La vicenda dei marò tra lentezza, passi falsi e ripensamenti

Di Ugo Papi Venerdì 14 Marzo 2014 12:21 Stampa
La vicenda dei marò tra lentezza, passi falsi e ripensamenti Foto: Brad.K

L’ingarbugliata vicenda dei marò non è destinata a trovare una soluzione in tempi brevi. Se da parte italiana molti sono stati gli errori e i segnali contraddittori, da parte indiana la lentezza del sistema giudiziario, un’opinione pubblica maldisposta, la contingenza politica e il “fattore Sonia Gandhi” hanno impedito il raggiungimento di un chiarimento a livello diplomatico.


Per vedere la soluzione della vicenda dei due marò italiani bisognerà armarsi di pazienza. Il susseguirsi di rinvii, anche solo per decidere i capi di imputazione, a più di due anni dall’uccisione dei due pescatori del Kerala, sono una responsabilità tutta indiana. Ma di errori e passi falsi è disseminata l’intera storia da parte di entrambi i paesi e a farne le spese rimangono i due fucilieri della Marina italiana.

Il 15 febbraio del 2012, Girone e Latorre erano due militari in servizio nell’ambito di una missione di contrasto alla pirateria nell’interesse italiano. In questo caso le regole di ingaggio sono chiare: invio di segnali e in assenza di una qualunque risposta, l’uso delle armi per dissuadere, non per uccidere. Se i due pescatori sono morti è evidente che qualcosa non ha funzionato e i due fucilieri avrebbero dovuto risponderne alla magistratura del loro paese, visto che si trovavano in acque internazionali. Ma così non è andata, come sappiamo.

Infatti il primo problema è la legge La Russa, che prevede la presenza dei militari italiani a bordo di mercantili privati e senza una chiara linea di comando. I due soldati e l’intero equipaggio si sono comportati come dei contractor privati e la decisione di entrare nel porto indiano e di consegnarsi è stata dettata dall’armatore e non da un loro ufficiale. Il ministero della Difesa è stato solo informato della decisione. A oggi nessun governo ha provveduto a modificare questo aspetto di una sciagurata legge.

Una volta partita la vicenda giudiziaria, l’Italia ha toccato con mano il nazionalismo montante di una nuova, giovane potenza emergente. Il suo passato di oppressione coloniale non ha fatto che acuire questo aspetto della questione. All’inizio della vicenda i toni imperativi delle dichiarazioni italiane, qualche volta anche di parte governativa, non hanno fatto altro che peggiorare la situazione, alimentando nell’opinione pubblica indiana un pregiudizio negativo nei confronti dei nostri militari. La farraginosità e la lentezza del sistema giudiziario indiano hanno fatto il resto.

Non bisogna poi dimenticare che l’Italia, pur essendo un buon partner commerciale della nuova potenza asiatica, ha ancora un interscambio modesto con l’India. Sul piano politico poi l’Italia si è spesso schierata a favore del nemico Pakistan (vedi la campagna comune di riforma del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che ha frustrato le aspirazioni indiane di avere un suo seggio).

A complicare la questione c’è poi il fattore Sonia Gandhi. La leader indiana domina la politica del subcontinente da più di dieci anni. Dopo la morte del marito Rajiv, è stata lei a prendere in mano, inaspettatamente ma saldamente, le redini del Partito del Congresso, riportandolo al potere dopo anni di declino. Il suo solo punto di debolezza è proprio la sua origine italiana, che ha alimentato le critiche delle opposizioni e la fantasia dei media che hanno spesso parlato di una Italian connection che coinvolgerebbe la famiglia Gandhi in affari poco trasparenti. Per questo motivo, fino ad oggi, l’intervento del governo indiano è stato spesso imbarazzato, prudente e incerto. E le imminenti elezioni indiane non condurranno certo verso un chiarimento sul piano politico diplomatico, almeno fino all’estate prossima.

L’Italia ha continuato a inviare segnali molto contraddittori fin dall’inizio. Il ministro Terzi, per ragioni probabilmente legate alla pressione della nostra opinione pubblica, si è recato precipitosamente in India senza ottenere nulla, non avendo avuto il tempo di studiare una strategia precisa prima del viaggio. Poi c’è stata la vicenda del rimborso alle famiglie dei due pescatori. Anche in questo caso, il gesto pensato come umanitario, è stato letto in India come un’ammissione di colpevolezza o un tentativo velato di corrompere o quantomeno addolcire le ire dell’opinione pubblica.

Infine è arrivata la catastrofe delle licenze. La buona impressione fatta dal nostro paese, che ha rispedito i due militari in India dopo il Natale del 2012 come promesso, è stata compromessa dalla mossa del governo Monti di non rimandare indietro i marò dopo la seconda lunga licenza elettorale del marzo 2013, adducendo a motivo il rischio di una pena capitale mai sul tavolo fino ad allora e esclusa definitivamente pochi giorni fa dall’Alta corte indiana. L’Italia è poi ritornata sulla decisione per paura delle conseguenze diplomatiche e a causa dell’isolamento anche in ambito europeo. In questo modo è aumentata la sfiducia degli indiani, pregiudicando ogni nostra richiesta futura di riportare in Italia i due soldati in attesa di una sentenza.

Ora, come avremmo forse dovuto fare fin dall’inizio della vicenda, si tratta di internazionalizzare la crisi intraprendendo seriamente un percorso che ci porti alle Nazioni Unite, alla Corte internazionale dell’Aja o al Tribunale di Amburgo per il Diritto del mare. Ma il tempo perduto è molto, e la fiducia tra i due paesi è sotto il livello di guardia. Una soluzione soddisfacente non è ancora dietro l’angolo. Si tratta di agire senza dire, come nella migliore tradizione diplomatica, cosa che la politica nostrana stenta a comprendere, inseguendo invece gli umori dei media e dell’opinione pubblica.

 

 


Foto: Brad.K

 

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