L’Occidente e le rivoluzioni incompiute

Di Carlo Pinzani Venerdì 20 Gennaio 2012 10:48 Stampa
L’Occidente e le rivoluzioni incompiute Foto: Robert F. Stokes

L’eccesso di entusiasmo con cui l’Occidente ha accolto la primavera araba stride con la scarsa attenzione dedicata successivamente ai suoi, spesso incerti, esiti. Occorre invece continuare, come Obama ha dimostrato di voler fare, anche se a piccoli passi e nonostante le diverse priorità imposte dalla campagna elettorale, a perseguire la via della riconciliazione fra Islam e mondo occidentale.


Com’è consuetudine dopo la fine della guerra fredda, la lunga, complessa e combattuta campagna elettorale per le elezioni presidenziali americane di novembre è dominata dall’economia e, in subordine, dalle questioni etiche e di costume. Il fenomeno è ancor più evidente in questa occasione, dato il contesto di crisi economica generalizzata che continua ad assorbire l’attenzione e le energie dei governi e delle società occidentali, mentre la politica internazionale degli Stati Uniti vede come al solito ridursi il proprio spazio nel dibattito politico.

Per questo motivo sembra giusto mantenere viva l’attenzione sulle questioni internazionali e in particolare su quelle scottanti, come quella mediorientale, dal momento che proprio le crisi economiche tendono ad acuire i conflitti, rendendo più facile il loro scivolamento dal piano politico a quello militare. In quest’ottica preoccupa l’affievolimento dell’interesse per gli sviluppi di quella che enfaticamente era stata definita “la primavera araba”, comprendendo in questa formula tutti i processi di cambiamento registrati nei paesi arabi nel corso del 2011.

Avviate dall’inevitabile modernizzazione delle rispettive società, a sua volta riconducibile alla rivoluzione comunicativa degli ultimi lustri, quelle trasformazioni furono potentemente incoraggiate dal discorso di Barack Obama all’Università del Cairo nell’aprile del 2009. Come riconobbe allora il Presidente americano, nessun discorso può cambiare la storia, specie se questa è punteggiata di conflitti, come quella dei rapporti tra l’Islam e il mondo occidentale a partire dall’Ottocento. Ma il fatto che in molti paesi arabi il 2011 abbia visto grandi folle manifestare per la democrazia e contro la tirannide è venuto a confermare la validità della tesi di Obama sulla piena compatibilità tra valori dell’Islam e valori dell’Occidente. Di qui l’eccesso di entusiasmo con il quale è stata accolta la “primavera araba”, quasi che essa avesse potuto portare a successi rapidi e profondi in paesi nei quali la tirannide, più o meno ammantata di modernità, era solidamente radicata. È vero che elezioni si sono tenute in Tunisia e Marocco con risultati complessivamente positivi; è vero che esse sono in corso anche in Egitto, con un processo macchinoso destinato a scatenare nuove tensioni; è vero che dittatori spietati sono stati spodestati con conflitti più o meno sanguinosi in Libia e nello Yemen e che la situazione in Siria evolve in direzione analoga (pur se qui l’ipotesi più probabile è quella di una guerra civile interetnica e interconfessionale). Ma tutti questi sviluppi sono ben lontani dalla loro conclusione e, nel complesso, la “primavera araba” sembra aver perso slancio, seppure in misura diversa nelle diverse realtà nazionali. Anche se questo esito provvisorio era prevedibile per chi non è uso a cedere alle suggestioni mediatiche, la battuta d’arresto è egualmente causa di preoccupazione sulla futura evoluzione delle società e degli assetti politici degli Stati coinvolti.

Un altro tratto caratteristico comune alle diverse situazioni è la maggiore rilevanza politica del fattore religioso rispetto a quella di cui godeva nei regimi autoritari, come dimostrano i successi elettorali di partiti islamici definiti abbastanza concordemente moderati, in quanto disposti ad accettare l’evoluzione verso la democrazia nei paesi coinvolti. La considerazione si applica in misura diversa al Marocco, alla Tunisia e all’Egitto. Nel primo paese, dopo le elezioni si è formato un governo di coalizione tra islamici moderati e laici, in un modo apparentemente comparabile alle forme politiche vigenti in Occidente, pur se occorre valutare quanto la forma di governo monarchica possa influire su questa evoluzione. Nel secondo paese il successo elettorale della formazione islamica Ennahda ha reintrodotto l’elemento religioso in una società che continua ad essere fortemente laicizzata. Una prima, evidente manifestazione di questo fenomeno è stata l’ottima accoglienza riservata da Ennahda a Ismail Haniyeh, capo del governo di Gaza ed esponente di Hamas, un’organizzazione che Stati Uniti e Unione europea continuano a considerare terrorista, anche dopo che Israele ha lungamente trattato con essa riconoscendole – volente o nolente – una legittimità politica. Questo episodio conferma anche che il fattore religioso ha necessariamente una connotazione filo-palestinese e anti-israeliana anche nel contesto tunisino, che appare quello ove la “primavera araba” ha prodotto risultati concreti.

