La striscia maledetta

Di Carlo Pinzani Venerdì 29 Aprile 2011 16:20 Stampa
La striscia maledetta Foto: J McDowell

L’assassinio di Vittorio Arrigoni e l’accordo di principio raggiunto due giorni fa tra Hamas e Fatah hanno riacceso i riflettori sulla Palestina e su Gaza, e sulle terribili condizioni di vita in un disgraziato territorio dove, da 63 anni, si ammassa una popolazione del tutto sproporzionata alle sue dimensioni e risorse.


L’efferato assassinio del cooperante Vittorio Arrigoni a Gaza ha sollevato in Italia reazioni tanto accorate e sincere sul piano umano quanto superficiali sul piano politico. La nazionalità del giovane, il suo sincero e profondo impegno umanitario, la diffusa rete del volontariato valgono a spiegare come la solidarietà e il cordoglio siano andati ben oltre i limiti della ristretta cerchia di quanti sono consapevoli della situazione a Gaza e della sua potenzialità negativa per l’intero scacchiere mediorientale. Ma sono questi ultimi aspetti a rendere particolarmente drammatica una vicenda che, purtroppo, riveste nel contesto dato i caratteri di una pur orribile quotidianità.

Come si afferma nel rapporto delle Nazioni Unite sul conflitto a Gaza del dicembre 2009-gennaio 2010, «l’economia, le opportunità di lavoro, il tenore di vita delle famiglie erano già gravemente colpite dal blocco [iniziato nel 2007] quando cominciò l’offensiva israeliana. L’insufficiente fornitura di carburante per la produzione di energia elettrica aveva un impatto negativo sull’attività industriale, sull’operatività degli ospedali, sulle forniture idriche alle famiglie e sul trattamento delle acque. Le restrizioni sulle importazioni ed il divieto totale di esportazione da Gaza colpivano il settore industriale e la produzione agricola. Il livello di disoccupazione e la percentuale di popolazione che viveva in condizioni di povertà o di estrema povertà era in aumento». È ovvio che la spedizione punitiva israeliana doveva peggiorare ancora – e sensibilmente – la situazione: si ha così un’idea del contesto reale in cui operava Arrigoni. È vero che il rapporto dell’ONU è stato largamente criticato e che l’ex giudice costituzionale sudafricano Goldstone, che aveva guidato i lavori del comitato ONU, ha riconosciuto che il rapporto era giunto a conclusioni errate circa l’esistenza di una deliberata politica israeliana di colpire i civili. Si tratta di un punto fondamentale che impedisce di considerare il raid israeliano come operazione terroristica ma che non inficia i giudizi generali sulla situazione a Gaza prima e dopo l’invasione, anche se la propaganda israeliana e filoisraeliana ha dilatato l’ammissione di Goldstone fino a farne una sconfessione complessiva dell’intero rapporto. Questo continua invece a confermare tutta la precedente storia di questo disgraziato territorio dove, da 63 anni, si ammassa una popolazione del tutto sproporzionata alle sue dimensioni e risorse, esacerbata dall’esilio forzato e dall’umiliazione dell’esodo imposto dai vincitori israeliani ad oltre 800 villaggi palestinesi nella guerra del 1948-49. Nell’armistizio, concluso nel luglio 1949 per le pressioni internazionali su Israele, gli egiziani riuscirono a conservare la sovranità sulla striscia di Gaza, unica eccezione al confine storico tra Palestina ed Egitto. Da lì, sin dalla metà degli anni Cinquanta, partivano i raid palestinesi verso Israele, fino a quando, nel 1967, gli israeliani, esasperati e pienamente consapevoli della situazione esplosiva che vi regnava, conquistarono il Sinai e Gaza, retrocedendo la penisola dopo la pace con l’Egitto, e mantenendo invece la sovranità sulla striscia perché faceva parte dell’Israele biblica. Ciononostante, nel 2005, le difficoltà poste dall’esplosiva situazione locale, indussero il governo di Sharon a rinunciare all’occupazione.

