La politica culturale come misura anticrisi: la scommessa della Germania

Di Ubaldo Villani-Lubelli Lunedì 29 Agosto 2011 17:12 Stampa
La politica culturale come misura anticrisi: la scommessa della Germania Foto: Jack Bloom

La Germania ha saputo risollevarsi dalla crisi economico-finanziaria prima e meglio degli altri paesi europei, grazie a un precoce sistema di riforme ma soprattutto per merito di un’illuminata politica di investimenti nei settori di ricerca, formazione e istruzione, dimostrando come anche da essi sia possibile ottenere concreti benefici economici.


Mentre l’Europa fatica a uscire dalla crisi economico-finanziaria, c’è un paese che vive una crescita tale da essere diventato un modello economico e sociale: la Germania. Il sistema tedesco è attualmente un paradigma politico a cui costantemente richiamarsi. Ma qual è il segreto della Repubblica federale tedesca? Come mai la Germania è stato il primo paese dell’area euro a uscire (e bene) dalla crisi economica internazionale?

La Germania, appena un decennio fa, attraversava una crisi profonda e occupava uno degli ultimi posti in Europa nella classifica della crescita economica. La combinazione tra la rapida e costosa riunificazione e l’introduzione della moneta unica europea avevano messo in difficoltà l’economia tedesca. Oggi, però, la situazione è molto diversa. Se nel 2009 la crescita della Germania segnava un catastrofico –4,7%, il 2010 è stato l’anno della ripresa con un +3,6%. E il 2011 si chiuderà, prevedibilmente, con una crescita superiore al 3%. I disoccupati, che nel 2005 erano cinque milioni (circa il 12%), oggi sono meno di tre milioni – a giugno scorso la disoccupazione si è attestata al 6,9%. Si tratta del dato più basso dalla riunificazione del 1990 ad oggi. Non solo, dunque, la Germania è uscita dalla crisi, ma è tornata a essere il paese trainante dell’intera economia dell’area euro.

I motivi del successo tedesco sono molteplici e l’artefice principale di questa rinascita è un politico della recente storia europea troppo frettolosamente dimenticato. Il suo nome è Gerhard Schröder. L’ex cancelliere socialdemocratico, al governo dal 1998 al 2005, realizzò quelle riforme impopolari che oggi sono costretti a fare i governi di molti Stati europei, primi fra tutti Spagna, Portogallo, Irlanda, Grecia e Italia. La Germania, inoltre, negli anni della grande coalizione tra cristiano-democratici e socialdemocratici, con il primo governo Merkel (dal 2005 al 2009), continuò la strada delle riforme già intrapresa dal governo progressista rosso-verde.[1] Fu soprattutto la riforma delle pensioni, già parzialmente introdotta da Schröder nel 2000, a rappresentare un momento di svolta per l’economia tedesca. Se dunque oggi la Germania cresce più e meglio degli altri Stati europei e non necessita di riforme strutturali, è perché queste sono state già fatte negli anni precedenti alla crisi. La Germania, inoltre, ha saputo affrontare nel modo migliore la crisi del 2008: una manovra da ventitré miliardi di euro con investimenti in infrastrutture, ammortamenti sociali e un programma per facilitare l’accesso al credito per le piccole e medie imprese. Sempre nel 2008, poi, è stato realizzato il più grande programma di stimolo all’economia della storia della Repubblica federale tedesca: riduzione dell’imposta del reddito, un trasferimento una tantum per le famiglie con bambini e sostegno dell’industria automobilistica (particolarmente importante in Germania!). Ma a contribuire alla crescita economica del paese è stato un altro fattore: il finanziamento alla ricerca scientifica, alla formazione e allo sviluppo. Un provvedimento che dimostra la lungimiranza dei tedeschi in tempi di crisi e che marca una differenza sostanziale rispetto a molti altri paesi europei, e soprattutto rispetto all’Italia. A un paese come il nostro, che tra le misure anticrisi ha inventato la social card e la stabilità dei conti, potrà sembrare un azzardo o, peggio, un non-senso il finanziamento alla ricerca, alla formazione e allo sviluppo. Eppure c’è un paese nel cuore dell’Europa che l’ha fatto e tutti gli indici economici di oggi dimostrano la bontà di questa scelta. Mentre in Italia si è ancora fermi a un’anacronistica discussione sull’utilità o meno della ricerca e, più in generale, della cultura, in Germania il governo ha realizzato un patto generazionale senza pensare a strumenti straordinari e fantasiosi, ma semplicemente finanziando ciò che più di tutto garantisce un futuro ai giovani, ciò che permette alle generazioni future di avere una possibilità di successo: la formazione e l’istruzione. Non è un caso che uno dei più autorevoli settimanali tedeschi, “Die Zeit”, nel luglio scorso, abbia dedicato un’edizione all’“Elogio della cultura”.[2] Il settimanale tedesco metteva in risalto l’enorme offerta culturale (tra cui principalmente opere, musei, musica e teatro) della Germania. Qui, infatti, la cultura fiorisce non solo grazie ai finanziamenti pubblici e privati, ma anche perché esiste una particolare sensibilità e un desiderio di «non rinunciare a ciò che rappresenta la misura della nostra civiltà», come recitava il sottotitolo della testata “Die Zeit”.

