La liberazione di Gilad Shalit: questione umanitaria o politica?

Di Carlo Pinzani Mercoledì 26 Ottobre 2011 16:06 Stampa
La liberazione di Gilad Shalit: questione umanitaria o politica? Foto: Israel Defense Forces

Qual è il significato della liberazione di Gilad Shalit? Il suo rilascio, dopo 5 anni di detenzione e in cambio della liberazione di 1027 detenuti palestinesi, può essere interpretato come un segnale di ripresa del processo di pace?


Dopo oltre cinque anni di detenzione segreta nella striscia di Gaza il sottufficiale franco-israeliano è stato liberato dai suoi rapitori di Hamas, sollevando un clamore mediatico globale d’intensità e dimensioni inversamente proporzionali a quelle dei tentativi di analisi della vicenda. Ma, tant’è. Ormai l’informazione procede per campagne, proprio come la pubblicità, e dopo brevi fiammate di attenzione le questioni tornano nell’ambito ristretto degli specialisti. Questo è particolarmente evidente nel caso di specie: il conflitto israelo-palestinese va avanti da troppo tempo e non può mantenere a lungo il proscenio mediatico. Inoltre, dopo il fallimento dei tentativi dell’Amministrazione Obama di rivitalizzare il processo di pace, il governo israeliano è pienamente soddisfatto dello status quo, ricevendo su questa linea anche il sostanziale consenso del principale partito di opposizione e di buona parte dell’opinione. Questa posizione si è ulteriormente rafforzata dopo che, superate le obiezioni poste dagli Stati Uniti e dall’opinione internazionale, è ripresa la costruzione di insediamenti israeliani nei territori occupati. Anche il tentativo dell’Autorità palestinese di ottenere il pieno riconoscimento internazionale e la conseguente ammissione alle Nazioni Unite sembra per il momento aver perso slancio, anche se la mossa ha mostrato l’isolamento d’Israele e dei paesi che lo sostengono nella comunità internazionale.

In questo contesto sembra veramente difficile che l’accordo che ha riportato a casa il sottufficiale franco-israeliano e in libertà 1027 detenuti palestinesi possa essere interpretato come un passo verso la ripresa dei negoziati di pace, anche se l’ipotesi non può essere esclusa in assoluto. Il primo dato su cui soffermarsi è la sproporzione nel numero degli ostaggi scambiati. Poiché non è pensabile, anche sulla base di numerosi precedenti, che essa dipenda da una diversa valutazione umana degli ostaggi sulla base dell’appartenenza etnica, si potrebbe pensare che l’operazione abbia un qualche contenuto umanitario. In questo senso va anche la prolungata pressione che la famiglia di Shalit ha esercitato sul premier israeliano, che per questo è stato criticato dalle frange più estreme della Destra israeliana. È anche vero che i governi israeliani hanno sempre perseguito la liberazione dei propri cittadini col massimo dell’impegno, e questa politica, ampiamente propagandata, è stata seguita anche nel caso di Shalit. Basti pensare che la sua liberazione figurava tra gli obiettivi di un’operazione militare delle dimensioni di quella denominata “Piombo fuso” del dicembre 2008- gennaio 2009, una vera e propria spedizione punitiva condotta dall’esercito israeliano nella Striscia di Gaza. L’enormità del  prezzo che i governi israeliani sono disposti a pagare per i loro cittadini (e anche in alcuni casi per le loro salme) è un’arma a doppio taglio: essa può bene rinsaldare la determinazione delle forze armate e dell’opinione israeliana nella difesa della patria minacciata, ma è di per sé un incoraggiamento alla presa di ostaggi da parte dei nemici.

