Afghanistan: un organismo malato?

Di Ettore Sequi Martedì 07 Dicembre 2010 13:36 Stampa
Afghanistan: un organismo malato? Foto: U. S. Army

Il recente vertice di Lisbona ha confermato l’impegno della NATO verso l’Afghanistan. Sono molti però i problemi che si profilano all’orizzonte e ai quali i paesi europei impegnati sul fronte asiatico devono cercare di porre rimedio. Ne parla l’ambasciatore Ettore Sequi, già rappresentante speciale dell’Unione europea in Afghanistan.

 

L’Afghanistan di oggi è un organismo affetto da due virus. Il primo è costituito dalla frustrazione di molti afghani che, a nove anni dalla caduta del regime talebano e dopo aver nutrito grandi – e forse irrealistiche – speranze di un rapido futuro di prosperità e pace, stentano ancora a percepire miglioramenti concreti (che pure vi sono) della loro vita quotidiana. Il secondo è dovuto invece alla fatica, o alla stanchezza, della comunità internazionale a causa della lentezza della ricostruzione, sia economica che istituzionale, e dei gravi problemi ancora irrisolti: dalla droga alla criminalità, dalle azioni offensive dei talebani alla corruzione e all’insicurezza.

Il recente vertice NATO di Lisbona ha tentato di inoculare un vaccino contro questi due virus e, al fine di prevenirne la diffusione, ha affrontato alcuni "paradossi" che potrebbero profilarsi all’orizzonte.

Il paradosso dell’orologio

A Lisbona sono emersi un messaggio di compattezza e la volontà di proseguire in una visione condivisa del processo di transizione, pur di fronte alla rivendicazione di crescente autonomia da parte del presidente Karzai.

Il vertice ha sancito innanzitutto l'inizio di una transizione graduale della responsabilità della sicurezza al governo afghano e ha messo l’enfasi sulla data del 2014 (per il suo completamento) piuttosto che sul 2011 (quando dovrebbe invece avere inizio il ridimensionamento del contingente ISAF). Il trasferimento di responsabilità alle autorità afgane avrà luogo in base alle condizioni sul terreno e alla preparazione delle forze di sicurezza locali. L'addestramento è, dunque, un elemento cruciale del successo di questa strategia.

L’insistenza sulla scadenza del 2014 costituisce un messaggio preciso. Essa è una risposta al mantra dell'insorgenza («voi stranieri avete l’orologio. Noi talebani abbiamo il tempo») per sottolineare che la NATO intende completare la propria missione di stabilizzazione prima del phasing out. Il riferimento al 2014 intende inoltre rassicurare il governo e l’opinione pubblica afghana: moltissimi afghani, infatti, vivono ancora una sorta di “sindrome dell’abbandono”, memori dell’improvvisa cessazione del sostegno internazionale dopo il ritiro dei sovietici dal paese. In tal senso la Partnership fra NATO e Afghanistan, sancita a Lisbona, costituisce la conferma dell'impegno della NATO nel lungo periodo.

Il vertice ha, dunque, tentato di affrontare il cosiddetto “paradosso dell’orologio”. Le agende afghana e internazionale sembrano essere calibrate secondo orologi che scandiscono il tempo in maniera diversa: le opinioni pubbliche occidentali secondo i tempi di un successo – auspicabilmente – non remoto; il governo Karzai secondo tempi più afghani, meno incalzanti, culturalmente diversi dai nostri. Come culturalmente diversi sono concetti quali democrazia parlamentare, lotta alla corruzione, buon governo, trasparenza e accountability dell’Amministrazione, non sempre percepiti allo stesso modo in Occidente o in Afghanistan.

Il paradosso militare

La presenza attiva a Lisbona del segretario generale dell'ONU Ban ki-Moon è servita a ribadire il messaggio che l'operazione NATO ha una dimensione non solo militare, ma anche – e soprattutto – civile e politica. Tale riaffermazione è necessaria a fugare il “paradosso militare”: mentre si ripete che non vi è soluzione militare alla crisi afghana, molti temono che l’impegno bellico stia progressivamente crescendo (o che addirittura sia già cresciuto), non solo in termini di risorse o di dimensione dello sforzo, ma anche di preponderanza sul terreno. Il generale Petraeus è oramai l’indiscusso protagonista a Kabul e ha finito per oscurare lo stesso ambasciatore statunitense Karl W. Eikenberry e il rappresentante civile della NATO Mark Sedwill.