In questi decenni Israele ha condotto ripetute repressioni delle pulsioni terroristiche dei profughi ammassati a Gaza (particolarmente severa fu quella del 1970-71 condotta dall’allora generale Ariel Sharon), alle quali si accompagnò fin dagli anni Ottanta una deliberata politica di divisione del nazionalismo palestinese. I governi israeliani sfruttarono allo scopo la contrapposizione tra il laicismo dell’OLP e il confessionalismo del più radicale Movimento per la resistenza islamica (Hamas), emanazione palestinese dell’egiziana Fratellanza musulmana, che a Gaza era nato e manteneva il suo punto di forza. La divisione tra le due fazioni si accentuava con l’adesione dell’OLP al processo di pace, avviato con gli accordi di Oslo e definitivamente fallito all’inizio del secolo. Almeno inizialmente la contrapposizione fu bene accolta dagli israeliani che, in modo solo apparentemente paradossale, tesero a favorire il polo più radicale a scapito della fazione più potente. Non per nulla il governo israeliano fece liberare in due occasioni il fondatore e leader di Hamas Sheikh Ahmed Yassin, una volta direttamente dalle carceri israeliane e una seconda con una mediazione che lo estrasse da quelle giordane. Vero è che nella seconda intifada e dopo che Hamas si era ulteriormente radicalizzato, il governo israeliano procedette alla liquidazione di Yassin e del suo successore al-Rantissi con due “omicidi mirati”: ma la contrapposizione tra Hamas e OLP era divenuta una dato permanente della situazione palestinese, definitivamente sancita dalla vittoria del primo nelle elezioni del 2006.

La frattura tra i palestinesi è stata l’elemento decisivo che ha bloccato per lunghi anni il processo di pace, fornendo agli israeliani una valida motivazione per mantenere lo status quo, in assenza di interlocutori affidabili. I recenti e perduranti fermenti antiautoritari nei paesi arabi hanno però innescato in Palestina una pressione popolare sui gruppi dirigenti delle due fazioni per il superamento della divisione. Del resto era abbastanza scontato che quei fermenti diffusi in tutto il Medio Oriente s’indirizzassero in Palestina contro l’occupazione israeliana, e come tali sembra siano stati recepiti dai dirigenti, sia pur con un certo ritardo. Questi prevedibili sviluppi spiegano anche come tutte le forze contrarie a questo obiettivo e, prime di tutte, le fazioni estremiste palestinesi animate da motivazioni nazionalistiche o religiose abbiano preso ad agitarsi. Si spiega così la ripresa delle tensioni in Palestina che si sono venute manifestando in queste settimane, con episodi cruenti ed efferati, tra i quali rientra a pieno titolo anche il macabro assassinio di Arrigoni ad opera di un non bene identificato gruppuscolo salafita. Nonostante che il governo di Hamas si sia adoprato con prontezza per individuare e catturare gli autori l’episodio si viene a confermare la tendenza dei governi israeliani – e specialmente di quello attuale – ad attribuire alle autorità palestinesi una sorta di complicità oggettiva con tutti gli estremismi o, almeno, della loro incapacità a garantire l’ordine pubblico. Già ai tempi di Arafat questa logica aveva contribuito alla distruzione del processo di pace e ora può servire ad ostacolarne la ripresa. In queste condizioni sarà decisiva la reazione del governo e dell’opinione israeliani: se Nethanyau manterrà fede alle sue dichiarazioni di ieri – secondo le quali l’Autorità palestinese deve scegliere tra fare la pace con Israele o farla con Hamas – le prospettive per Gaza, per la Palestina e per l’intero scacchiere mediorientale si fanno molto preoccupanti.

L’aforisma in base al quale in Medio Oriente nulla è come sembra può ben essere soltanto un superficiale stereotipo: ma, in ogni caso, nella striscia di Gaza è peggio.

 

 


Foto di J. McDowell

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