei mercati valutari e finanziari.

In conclusione, la FTT e la decisione di procedere con la sua implementazione in alcuni paesi europei va vista con favore solo se questo costituirà un primo passo per una revisione generale dell’architettura istituzionale che regola i sistemi monetari e finanziari internazionali. Da sola rischia invece di mancare gli obiettivi che ci si era prefissi di raggiungere.

 

 


Foto: Lore & Guille

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