E nel caso di Shalit il prezzo politico pagato dal governo Netanyahu è particolarmente salato e non certo per il numero e la statura politica dei palestinesi liberati. Le trattative segrete, si dice, si sono prolungate per oltre cinque anni: ma alla loro conclusione si è giunti soltanto quando Netanyahu, rilanciati i programmi di costruzione di nuovi insediamenti in Cisgiordania, si è sentito sufficientemente sicuro di poter annunciare di esser venuto meno al ferreo principio in base al quale con i terroristi non si tratta in nessuna circostanza. E Hamas è ancora considerato un’organizzazione terroristica da Israele, dagli Stati Uniti e anche da molti paesi membri della UE. Questo fatto, da solo, giustifica non solo l’esultanza dei palestinesi di Gaza (la grande maggioranza del primo gruppo di detenuti liberati proviene da quel territorio e appartiene ad Hamas). Il movimento islamico ha visto così aumentare la propria popolarità e il proprio peso nell’intricata vicenda mediorientale, compensando il successo ottenuto da Abu Mazen e dall’ANP con la loro richiesta di ammissione alle Nazioni Unite e divenendo un interlocutore essenziale negli sconvolgenti processi in atto nei paesi arabi.

Ma proprio la considerazione dei vantaggi conseguiti da Hamas fa emergere un elemento di continuità nell’apparente svolta della politica israeliana: la regola del “divide et impera”, che è sempre stata applicata dagli israeliani nei loro rapporti con le diverse fazioni palestinesi, è ancora quella che ha dettato il comportamento di Netanyahu e del governo israeliano. Avvertita la gravità delle condizioni d’isolamento verso le quali sta avviando Israele, i dirigenti di Tel Aviv sono corsi ai ripari per evitare che il rilancio dell’iniziativa politica da parte dell’ANP potesse ostacolare la ripresa della costruzione degli insediamenti in Cisgiordania che, molto più di quella del processo di pace, appare il vero obiettivo della politica israeliana. La riprova di questo assunto è data dal mancato inserimento tra i detenuti da liberare di un personaggio come Marwan Barghouti, favorevole al rilancio del processo di pace da parte palestinese e, al contempo, dotato di una popolarità che potrebbe favorire un processo di ravvicinamento tra Fatah e Hamas. Il fatto è tanto più notevole in quanto tra i prigionieri liberati figurano personaggi di rilievo politico o militare comparabile a quello di Barghouti.

Probabilmente, nel calcolo israeliano ha pesato un’altra considerazione assai più strategica di quella di rinfocolare nell’immediato i contrasti in campo palestinese. Hamas ha sempre sostenuto la propria disponibilità ad una tregua prolungata con gli israeliani, pur rifiutando il riconoscimento formale dell’“entità sionista” (vale a dire dello Stato ebraico) ineliminabile in qualsiasi accordo di pace e anche nel processo negoziale che vi conduce. Non è quindi azzardato affermare che il governo Netanyahu si stia orientando a rafforzare Hamas anche per poter affermare, di fronte alla comunità internazionale, che, fin quando in campo palestinese non vi sarà accordo, Israele non ha interlocutori soprattutto al fine di guadagnar tempo, sottrarsi alle pressioni internazionali per la ripresa delle trattative e, last but not least, proseguire nella costruzione d’insediamenti in Cisgiordania.

Ma anche in questo caso si tratta di un’arma a doppio taglio. Se Israele cessa di considerare Hamas un soggetto col quale non è possibile interloquire, la decisione potrebbe essere seguita da altri paesi e in particolare dagli Stati Uniti. Qui la strategia dell’Amministrazione Obama di derubricare la “guerra al terrorismo” ad azione di polizia internazionale continuata e decisa sta riscuotendo successi, dalla Libia, all’Iraq, all’Afghanistan, e favorisce al contempo i processi innovatori nel mondo arabo. Se a Washington e in altre capitali ci si orientasse in questo senso la liberazione di Shalit potrebbe anche contribuire in tempi medi ad una ripresa del processo di pace, dal momento che le pressioni internazionali potrebbero esercitarsi su Hamas – divenuto più responsabile e non più marchiato dell’etichetta del terrorismo – perché giunga ad un accordo con l’ANP, vera precondizione per una svolta nell’eterna questione palestinese. Ma, se così fosse, ciò avverrebbe contro le intenzioni del governo israeliano e della maggioranza che lo sostiene, anche se, certamente, non contro quelle dell’intero popolo israeliano.

 

 


Foto: Israel Defense Forces