Egitto: legittimità democratica vs. legittimità della protesta

Di Renzo Guolo Venerdì 05 Luglio 2013 18:20 Stampa
Egitto: legittimità democratica vs. legittimità della protesta Foto: Zeinab Mohamed

Resistendo ai generali nelle convulse ore della deposizione, Morsi ha invocato la legittimità democratica della sua elezione, a cui gli oppositori rispondevano con la legittimità della protesta. In questo quadro, gli islamisti sono apparsi come i cantori della democrazia mentre i contestatori, che hanno salutato con gioia l’arrivo dei cingoli nelle strade, hanno loro contrapposto il primato della politica. È un golpe, quello egiziano, che rimette in discussione ogni considerazione circa il rapporto fra democrazia e Stato islamico e che è destinato ad avere ampie ripercussioni sugli equilibri politici dell’area.


La forzata fine del governo della Fratellanza Musulmana costituisce una drammatica cesura nel processo di transizione delle Primavere arabe. L’intervento militare è divenuto possibile perché Morsi ha perso il consenso che lo aveva plebiscitariamente portato al potere solo un anno fa. Il suo governo è crollato, oltre che sotto il peso dei carri di Al Sissi, sotto quello del suo fallimento. A dimostrazione che lo slogan “l’Islam è la soluzione” non basta per governare una società complessa.

Morsi ha scambiato il consenso – che aveva premiato la lunga opposizione della Fratellanza ai regimi autocratici e la capillare azione di welfare religioso del gruppo – come avallo a proseguire nel solco della tradizione autoritaria del potere a lungo dominante nel paese.

Divenuta sistemicamente “affidabile” sul piano internazionale, evitando di mettere in discussione il trattato con Israele e offrendo il suo sostegno al fronte sunnita ostile all’Iran sciita, la Fratellanza ha cercato di soddisfare il suo bacino di consenso varando una Costituzione dalla marcata impronta islamista. Operazione che ha pagato a caro prezzo, dal momento che ha ricompattato la frammentata opposizione, ha portato alla rottura con la minoranza cristiana e non ha scalfito il peso delle forze armate che, anche nella nuova carta, si sono ritagliate il ruolo chiave di garante della sicurezza della nazione. Grimaldello che ha permesso alle stellette di intervenire nel formale rispetto della legalità. L’aggravarsi della crisi economica, accompagnato dall’onnivora occupazione clientelare dello Stato, tipica dei movimenti rimasti fuori dalle istituzioni per intere ere politiche, ha creato poi le condizioni per il golpe “popolare”. Un intervento che mette fine a un governo democraticamente eletto, destinato a spaccare quel che resta della Fratellanza dopo l’arresto del suo gruppo dirigente. Oltre che a mandare in ebollizione la magmatica galassia salafita.

Nell’opporsi ai generali nelle convulse ore della deposizione, Morsi ha fatto riferimento alla sua legittimità democratica, mentre gli oppositori gli hanno contrapposto la legittimità delle protesta. Urne contro piazze, voti contro firme, popolo contro popolo: un rebus non facile da sciogliere. Il paradosso è che, nel fragore del tintinnar di sciabole, gli islamisti sono apparsi come i cantori della democrazia mentre gli oppositori, che hanno salutato con gioia il clangore dei cingoli nelle strade, hanno loro contrapposto il primato della politica.

Un paesaggio dopo la battaglia che potrebbe condurre i settori più estremi della Fratellanza a rivalutare le critiche dei salafiti, convinti che i processi democratici non potranno mai garantire la realizzazione dello Stato islamico. Il fronte salafita, che ha al suo interno componenti partecipazioniste e isolazioniste, potrebbe a sua volta perdere militanti a favore di quei gruppi convinti, oggi come ieri, che la democrazia sia una trappola e non possa sostituirsi al jihad. Dibattito destinato a declinarsi, nel versante liberaldemocratico, nella disputa sull’esistenza o meno di un “golpe buono”. In ogni caso non sarà facile governare senza e contro la Fratellanza.

Il golpe in riva al Nilo avrà anche riflessi esterni. Nella regione e sulle due sponde dell’Atlantico. Le transizioni arabe si erano rette sul patto tra gli Stati Uniti di Obama e la Fratellanza. Washington non si è opposto alle forze islamiste che avessero consenso e garantissero “affidabilità” rinunciando a mettere in discussione trattati e alleanze, oltre che facendo muro al terrorismo qaedista. Il colpo di Stato mette, di fatto, la parola fine su quel patto. Da qui i timori della Casa Bianca per le sue ripercussioni. Se gli oppositori di Morsi imputavano a Obama di non mettere alle strette il presidente deposto, saranno ora gli islamisti a imputare agli Stati Uniti la loro immobilità e sentirsi sciolti da quella promessa.

Lo scambio politico con la Fratellanza riguardava tutta l’area, dal Nordafrica al Medio Oriente. Il golpe risolve, apparentemente, il problema egiziano, ma ne apre altri, a cominciare dalla Siria, dove la Fratellanza locale, molto meno malleabile di quella radicata all’ombra delle Piramidi, è impegnata nella lotta al regime di Assad – che non a caso esulta per la caduta di Morsi –, e, per proprietà transitiva, all’Iran e Hezbollah. Subiscono un duro colpo la Turchia dell’AKP, il Qatar e Hamas, Ennahda in Tunisia. Con la pesante battuta d’arresto dell’Islam neotradizionalista, si annuncia nella regione una stagione di nuovi equilibri, nuove alleanze, molto più caratterizzate da tatticismi e riserve. Lo si vedrà chiaramente nei prossimi mesi.

 

 


Foto: Zeinab Mohamed