Piccole imprese, ricerca e innovazione

Di Philip Moschetti e Saveria Sechi Giovedì 01 Gennaio 2004 02:00 Stampa

Il tema della competitività è il tema centrale del dibattito di politica industriale in Italia. Per anni la competitività italiana ha avuto nel prezzo il proprio asse portante, supportata da una politica fiscale e monetaria accomodanti. L’euro e le costrizioni della finanza pubblica, che hanno progressivamente incrementato il carico fiscale effettivo, hanno quindi colpito un modello strategico durato più di quarant’anni.

Il tema della competitività è il tema centrale del dibattito di politica industriale in Italia. Per anni la competitività italiana ha avuto nel prezzo il proprio asse portante, supportata da una politica fiscale e monetaria accomodanti.

L’euro e le costrizioni della finanza pubblica, che hanno progressivamente incrementato il carico fiscale effettivo, hanno quindi colpito un modello strategico durato più di quarant’anni. Tentativi di retroguardia, basati fondamentalmente sulla leva salariale, di riportare il prezzo a essere lo strumento della competitività, si sono scontrati con due ordini di difficoltà: la prima, socio-politica, consistente nell’impossibilità di proporre al paese uno scenario «inglese», e la seconda, economica, connessa alla carenza di manodopera in molte zone dell’Italia, con conseguente spinta salariale.

Il dibattito più avanzato si è incentrato sul tema dell’innovazione, individuando nel basso contenuto innovativo delle produzioni nazionali una delle cause del deficit competitivo che frena l’economia italiana. In varie gradazioni e con varie argomentazioni, il ritardo è stato principalmente ascritto a due fattori: la scarsezza dei fondi e la struttura del sistema industriale. Partendo da questo sfondo si vuole tentare di riflettere su alcune linee d’azione possibili per una politica nella competitività basata sull’innovazione.

Oggi l’Italia destina circa l’l% del PIL alla spesa in ricerca e sviluppo, mentre la media europea si attesta intorno al 2%. A fronte di questo, l’obiettivo, fissato per l’Unione europea a Lisbona prevede che entro il 2010 i paesi membri aumentino la loro quota di spesa in R&S fino a raggiungere il 3% del PIL. Mentre gli altri paesi hanno incrementato la spesa in R&S, oggi l’Italia spende addirittura meno che negli anni Novanta. La spesa in R&S nel nostro paese è diminuita in particolar modo nei settori ad alta tecnologia, quali, ad esempio, quello farmaceutico e delle biotecnologie, quello dei macchinari per ufficio e dei computer, quello aerospaziale.

È opinione diffusa che la carenza innovativa sia dovuta alla scarsezza dei fondi pubblici destinati alla ricerca. Una breve analisi ed elaborazione dei dati raccolti dall’OCSE, tuttavia, mostra come il deficit di spesa in R&S rispetto ai principali paesi concorrenti sia comune al settore pubblico e a quello privato, mentre un’ulteriore analisi dimostra come gran parte della differenza negativa fra la spesa in R&S dell’Italia e quella del resto dei paesi OCSE sia da attribuire alla bassa R&S realizzata e finanziata dalle imprese manifatturiere.

Tabella 1

Un semplice esame di alcuni dati statistici ci pone quindi nelle condizioni di scartare la semplice soluzione che l’aumento dei fondi pubblici sia la soluzione del problema. L’analisi per la ricerca di un’adeguata politica industriale deve quindi tenere conto che il problema è la bassa spesa delle imprese manifatturiere. Rimane da stabilire se questa differenza sia dovuta alla struttura dimensionale o alla struttura di prodotto.

La bassa quota del valore aggiunto investita in ricerca dalle imprese manifatturiere italiane può, infatti, essere dovuta alla particolare specializzazione produttiva dell’Italia. La struttura industriale italiana registra un forte peso dei settori tradizionali e un peso della piccola e media industria maggiore di quanto registrato altrove in Europa. Il nesso causale fra le due caratteristiche è stato a lungo investigato, e non si vuole ritornare qui sul problema. È chiaro, tuttavia, che le due caratteristiche originano due diverse opzioni di politica economica: quella dello spostamento forzoso della struttura produttiva verso settori a più alto contenuto tecnologico e quella della spinta verso l’aggregazione delle PMI.

Per ricercare nuove idee per la politica industriale dell’innovazione si devono quindi approfondire queste due tematiche. I settori tradizionali, infatti, registrano solitamente scarsa innovazione di prodotto e maggiore innovazione di processo, traducibile in sostanza nell’adozione di nuovi macchinari. La seconda spiegazione «tradizionale», che collega il deficit alla struttura dimensionale d’impresa, può esser ricercata nel maggior peso della piccola impresa. È opinione corrente, infatti, che la componente di costo fisso di molti progetti di ricerca implica che essi diventino profittevoli solo se i loro risultati possono essere sfruttati su scale produttive più ampie.

