Le elezioni di midterm e il peso del passato

Di Carlo Pinzani Lunedì 08 Novembre 2010 17:02 Stampa

Commento di Carlo Pinzani ai risultati delle elezioni statunitensi di midterm tenutesi la scorsa settimana.

A ben guardare, l’Amministrazione Obama ha conseguito una notevole serie di successi, dal salvataggio della finanza e dell’industria automobilistica alla riforma sanitaria, a quella della finanza, certo limitata ma capace di preoccupare Wall Street, dalla concessione di prestiti agli studenti a condizioni sostenibili alla limitazione degli aumenti degli interessi sulle carte di credito, dalla nomina di due donne alla Corte Suprema, all’obbligo imposto alla British Petroleum di far fronte ai danni della catastrofe ecologica della Louisiana, alla riduzione delle ritenute alla fonte per le imposte sul reddito dei lavoratori dipendenti. Risultati di tutto rispetto che, però, fanno a pugni con quello elettorale.
Questa contraddizione viene spiegata con le preoccupazioni dell’elettorato per la perdurante crisi economica e la diffusa disoccupazione, coi difetti di comunicazione della Casa Bianca, con le caratteristiche elitarie e intellettualistiche del Presidente, e con vari altri fattori congiunturali. Malauguratamente, ne esistono di più profondi e di più lunga durata, che contribuiscono a spiegare il brusco cambiamento dell’elettorato americano tra il 2008 e il 2010, così brusco da indurre taluni ad affermare che ormai i cicli della politica americana si sono drasticamente abbreviati. In realtà, è vero esattamente il contrario: l’attuale ciclo della politica americana, con la durevole prevalenza del conservatorismo di nuovo e antico conio, democratico e repubblicano, risale a Richard Nixon e agli anni Settanta del Novecento, superficialmente interrotto dai due mandati di Clinton. La vittoria di Obama nel 2008 non fu dovuta tanto al desiderio di cambiamento quanto all’improvvisa rivelazione che il benessere americano si fondava su una ricchezza apparente e fragile, favorita da dissennate politiche che promuovevano l’indebitamento pubblico e privato, e delle quali a ragione gli elettori incolparono le Amministrazioni Bush.
Durante l’attuale ciclo conservatore, con la fine della guerra fredda e la scomparsa dell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti hanno conosciuto il periodo di egemonia globale più solido e prolungato della loro storia. L’ultratrentennale predominio culturale del conservatorismo liberista, del “pensiero unico”, si è consolidato al punto che la crisi grave finanziaria apertasi nel 2008 lo ha appena scalfito. All’affermazione del conservatorismo nel lungo periodo ha decisamente contribuito il potere di condizionamento esercitato sulla politica americana dalle sue frange più estremistiche e ideologizzate, quelle, per intendersi, che muovendo dall’anticomunismo degli anni Quaranta e Cinquanta continuano oggi a seguire la fola della polemica contro il big government e vedono lo spettro del socialcomunismo in qualsiasi intervento dello Stato nell’economia, con la sola eccezione della spesa militare, negli Stati Uniti vero motore dell’espansione degli apparati pubblici.
Il potere di condizionamento degli estremisti si è puntualmente ripresentato dopo la vittoria di Obama su un programma apertamente progressista. Spontaneo o meno che sia, il movimento del Tea Party ha contribuito a radicalizzare nuovamente lo scontro politico negli Stati Uniti e a trascinare l’intero partito repubblicano in un’opposizione intransigente e ostruzionistica. In queste condizioni, qualunque politica avesse condotto l’Amministrazione Obama, e quali che ne siano stati gli errori, un biennio non poteva bastare a rovesciare una situazione così consolidata, tanto più che il conservatorismo era (ed è) ben presente nella fila democratiche.
Questa conclusione è avvalorata da un’altra componente di ancor più lungo periodo della storia americana: la questione razziale, che, alla vigilia del 150° anniversario della guerra civile, sembra essere ancora viva in forme nuove, più subdole e dissimulate rispetto al passato. Già lo testimoniava l’eccezionalmente aspra contesa per la nomination democratica e in questi due anni non sono mancati episodi che confermano la persistenza di un diffuso disagio per la presenza di un afroamericano alla Casa Bianca, ultimo quello che ha visto un conduttore televisivo, sia pur comico, chiamare “dude (all’incirca “giovanotto”) il Presidente. Ma la conferma definitiva viene proprio da queste elezioni, ove le maggiori perdite democratiche si sono registrate negli Stati industriali del Midwest, chiara espressione della frustrazione della classe media bianca, che la rende vulnerabile sia alle antiche pulsioni razziali sia alle suggestioni dell’estremismo.
Solo così si può capire l’altrimenti inspiegabile e prematura condanna di Obama ad essere un clone di Jimmy Carter e a dover quindi accontentarsi di un solo mandato. Si tratta ovviamente di un auspicio puramente propagandistico, che ha ben scarse possibilità di avverarsi. Ma la presenza di fattori come quelli qui illustrati rende molto più ardua la seconda parte del mandato di Obama: tener conto della loro esistenza e, purtroppo, anche della loro forza sembra indispensabile per la elaborazione, l’attuazione e la comunicazione di politiche che, affrontando le questioni reali sul tappeto, e in particolare quelle economiche, valgano a ridurre la ricettività di parte dell’opinione alle sirene del conservatorismo. Per questo Obama avrà bisogno del sostegno unanime dell’opinione liberal per una politica che riesca a realizzare un difficile equilibrio tra prudente moderazione nelle questioni in cui è possibile provare a giungere ad intese con i repubblicani e decisa radicalità dove questa prospettiva sembra preclusa. Ma, come diceva Ronald Reagan, per ballare il tango bisogna essere in due: se il partner rifiuta, è inutile insistere ad invitarlo.

 

Foto da The white house

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