Hamas e Fatah: i perché di un accordo inevitabile

Di Maria Grazia Enardu Venerdì 06 Maggio 2011 17:49 Stampa
Lo scorso 4 maggio Fatah e Hamas hanno firmato un accordo che dovrebbe porre fine alle divisioni fra i palestinesi. La ritrovata unità, al di là dei termini dell’accordo, cambierà in modo sostanziale la posizione e la capacità negoziale dei palestinesi, in un momento in cui gli equilibri politici del Mediterraneo e del Medio Oriente sono in profonda trasformazione. 

 

L'accordo tra Fatah e Hamas negoziato qualche giorno fa al Cairo, con i buoni uffici dell'Egitto, anzi del nuovo Egitto, ha alla sua base una semplice e ineluttabile logica: per quanto grande sia l'avversione reciproca delle varie fazioni palestinesi, la loro frammentazione è il maggior regalo al loro nemico, interlocutore, controparte – Israele.

Fornisce a Israele non solo l'argomento che non si può trattare con i terroristi (Hamas) ma che non c'è nessuno con cui trattare davvero, perché discutere con l'Autorità Palestinese, di cui Hamas non fa parte, non servirebbe a trovare una soluzione valida.

In verità, Israele di soluzione, nel senso di uno Stato palestinese, non ne ha mai veramente voluta una, ma almeno due. Un'Autorità Palestinese nel West Bank, con cui trattare su aspetti minori ma sempre importanti, e che soprattutto non faccia forte opposizione agli insediamenti e garantisca sicurezza. E un troncone palestinese a Gaza, isolato in tutti i sensi.

Questa strategia di affossamento di un vero processo di pace, diventata politica dei governi di destra da Olmert a Netanyahu, ovvero dalla vittoria elettorale, risicata ma inequivocabile, di Hamas nel 2006, era per i palestinesi tutti un nodo scorsoio. Così come la chiusura di Gaza, garantita anche da Mubarak, era per i palestinesi governati da Hamas, dopo il collasso del governo uscito dalle elezioni, una situazione insostenibile. Sia per i razzi che da Gaza arrivavano su Israele, di Hamas o Jihad Islamica importa poco, sia perché nessuna azione punitiva israeliana, come Piombo Fuso nel dicembre 2008, poteva risolvere alcunché.

Il mondo arabo è velocemente cambiato e continua a cambiare. I palestinesi ne hanno preso atto, e anzi possono anche considerare questi mutamenti un vantaggio, perché indirettamente li rafforzano.

Due Stati di estrema importanza per gli equilibri della regione, hanno cambiato direzione.

L'Egitto, non più sotto il controllo di Mubarak, si avvia a prossime e vere elezioni, a una nuova politica, sicuramente meno proclive a fare da sponda a Israele, e non solo su questioni come il controllo dei varchi di Gaza.

La Siria è in una fase di turbolenza di assai difficile previsione, e questo influenza anche il delicatissimo equilibrio del Libano. In Libano ci sono molti profughi palestinesi, in Siria meno, ma c'è il capo di Hamas, quel Khaled Meshal rifugiatosi a Damasco dopo che gli israeliani hanno tentato di ammazzarlo col veleno ad Amman nel 1997.

Divisi, i palestinesi erano in una condizione di debolezza estrema, verso Israele e anche verso i paesi definiti amici.

Uniti, cambia tutto. Poco importa il testo dell'accordo, peraltro assai stringato: governo a interim comune, elezioni entro un anno. Basta che in calce ci siano le firme delle due parti. Come in tutti gli accordi squisitamente politici, quel che conta è la volontà di stare insieme, litigando furiosamente magari lontano da orecchie altrui, ma pronti ad agire insieme in una regione, e in un mondo, che sta davvero cambiando.

L'accordo ha già una vittima politica eccellente, il primo ministro, peraltro tecnico e solo del West Bank, Salam Fayyad, che ha amministrato assai bene la sua area, rassicurato gli israeliani sulla sicurezza e soprattutto attirato investimenti stranieri e aiuti assai preziosi.

Hamas lo detesta, fosse solo perché è riuscito nel miracolo di governo che Hamas avrebbe voluto intraprendere, lasciando a loro l'impresa impossibile di governare una Gaza sigillata.

Certo Fayyad non ha avuto a che fare con Gaza, forse la sua eccellente amministrazione avrebbe avuto risultati minori su quel terribile banco di prova, ma tant'è.

Il testo dell'accordo evita questioni immediatamente irrisolvibili, ad esempio se Hamas accetta, e con quale formula, gli accordi dell'AP con Israele e quindi il riconoscimento palestinese di Israele.

Ma anche la questione del riconoscimento è cambiata. Da anni il governo Netanyahu insiste affinché i palestinesi, nello specifico l'Autorità di Abu Mazen, accettino Israele come Stato ebraico e non come Stato e basta. Ovvero Israele ha alzato la sbarra, e non solo verso i palestinesi ma con un occhio anche verso i suoi cittadini arabi: che costoro sappiano di vivere in uno Stato ebraico riconosciuto come tale anche dai palestinesi “esterni”.