L’Europa può giocare un ruolo molto importante in questo senso. Noi europei abbiamo sempre sostenuto con forza che la sicurezza ha vari aspetti: innanzitutto quello militare – cui gli italiani contribuiscono con impegno e coraggio. Ma la sicurezza è anche economica. Occorre, infatti, non solo “conquistare i cuori e le menti”, ma anche lo “stomaco” della popolazione. Oggi molti giovani afghani – la cosiddetta manodopera talebana – in assenza di alternative economiche si uniscono all’insorgenza. Vi è poi – ed è a mio avviso decisiva – la dimensione istituzionale della sicurezza, rappresentata dalla capacità o meno dello Stato di essere presente a livello locale come erogatore di servizi essenziali che vanno dalla giustizia alla polizia, dalla pubblica amministrazione al buon governo. Questa è la sfida che attende quanti sono impegnati in Afghanistan. Uno dei limiti più seri allo sviluppo delle istituzioni afghane è infatti la gracilità dello Stato di diritto. L’appoggio di cui l’insorgenza può godere in numerose aree del paese è dovuto non al fatto che i talebani siano popolari, ma piuttosto all’esasperazione della popolazione per l’assenza di giustizia e buon governo e per la presenza di amministratori pubblici corrotti.

Il paradosso multilaterale

Il messaggio di compattezza scaturito da Lisbona ha consentito anche di affrontare quello che alcuni osservatori definiscono il potenziale “paradosso multilaterale”, secondo il quale l’Afghanistan è divenuto talmente importante per Washington – e infatti il presidente Obama ne ha fatto una priorità – che gli USA saranno tentati di assumere autonomamente le principali decisioni, anche contraddicendo lo spirito multilaterale dell’Amministrazione democratica. È chiaro che evitare che ciò avvenga dipende anche dai partner ISAF o UE, ed è perciò cruciale per l’Europa dimostrare capacità progettuale e volontà di impegno.

Un nuovo virus? Epidemia o male di stagione?

Il vertice di Lisbona, dunque, è stato un momento importante per contrastare i due virus. Esso è stato anche “un’iniezione di vitamine” che potrebbe contribuire a prevenire la diffusione di un altro virus, tenuto finora allo stato latente, la cui epidemia potrebbe però scatenarsi in seguito alla pubblicazione su Wikileaks di alcune comunicazioni confidenziali dell’ambasciata americana a Kabul, ricche di giudizi non commendevoli sul presidente Karzai: il virus della sfiducia. Agli addetti ai lavori e alla stampa non erano ignote le severe valutazioni dell’ambasciatore Eikenberry sul Presidente Karzai, peraltro già pubblicate con grande risalto dal New York Times alla vigilia della conferenza di Londra del 2010.

Ciò cui si assiste oggi in Afghanistan è una situazione di sfiducia, una spiacevole atmosfera di sospetto tra governo afghano e non pochi rappresentanti della comunità internazionale (e talvolta perfino tra i principali esponenti della comunità internazionale: la rivalità tra Eikenberry e l’ex comandante ISAF Stanley McChrystal ne è uno degli esempi più eclatanti), ulteriormente alimentata da critiche reciproche. Nella mia precedente funzione di rappresentante speciale dell’Unione europea avevo tentato, in diverse occasioni, di rassicurare i diversi attori in campo circa la sostanziale convergenza dei nostri rispettivi interessi (la stabilizzazione, anche istituzionale, del paese e il miglioramento della vita della sua popolazione) per spezzare il “circolo vizioso della sfiducia”. Sono convinto che l’Europa, grazie alla credibilità che si è saputa conquistare sul campo e il soft power di cui ha saputo dare prova anche in Afghanistan potrà contribuire a evitare la diffusione di questo nuovo e potenzialmente pericoloso virus. Se non lo facesse potrebbe soffrirne lo stesso processo di transizione.

Ciò è tanto più necessario, in presenza di un ulteriore paradosso: il “paradosso dell’afghanizzazione”. A partire dalla conferenza di Londra del 2006, allorché venne lanciato il concetto di “Afghan ownership”, la comunità internazionale ha progressivamente favorito l’assunzione di responsabilità da parte delle istituzioni afghane. L’adozione del più solido principio della “afghanizzazione” ha rappresentato un ulteriore stimolo in quella direzione. Questo ha però reso il governo afghano sempre più attento alle proprie prerogative in termini di sovranità nazionale, talvolta riottoso nei confronti della comunità internazionale o particolarmente critico verso di essa, come vari episodi, anche recenti, hanno dimostrato.