La ricerca dimostra che le imprese italiane medio-grandi presentano un’intensità di ricerca e sviluppo inferiore a quella delle imprese di pari dimensioni dei principali paesi avanzati. Un recente quaderno del Centro Studi Confindustria, ad esempio,1 mostra che l’intensità di ricerca delle varie classi dimensionali dei settori manifatturieri italiani è, anche a parità di struttura produttiva e dimensionale, inferiore a quella registrata negli altri paesi considerati. I risultati evidenziano quindi che, mediamente, la più bassa ricerca e sviluppo presente nei settori economici dell’industria manifatturiera italiana è attribuibile: alla particolare specializzazione produttiva e dimensionale italiana, per una quota che oscilla fra il 35% e il 43%, e alla più bassa intensità di ricerca presente nelle varie classi dimensionali dei settori manifatturieri italiani, per una percentuale fra il 37 e il 54%.

L’intuizione di Foresti sulla importanza relativa della dimensione come fattore esplicativo si sovrappone ai dati dell’ultima versione del tradizionale studio sui 274 maggiori gruppi industriali europei, americani e giapponesi curato da Mediobanca Ricerche e Studi.2

Tabella 2

La tabella presentata, infatti, mostra come, secondo gli ultimi dati disponibili, il rapporto spese in R&S/vendite nette operato dai gruppi italiani partecipanti al campione sia all’ultimo posto con un valore inferiore di circa il 40% rispetto a Francia e Germania.

L’argomento dimensionale viene indebolito dal fatto che in Italia vi è sicuramente una sottostima della ricerca delle piccole imprese. In esse, infatti, la ricerca viene generalmente contabilizzata come spesa per il personale dell’ufficio tecnico. Le PMI infatti, al contrario delle grandi, non dispongono di laboratori separati dalle attività produttive e, quindi, contabilizzano le attività di ricerca in base al costo del personale che vi si dedica, come spesa corrente. Qualsiasi politica dell’innovazione che abbia come strumento l’aggregazione delle PMI, addebitando alla dimensione media d’impresa il deficit di innovazione, poggia quindi su basi estremamente incerte.

Una politica industriale per l’innovazione dovrebbe considerare seriamente che l’anello debole della catena non sono solo le piccole e medie, ma anche le grandi imprese. È quindi necessario pensare a una politica che, avendo due obiettivi, grandi imprese e PMI, possa svilupparsi con due filosofie e due tipologie di strumenti.

Un’obiezione generale è che le politiche di intervento governativo risultano in genere inutili, in quanto sostituiscono la spesa finanziata dall’impresa con fondi propri con spesa finanziata con fondi pubblici, con un risultato netto prossimo allo zero.

I risultati di recenti ricerche3 dimostrano che, sebbene alcune singole imprese possano trovare attraente sostituire il sussidio governativo per la propria spesa in ricerca, le grandi imprese sono più capaci di ottenere vantaggi dalle complementarietà, a causa del travaso delle conoscenze. È, quindi, ipotizzabile che un intervento di politica industriale con la presenza di fondi pubblici destinati alle grandi imprese possa essere supportato da un meccanismo di moltiplicazione capace di amplificare gli effetti della spesa governativa, conseguenza particolarmente importante in caso di ristrettezze dei fondi.

Uno spunto interessante nasce dalla considerazione svolta da Luciano Gallino nel suo ultimo libro,4 laddove con ripetuta evidenza aneddotica dimostra che la grande industria italiana non sembra essere stata capace di sfruttare quei filoni di successo creatisi a volte anche occasionalmente. Sarebbe quindi opportuno prevedere un meccanismo premiante per quegli interventi di ricerca che assicurassero una continuità al programma. A questo proposito, la scelta di finanziare la ricerca all’interno di un grande progetto, come nell’esperienza americana, sembra essere la più adatta, e per vari motivi. In primo luogo, permetterebbe al policy maker di orientare la ricerca, e quindi l’innovazione, verso i settori più promettenti, e inoltre di dare un orizzonte di ricerca sufficientemente ampio ai partecipanti.

Teniamo a mente che le politiche si basano in genere sull’utilizzo di due strumenti: gli incentivi fiscali, che riducono i costi di R&S, e i sussidi diretti, che ne alzano il rendimento. Sebbene non sia necessariamente vero, la differenza primaria tra questi due strumenti è che il primo permette in genere alle imprese di scegliere i progetti su cui focalizzarsi, il secondo comporta necessariamente un certo grado di intervento governativo, sia nel caso in cui i fondi siano erogati direttamente alle imprese, sia nel caso cui i fondi siano allocati sotto forma di supporto a imprese che partecipano a specifici progetti.

Negli interventi di politica industriale è necessario tener conto che la scarsa provvisione da parte delle grandi imprese potrebbe essere dovuta alla incompleta appropriabilità dei risultati dell’attività di R&S da parte dei privati, ragione già identificata da Arrow e Nelson sul finire degli anni Cinquanta come un classico esempio di fallimento del mercato. Un particolare non secondario per il successo di questo tipo di iniziativa dovrebbe quindi  essere la legislazione sulla proprietà dei brevetti risultanti dalla partecipazione al programma di ricerca, che dovrebbe essere improntata alla loro massima distribuzione.5

Una politica per le PMI dovrebbero partire dalla semplice considerazione che la spesa in R&S è, appunto, composta da due parti: la ricerca e lo sviluppo. Non necessariamente entrambe debbono essere svolte a tutti i livelli dimensionali. Il sistema delle PMI non ha sinora avuto facile accesso all’innovazione tecnologica per vincoli economici, ma anche per ragioni culturali e per il modello stesso di business che vede nell’aspetto commerciale la funzione predominante.

