Race to the bottom: Berisha, Rama e il futuro dell’Albania

Di Besa Shahini Lunedì 31 Gennaio 2011 13:26 Stampa
Race to the bottom: Berisha, Rama e il futuro dell’Albania Foto: Valerio Muscella

L’Albania è tormentata dal 2009 da una situazione di stallo politico. Le recenti violente dimostrazioni sono anche il frutto di un tentativo da parte dell’opposizione socialista di fomentare una rivoluzione. Ma una rivoluzione è lo strumento adeguato per spingere al cambiamento un paese balcanico che mira a entrare a far parte dell’Unione europea?

Tre persone hanno perso la vita nelle strade di Tirana nel corso di una manifestazione antigovernativa lo scorso 21 gennaio. La rabbia dei dimostranti era tangibile. Sin dal momento in cui sono scesi in strada, hanno cominciato a tirare alla polizia, posta a guardia del palazzo del primo ministro, qualunque cosa si trovassero in mano (dagli ombrelli ai manifesti pubblicitari) o vedessero sulla propria via (sassi inclusi). La polizia è stata presa in contropiede: le bombolette di gas lacrimogeno che volavano nella direzione degli agenti e non in quella dei dimostranti, gli idranti – che avrebbero dovuto tenere a bada i manifestanti – che si muovevano come impazziti dimostrano che la polizia, pur attaccata, non è stata in grado di tenere la situazione sotto controllo. I manifestanti hanno dato fuoco ad auto e alberi lungo i viali della città. All’alba la situazione era del tutto sfuggita di mano. Il bilancio è stato di tre cadaveri lasciati sul selciato.

Il Partito socialista albanese, guidato da Edi Rama, si è rifiutato di riconoscere i risultati delle elezioni del 2009, dichiarando che il Partito democratico avrebbe ottenuto un numero superiore di voti soltanto attraverso dei brogli. Di conseguenza, i socialisti hanno deciso di boicottare in massa il Parlamento, partecipando esclusivamente ai dibatti relativi all’istituzione di una commissione d’inchiesta sulla frode elettorale. Lo scorso maggio, il Partito socialista ha indetto uno sciopero della fame e i cittadini albanesi hanno portato avanti numerose proteste per indurre a ricontare i voti. Dal canto suo il Partito democratico ha sostenuto l’incostituzionalità di quanto richiesto e ha ribadito la necessità di finalizzare il processo elettorale. La stessa comunità internazionale ha dichiarato che la questione deve essere discussa in Parlamento e non nelle strade.

Di recente, è stato diffuso un video incriminante che mostra il ministro dell’Economia e del Commercio, Ilir Meta, mentre cerca di influenzare una gara d’appalto. Il ministro è stato costretto a dimettersi «per permettere ai pubblici ministeri di investigare», come avrebbe spiegato lui stesso. Il risultato non è sembrato sufficiente al Partito socialista che ha chiesto le dimissioni anche del primo ministro.

Le dichiarazioni

Subito dopo i tre decessi, sia Rama che Berisha hanno fatto delle dichiarazioni ufficiali per tentare di monopolizzare la situazione a beneficio del proprio partito. Rama ha asserito che le proteste erano pacifiche e che la risposta dello Stato – lanciare gas lacrimogeno e sparare ai dimostranti – è stata repressiva. Spartak Ngjela, un avvocato che prima faceva parte del Partito democratico e che successivamente si è unito alla sinistra, la sera del 21 gennaio ha dichiarato, «oggi abbiamo sacrificato tre persone, ne sacrificheremo 13 mila se sarà necessario». La risposta di Berisha è stata che la sinistra sta pianificando un colpo di Stato.

Un attivista dell’ONG Mjaft, vicina alla sinistra, che partecipava alle manifestazioni, ha spiegato per quale ragione i dimostranti hanno cominciato sin da subito ad affrontare la polizia: «i socialisti hanno protestato per tutta l’estate contro il governo illegittimo e il primo ministro si è ostinato a ripetere che non sarebbero riusciti a cacciarlo via con delle passeggiatine serali – con questo intendeva chiaramente dire che l’unico modo per rimuoverlo dalla sua posizione sarebbe stato quello di mostrare i denti e la forza».

E adesso?

Se c’è una lezione che è possibile trarre dalle rivoluzioni colorate che hanno agitato in passato l’Europa orientale è che un’altra rivoluzione non potrà avere luogo a meno che essa non abbia il sostegno dei paesi occidentale. Saakashvili nel 2004 ottenne il pieno sostegno dell’Occidente, e in particolare degli Stati Uniti, per andare avanti e far crollare il governo georgiano di Shevarnadze. Nel 2005 l’opposizione in Azerbaigian tentò di utilizzare la stessa tattica contro Alyiev, ma senza il supporto occidentale e la rivoluzione fallì. Dunque, i socialisti albanesi dovrebbero trarre un insegnamento da questi precedenti e dovrebbero porre fine ai tentativi di fomentare una rivoluzione – provocando anche delle vittime – in quanto questa difficilmente avrà luogo. L’ambasciatore statunitense a Tirana ha preso apertamente posizione in favore del governo e di una via istituzionale alla risoluzione del problema. L’Unione europea sembra essere persino meno incline a sostenere il Partito socialista, dopo aver speso quasi tre anni a negoziare con il governo albanese e il Partito democratico la questione dei visti d’ingresso nell’UE.

La domanda, quindi, è la seguente: se le rivoluzioni non ottengono appoggio nei Balcani, che mezzi hanno a disposizione le forze di opposizione per promuovere il cambiamento? Qui entra in gioco l’Unione europea. L’UE dovrebbe assumere un ruolo attivo nel premiare i cambiamenti democratici e nel punire i comportamenti autoritari. Se i visti di ingresso, ovvero le carote a disposizione di Bruxelles, sono offerti sulla base dell’attuazione di riforme e di una condotta virtuosa, dovrebbero esserci anche dei meccanismi per ridurre le carote quando i governi esitano a portare avanti i processi di cambiamento.

 

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Foto di Valerio Muscella

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