Il discorso vale a maggior ragione per l’Egitto, ove il processo elettorale in corso ha già fatto registrare notevoli successi della Fratellanza musulmana, la più antica organizzazione islamica del mondo arabo e che si sta rivelando capace di partecipare a pieno titolo alla vicenda politica egiziana, oggi caratterizzata da un decisa contestazione popolare nei confronti dei militari che hanno sostituito Mubarak: basti pensare alla recente offerta ufficiosa fatta dall’organizzazione ai vertici militari di garantire loro l’immunità una volta ceduto il governo alle forze uscite vincitrici dalle elezioni. Ma, anche qui, gli islamici moderati e, se non altro per ragioni di concorrenza elettorale e politica, anche i movimenti laici e democratici hanno accentuato il tono della loro propaganda anti-israeliana, come del resto era facile prevedere. Non v’è dunque da meravigliarsi se negli ultimi tempi, fin dall’estate scorsa, le relazioni israelo-egiziane si siano deteriorate, come dimostrano gli incidenti del Sinai, ove gli israeliani hanno ucciso cinque guardie di frontiera egiziane mentre inseguivano presunti terroristi, o la degenerazione delle manifestazioni di fronte all’ambasciata israeliana al Cairo oppure la recentissima cancellazione di un tradizionale incontro religioso ebraico sulla tomba di un rabbino dell’Ottocento morto a Damanhur, nel delta del Nilo.

Per questo appare tanto più positiva l’iniziativa americana di questi giorni di far incontrare il sottosegretario di Stato William Burns con Mohamed Morsi, leader del partito della libertà e giustizia emanazione della Fratellanza. È questa infatti la via da seguire, sia pure a piccoli passi, per riconciliare l’Islam col mondo occidentale, come aveva annunciato Obama nel 2009: c’è solo da auspicare che le esigenze della campagna elettorale non inducano il presidente americano a modificare o arrestare la sua cautissima marcia d’avvicinamento al mondo islamico. Viceversa, del tutto negativo continua ad essere l’atteggiamento del governo israeliano, sempre più condizionato dai partiti e movimenti religiosi ed estremisti (che si fanno sempre più aggressivi sul piano del costume) e dall’agitazione dei coloni della Cisgiordania, ove prosegue indefessa la costruzione di nuovi insediamenti, mentre vengono ignorate le rivendicazioni sociali della gioventù israeliana per le insufficienze dell’edilizia abitativa. Fra l’altro, la breve ma intensa e diffusa protesta dei giovani israeliani contro l’esosità degli affitti testimonia del pieno inserimento della società israeliana nella temperie politica mediorientale, al punto che, non senza enfasi, si potrebbe affermare che la primavera araba è giunta anche a Tel Aviv. Ma la risposta di Netanyahu è sempre la stessa: l’ossessione per la sicurezza d’Israele.

Così, mentre si migliora la situazione scolastica dell’infanzia per placare il malcontento sociale, si aumentano al contempo le spese per la difesa e si rilanciano le preoccupazioni per le iniziative nucleari iraniane. Al punto che in questi giorni l’Amministrazione americana ha annullato manovre missilistiche congiunte proprio per non dare adito a speculazioni su un possibile appoggio alle ventilate azioni militari d’Israele contro l’Iran, e suscitando così il risentimento del governo israeliano. Se a tutto questo si aggiunge che in campo palestinese, nelle ultime settimane, le trattative per la riconciliazione tra l’Autorità nazionale palestinese e Hamas sembrano essersi nuovamente bloccate, le prospettive per una soluzione all’eterna questione della Palestina si fanno ancora più nere.

In queste condizioni, gli sviluppi della “primavera araba” verso forme politiche più democratiche rischiano di bloccarsi definitivamente. Il rischio è tanto più concreto in quanto nella campagna elettorale americana e nella competizione per la nomination repubblicana si affacciano ipotesi ancora più estreme, come quella formulata dall’ex senatore Rick Santorum, proiettato ad ottenere l’appoggio della destra religiosa. Questi è giunto ad affermare che il popolo palestinese non esiste, e che, quindi, anche gli arabi di Cisgiordania vivono in Israele, dando così per scontata l’annessione dei territori occupati allo Stato ebraico. Una tesi che neppure il governo Netanyahu ha osato formulare apertamente. L’ostinato attaccamento di buona parte dell’opinione occidentale alle tesi dei neoconservatori americani sull’identità di ogni organizzazione islamica con il terrorismo non porterà ad altro risultato se non quello di rilanciare nelle società arabe l’estremismo integralista, di fomentare nuove fiammate di violenza e, magari, farà sviluppare nuove forme d’oppressione ponendo di nuovo fine a speranze da troppo tempo frustrate.

 

 


Foto: Robert F. Stokes

 

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