La ricerca è una fase costosa e a rendimento differito, che potrebbe produrre risultati non immediatamente utilizzabili in un’impresa con un catalogo di prodotti necessariamente limitato: è quindi difficile pensare che questa fase sia adatta alle PMI. Molto più vicina «culturalmente» risulta invece la fase dello sviluppo, in quanto più collegata all’idea di prodotto. Si pongono tuttavia due difficoltà. In primis bisogna considerare che se un’impresa non fa ricerca difficilmente potrà avere idee innovative da sviluppare. La seconda è che la fase dello sviluppo di un’idea innovativa è fase comunque complessa e costosa, e pertanto sono necessari adeguati incentivi finanziari, sia per individuare le applicazioni – e il mercato – potenziali, sia per elaborare il prototipo del prodotto finale.

L’intervento di politica industriale deve quindi risolvere questi due problemi. Una soluzione potrebbe essere quella di procurare un trasferimento di conoscenze dai luoghi ove vi sono le idee alle PMI. L’intervento deve quindi avere un’impostazione diversa da quella sin qui seguita, spostando l’iniziativa dell’innovazione dalla PMI ai soggetti che operano nella ricerca: università, laboratori pubblici e privati, centri di ricerca, ricercatori singoli o associati.

Il meccanismo dovrebbe prevedere un’incentivazione ai ricercatori a costituirsi come un trait d’union tra la struttura produttiva e il sistema della ricerca. L’assunto fondamentale – e l’ impostazione innovativa del provvedimento – è che l’iniziativa nasca dal settore della ricerca e da questa si trasferisca verso le PMI. A seguito di quest’incontro, l’intervento pubblico dovrebbe favorire lo sviluppo dell’idea con adeguati interventi. L’impostazione adottata dovrebbe essere simile a quella dello SBIR (Small Business Innovation Research) americano, adattata in relazione agli ultimi suggerimenti della ricerca economica e alle necessità e alle problematiche tipiche del sistema italiano.

Lo SBIR, introdotto nel 1982 nell’ambito del sistema federale statunitense di sostegno all’innovazione e allo sviluppo delle piccole e medie imprese, ha finanziato migliaia di PMI, con significativi risultati in termini di crescita basata sullo sviluppo di nuove tecnologie. Gli americani lo hanno definito «un ponte» tra la ricerca di base, da cui nascono nuove idee, e la ricerca applicata, che determina l’innovazione (solo se le idee concepite nell’ambito della ricerca di base sono effettivamente «trasferite » al settore privato, possono diventare innovazione). Con un adeguato sostegno pubblico, quale quello configurato dallo SBIR americano, l’innovazione può essere incorporata da prodotti e servizi «di mercato» in grado di guidare un equilibrato processo di crescita delle PMI e dell’intero sistema economico.

Naturalmente, dire che l’intervento verso le PMI debba favorire la fase di sviluppo dell’idea non significa che non si dovrebbe favorire anche la fase della ricerca. A questo proposito, un’esperienza spontanea da favorire sembra essere quella dei consorzi di ricerca fra imprese. Questi consorzi si sono creati in alcune aree del nord, fungendo da interlocutorecommittente per programmi di ricerca da svilupparsi poi presso altre strutture, anche pubbliche. L’esperienza aneddotica dimostra l’efficacia di questi consorzi sia nel promuovere la ricerca che nell’ottenere risultati trasferibili alle imprese. A questo proposito, quindi, sarebbe necessario trovare forme di incentivi per la promozione di questi consorzi.

Possiamo concludere questa riflessione dicendo che le recenti esperienze e ricerche dimostrano che qualsiasi politica per l’innovazione deve procedere avendo a mente che il sistema industriale è composto da due parti, PMI e grandi imprese, e che una politica che voglia favorirne lo sviluppo deve, necessariamente, tenere conto delle rispettive peculiarità.

 

 

Bibliografia

1 G. Foresti, Specializzazione produttiva e struttura dimensionale delle imprese: come spiegare la limitata attività di ricerca dell’industria italiana, Centro Studi Confindustria Working Paper 32, 2002.

2 R&S, Multinationals: financial aggregates (274 companies). 2002 edition, Milano 2003.

3 P. A. David e altri, Is public R&D a complement or a substitute for private R&S?, NBER WP 73737, 1999.

4 L. Gallino, La scomparsa dell’Italia industriale, Einaudi, Torino 2003.

5 Una delle determinanti fondamentali del successo dei grandi progetti americani è il Bayh-Dole Act, che permette ai partecipanti alla ricerca di sfruttare in proprio i brevetti ottenuti, facilitando così il trasferimento dei risultati.

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