Il ciclo delle conferenze

Il vertice di Lisbona ha rappresentato una scansione importante nel ciclo di conferenze sull’Afghanistan che da qualche anno si tengono sempre più frequentemente ed è significativo che quasi tutte quelle più importanti si siano svolte in Europa (Bonn, 2001; Londra, 2006; Roma, sulla giustizia, 2007; Parigi, 2008; L’Aja, 2009; Londra, 2010). Il sociologo francese Émile Durkheim sosteneva che, nei momenti di crisi, la comunità tende a riunirsi intorno al totem per riaffermare la propria compattezza. In un certo senso, le conferenze internazionali sull’Afghanistan sembrano quasi la trasposizione politico-diplomatica di questo meccanismo: di fronte ai costi umani e materiali della missione e allo sfilacciamento del sostegno popolare, si sente il bisogno di riunirsi intorno a un tavolo per riaffermare la propria compattezza nel proseguire ciò che si è iniziato grazie a una visione condivisa. La missione ISAF comprende quarantadue paesi, a cui corrispondono altrettante opinioni pubbliche, le cui soglie di tolleranza verso il numero delle vittime, militari e civili, differiscono sensibilmente. Vi sarà sempre fra questi un paese prossimo alle elezioni o nel quale il consenso popolare alla missione subisce una flessione. Oltre a conquistare i cuori e le menti degli afghani, i governi occidentali devono, periodicamente, conquistare i cuori e le menti delle rispettive opinioni pubbliche, fornendo ragioni chiare e tempi prevedibili per la missione.

Non a caso a Lisbona si è discusso della possibilità di tenere una nuova conferenza il prossimo anno a Bonn. Sarebbero dieci anni esatti dalla prima conferenza di Bonn che, secondo l'allora rappresentante delle Nazioni Unite Lakhdar Brahimi, ebbe il limite di escludere la presenza dei talebani (e dunque degli esponenti di una parte della società afghana) dal nuovo sistema politico che si tentava di costruire. Sarà necessario, di qui alla prossima conferenza, avanzare sulla via della riconciliazione con l’insorgenza o almeno con gli insorgenti disponibili a rinunciare ai rapporti con il terrorismo, a deporre le armi e a riconoscere i principi di base della Costituzione afghana. Si tratterà, in altre parole, di capire come in maniera più concreta e a quali condizioni si possa favorire un processo politico (la riconciliazione) che accompagni e sostenga il processo di transizione, nella consapevolezza che non esistono soluzioni puramente militari al conflitto. In questa prospettiva sono convinto che il successo e la stabilità di lungo periodo dell’Afghanistan passino attraverso la collaborazione degli Stati vicini, come è emerso anche a Lisbona e nelle ultime conferenze dedicate a questo paese.

La crisi afghana è un tassello del più generale mosaico asiatico e non riguarda solamente i rapporti Afghanistan-Pakistan-India. L’Afghanistan è circondato da Stati che, in misura diversa, sono in grado di influenzarne le dinamiche politiche, sociali, economiche e militari e che a loro volta sono influenzati dalla situazione in Afghanistan. Per questi motivi, finora, ogni attore regionale ha tentato di assicurarsi una forma di controllo sul vicino, cercando di evitare che il controllo fosse acquisito da altri. Occorrerà tempo per scardinare questa prospettiva, ed è cruciale che prevalga la consapevolezza che un Afghanistan stabile è garanzia di stabilità anche per gli attori regionali.

Tre ingredienti

In generale, e non solo in Afghanistan, per raggiungere risultati positivi occorrono alcuni ingredienti: una strategia chiara e capacità progettuale, risorse adeguate, volontà politica.

La vision è ben delineata, è stata rafforzata dopo le conferenze di Londra e di Kabul e il vertice di Lisbona, ed è condivisa anche dal governo Karzai. Le risorse (cioè gli addestratori per la transizione), sebbene al minimo, non sono insufficienti. L'elemento cruciale è la volontà politica, la solidità dei nostri intenti o, piuttosto, la sua sostenibilità. L’Europa, grazie al suo soft power, è in grado di fornire un solido contributo su questa via. Il suo sistema comune di valori condivisi – democrazia, libertà, giustizia sociale, rispetto dei diritti umani, promozione delle fasce della popolazione più svantaggiate, e in primo luogo delle donne, trasparenza nell’amministrazione e nella gestione della cosa pubblica, certezza del diritti – può essere messo a disposizione della stabilizzazione dell’Afghanistan per favorire il suo consolidamento democratico.

Una volta, nel chiedermi consiglio su una questione politica piuttosto controversa, il presidente Karzai mi disse: «Mi fido dell’Europa perché voi europei non avete un’agenda nascosta, se non quella della stabilità del mio paese». È però indispensabile che d’ora in poi il governo afghano non lesini il proprio impegno. Se così non fosse, infatti, diventerebbe sempre più difficile giustificare di fronte alle nostre opinioni pubbliche il continuato impegno in Afghanistan.

 

Per approfondire:

 

 

--
Foto: U. S. Army

le Pubblicazioni


copertina_1_2024_smallPuoi acquistare il numero 1/2024
Dove va l'Europa? | L'approssimarsi del voto per il rinnovo del Parlamento europeo impone una riflessione sulle proposte su cui i partiti e le famiglie politiche europee si confronteranno | Leggi tutto