L'accordo, proprio perché stringato, ha una serie di intese non scritte, quindi formalmente più fragili ma comunque rilevanti. Sicuramente Hamas accetta, e impone alla Jihad, una tregua nel lancio di razzi su Israele, questione complessa che ha sempre avuto più svantaggi che vantaggi, e Hamas lo sa bene.

L'accordo ha già causato, prima ancora della firma, un subbuglio in Israele: Netanyahu l'ha immediatamente rigettato, non intende trattare con Hamas nemmeno se questo si presenta con Fatah. Ma diplomatici del ministero degli Esteri, sia pure guidato dall'ancora più irriducibile Lieberman, la pensano diversamente, indicano da tempo il pericolo di divenire uno Stato paria, suggeriscono prudenza e considerano l'accordo un'opportunità strategica da valutare costruttivamente. I diplomatici di Israele leggono quindi la situazione internazionale in modo totalmente diverso dal governo di destra ed estrema destra di Netanyahu.

Un accordo di massima permette ai palestinesi di presentarsi insieme – e sulla loro collettiva credibilità c'è da discutere – davanti agli interlocutori che contano: il Quartetto, l'Unione europea – o perlomeno i grandi stati europei – e soprattutto l'Assemblea delle Nazioni Unite che a settembre dovrebbe discutere di Palestina e magari affrontare la questione della nascita di uno Stato palestinese, dopo il fallimento del 1947.

Gli europei sono cruciali, sia come voti in varie sedi, sia per gli aiuti finanziari che arrivano ai palestinesi, sia per la capacità di premere sugli Stati Uniti.

Ma è appunto l'amico americano di Israele il passaggio determinante, anche se in sede di Assemblea non ha certo diritto di veto. Mentre le prime pagine dei giornali sono occupate dalla morte di Osama Bin Laden, la diplomazia americana e soprattutto il presidente Obama – che si prepara alle elezioni presidenziali del 2012 – devono valutare con estrema cautela e preoccupazione i recentissimi sviluppi palestinesi, che impongono scelte diverse o più accuratamente modulate, e proprio nel momento sbagliato per Obama. Tra poche settimane Netanyahu arriverà in visita, per parlare all'AIPAC (American Israel Public Affairs Committee, la lobby statunitense pro-Israele), al Congresso americano e, inevitabilmente, a Obama. Si attendeva da lui una proposta di rilancio, si rischia di avere un discorso di chiusura.

Tornando ai palestinesi, se la logica delle cose li portava a cercare un'unità perlomeno di facciata, e se la volontà dell'Egitto – e i sui mezzi di pressione su Hamas – è fattore ugualmente chiaro, più sfumato l'altro elemento, di base, che ha persuaso Hamas e Fatah al grande e riluttante passo. L'opinione pubblica palestinese non ha imitato, se non in piccola parte, il fenomeno della primavera araba. Ci sono state manifestazioni nel West Bank, a favore dell’unità e di nuovi metodi, e anche qualcuna a Gaza, luogo assai più difficile. Ma soprattutto erano in programma manifestazioni nel mese di maggio, che dovrebbero raggiungere il culmine il 15 maggio, giornata della Naqba, la catastrofe del 1948.[1]

Manifestazioni definite giovanili, termine che non va inteso come mera descrizione demografica di chi sfila o manifesta. Ma che indica l'emergere, soprattutto nel West Bank, di una leadership diversa, giovane appunto, che parla diversamente e con tecniche diverse, che addirittura pianifica nuove e dirompenti strategie di lotta contro Israele, come la non violenza.

Fatah ha invece una leadership vecchia, non solo perché Abu Mazen è quasi coetaneo di Arafat. La leadership di Hamas è un po’ più giovane, ma in ogni caso i dirigenti delle varie fazioni palestinesi hanno alle spalle una massa di giovani che cerca nuovi leader, e forse li sta trovando.

I capi palestinesi conoscono bene il fenomeno delle leadership giovani e informali, lo hanno visto nel 1936, lo hanno rivisto con la prima Intifada, hanno cercato di incanalarlo in attività militari con la seconda Intifada.

Abu Mazen e Meshal hanno quindi firmato anche per fermare, o perlomeno tentare di controllare, questa nuova leadership. Il che paradossalmente è una garanzia per il funzionamento dell'accordo, molto più del monitoraggio che eserciteranno gli egiziani. Sapere che una rottura porterebbe al caos, faciliterebbe la politica di Israele (insediamenti, ma anche appoggio internazionale) e che inevitabilmente farebbe emergere gruppi dirigenti nuovi e in totale rottura con i vecchi – ecco, una tale prospettiva preoccuperebbe qualunque politico, inclusi Abu Mazen e Meshal.



[1] Ndr.:  Il termine significa “la catastrofe” e viene utilizzato per indicare l’esodo delle popolazioni arabe, che si incrementò in seguito al ritiro del Regno Unito da Palestina e Israele, cominciato proprio il 15 maggio del 1948.

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