Non deve, dunque, sorprendere l’iniziativa del governo di Berlino, la quale si inserisce in un contesto favorevole alla buona politica culturale. I finanziamenti per la ricerca e lo sviluppo in Germania sono in continua crescita dal 1999. Secondo i dati pubblicati dall’Ufficio federale di statistica di Wiesbaden, dal 2005 al 2009 sono passati da 55.739 a 66.653 milioni di euro. L’aumento più significativo è stato proprio all’inizio della grande crisi economica internazionale: dal 2007 al 2008 la ricerca ha avuto il più cospicuo finanziamento degli ultimi dieci anni passando da 61.482 a ben 66.532 milioni di euro in un solo anno. La percentuale del finanziamento in rapporto al prodotto interno lordo (PIL) è aumentata in modo significativo nel corso degli anni: 2,40% nel 1999; 2,49% nel 2005; 2,68% nel 2008; 2,78% nel 2009. E tutto questo è avvenuto proprio durante i periodi di maggior instabilità economica.[3] A livello internazionale, molto meglio della Germania hanno fatto soltanto Finlandia, Svezia, Giappone e Corea (quest’ultima è passata dall’1,7% al 3,4% dal 1991 al 2008!), leggermente meglio gli Stati Uniti con il 2,7% del 2008, mentre Gran Bretagna, Irlanda e Francia, nel 2008, erano ferme rispettivamente all’1,8% e al 2,1%. Estremamente deludente il dato relativo all’Italia. In rapporto al PIL il nostro paese ha investito in ricerca e sviluppo soltanto l’1,22% nel 2008, percentuale cresciuta leggermente nel 2009 a circa l’1,28%. Secondo, poi, una recente indagine conoscitiva della Commissione cultura della Camera dei deputati, la percentuale dei finanziamenti alla ricerca e allo sviluppo in rapporto al PIL sarebbe addirittura ferma all’1,1%,[4] molto al di sotto della media europea che si attesta intorno al 2%.

Per dimostrare che i finanziamenti alla ricerca, alla formazione e allo sviluppo sono soldi ben spesi, è sufficiente vedere quanto abbiano inciso sul mercato del lavoro. Le persone impiegate nel settore della ricerca sono costantemente aumentate negli ultimi anni (a parte una lieve flessione tra il 2001 e il 2004) passando da 470.729 nel 2004 a 529.226 nel 2009. E ancora: alla fine del 2010 erano impiegate nelle università e nelle cliniche universitarie circa 324.000 persone, circa il l8% in più rispetto al 2009. Nel 2010, inoltre, circa 41.500 professori e professoresse hanno insegnato o portato avanti delle ricerche in università tedesche, circa il 3% in più rispetto all’anno precedente. In quest’ultimo caso è da evidenziare che la presenza delle donne è aumentata del 19% rispetto al 2009. Il personale scientifico, formato da 156.200 collaboratori, è aumentato, in generale, di quasi il 7%.

Se poi passiamo alle previsioni per il 2011, la situazione dovrebbe migliorare ulteriormente. Secondo i dati del ministero per la Ricerca e la formazione, la spesa per ricerca e sviluppo si attesterà a circa 12,85 miliardi di euro.

Alla luce di questi dati è evidente che la classe politica tedesca dimostra di avere una particolare attenzione alla ricerca, allo sviluppo e alla formazione, settori che vengono, a ragione, considerati strategici nell’economia tedesca ma anche indispensabili per garantire un futuro migliore alle nuove generazioni. A ulteriore dimostrazione basti pensare che le scienze umanistiche, quelle molto spesso (erroneamente) considerate meno produttive o inutili, tra il 2006 e il 2008 hanno ricevuto un aumento dei finanziamenti superiore a quello di tutte le altre discipline. Quest’ultimo dato risulta essere particolarmente interessante alla luce della crisi mondiale dell’istruzione, così come descritta di recente da Martha Nussbaum in “Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica”.[5] Secondo la studiosa di Chicago si tratta di una crisi silenziosa e inosservata. Le nazioni, infatti, sempre più attratte dall’idea del profitto, stanno adeguando a questa logica anche i sistemi scolastici e formativi. In questo modo si sacrificano, in maniera scriteriata, quei saperi che sono indispensabili a mantenere viva la democrazia. Il rischio che si corre è che i sistemi scolastici del futuro producano generazioni di docili macchine anziché cittadini a pieno titolo in grado di pensare da sé, criticare la tradizione e comprendere il significato delle sofferenze e delle esigenze delle altre persone.

La Germania e la sua politica culturale rappresentano un’alternativa credibile per molti Stati occidentali e sono la dimostrazione che è ancora possibile investire in formazione e ricerca e che questo, oltre a creare dei cittadini più consapevoli dei problemi della comunità in cui vivono, può portare anche dei benefici economici.



[1] Per un approfondimento si veda S. Bolgherini, F. Grotz (a cura di), La Germania di Angela Merkel, il Mulino, Bologna 2010.

[2] “Die Zeit”, 28/2011.

[3] Si vedano Ausgaben, Einnahmen und Personal der öffentlichen und öffentlich geförderten Einrichtungen für Wissenschaft, Forschung und Entwicklung, Statistisches Bundesamt, Wiesbaden 2011; “Bildung und Forschung in Zahlen 2011. Ausgewählte Fakten aus dem Daten-Portal des Bundesministerium für Bildung und Forschung”, Bonn/Berlino 18 luglio 2011.

[4] Si veda Commissione VII Cultura, Scienze e Istruzione (XVI legislatura), Indagine conoscitiva sullo stato della ricerca in Italia, 30 marzo 2011, disponibile su www.airi.it/wp-content/uploads/2010/03/indagine-stato-della-ricerca-in-italia.pdf.

[5] M. Nussbaum, Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica, il Mulino, Bologna 2011.

 


Foto di Jack Bloom

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