Una rivoluzione in bilico

Di Muhammad Abushaqra Lunedì 06 Febbraio 2012 16:11 Stampa
Una rivoluzione in bilico Foto: Jonathan Rashad

All’inizio dello scorso anno l’anelito verso la dignità e la giustizia sociale aveva fatto riversare centinaia di migliaia di egiziani per le strade. Oggi l’Egitto ha un Parlamento democraticamente eletto, ma è lecito chiedersi se gli obiettivi della rivoluzione siano stati effettivamente raggiunti. Le elezioni hanno realmente sancito la fine del regime e la fine della rivoluzione?

 

Quando scoppiarono le rivolte in Tunisia, nel dicembre del 2010, i rivoluzionari avevano in mente un obiettivo preciso: la deposizione dell’ex presidente e del suo regime autocratico. Ben Ali decise di dimettersi dopo aver tentato di diffondere il caos e la paura nelle strade di Tunisi aprendo le prigioni e liberando delinquenti e criminali. Lo scenario in Egitto non era molto diverso. Tanto che si potrebbe quasi dire che i leader arabi hanno mostrato una netta mancanza di creatività non solo nello sviluppo e nella gestione dei loro paesi, ma anche nei metodi per cercare di soffocare le aspirazioni democratiche della popolazione. Eppure, nonostante le similitudini nella reazione dei due regimi alla rivolta, diverso è il significato che egiziani e tunisini hanno dato alle rispettive rivoluzioni.

Sebbene in Egitto la continuità del regime dipendesse dagli strumenti di oppressione usati dalla polizia di Stato per esercitare il proprio controllo sulla popolazione e persino sul Partito nazionale democratico – al fine di assicurare una facile successione alla presidenza per il figlio di Mubarak – cuore e anima del sistema era invece l’esercito.

Quel che i dimostranti mancarono di notare quando, la sera del 28 gennaio 2011, l’esercito scese in piazza fu che i militari non erano lì per venire incontro alle richieste della popolazione, ma per ordine del loro leader supremo: Hosni Mubarak. Ciò nonostante la gente di piazza Tahrir gridava «L’esercito e il popolo sono una cosa sola». A porre fine a questa scena furono le dimissioni di Mubarak e la presa del potere da parte del Consiglio supremo delle forze armate (SCAF). L’11 febbraio 2011, Omar Souliman, l’ex vicepresidente, dichiarò ufficialmente che Mubarak rinunciava al potere e delegava il controllo e la gestione del paese al Consiglio supremo. A prescindere dal fatto che quanto dichiarato riflettesse o meno quel che successe in realtà, è lecito interrogarsi sul ruolo giocato dall’esercito egiziano, e ciò al fine di comprendere appieno la situazione attuale e valutare cosa potrebbe accadere in futuro.

Non sono pochi i momenti della storia egiziana in cui i militari hanno giocato un ruolo politico prominente. La rivoluzione del 1881 prese il nome da Ahmad ʿOrābī, un ufficiale oggi considerato un eroe nazionale. In tempi più recenti, il Movimento dei liberi ufficiali, formato da diversi esponenti dell’esercito, portò al colpo di Stato del 23 luglio 1952 – ricordato come la “rivoluzione del 23 luglio” – che segna l’inizio anche del recente regime.

Allora, la gran parte della popolazione sostenne la rivoluzione, ritenendo che il golpe rappresentasse il passaggio necessario dalla monarchia alla repubblica. Ma la promessa di una transizione in favore di autorità civili elette democraticamente non fu mai mantenuta. Ciò che avvenne fu esattamente l’opposto: i militari misero fuorilegge tutti i partiti politici, annullarono la Costituzione del 1931, limitarono fortemente la libertà di espressione istituendo un dipartimento apposito della polizia con il compito di controllare e perseguire i cosiddetti “reati d’opinione”. Inoltre, i movimenti islamici furono perseguitati con violenza, in conseguenza del fatto che – per ragioni ideologiche e geopolitiche – fu deciso di adottare un modello economico, politico e sociale di tipo socialista. Il regime si assunse l’onere di offrire occupazione nella pubblica amministrazione a tutti i laureati: il risultato fu la creazione di un settore pubblico ipertrofico, realizzato attraverso un’ampia serie di confische. Questa prima “versione” del regime ebbe fine con la guerra del giugno 1967 e l’occupazione della penisola del Sinai da parte di Israele.

Dopo la morte del presidente Gamal Abd el-Nasser, i militari scelsero Anwar al-Sadat come suo successore. Non appena preso il potere, Sadat fece processare diversi ufficiali e figure politiche per rafforzare il proprio controllo sul regime. A questo momento possiamo far risalire la nascita di una seconda versione del medesimo regime, caratterizzata dall’apertura verso l’Occidente e la scelta degli Stati Uniti come alleato chiave, visto che Washington costituiva un attore essenziale del “gioco” arabo-israeliano. Fu negli anni caratterizzati da nuova questa versione del regime, che l’esercito affrontò la guerra del 1967 e sferrò con successo un attacco a Israele il 6 ottobre del 1973, restituendo il Sinai alla sovranità egiziana. Fu sempre questa versione del regime a essere testimone del Trattato di pace con Israele a Camp David, firmato sotto gli auspici degli USA, e dell’assassinio del presidente Sadat.

Questa seconda variante del regime militare in Egitto presenta delle differenze rispetto alla prima. In primo luogo, essa adottò il capitalismo come sistema economico, ma la  applicazione senza alcuno strumento di controllo determinò la diffusione della corruzione nell’intero paese. Essa incoraggiò anche l’emigrazione della forza lavoro negli Stati del Golfo con l’obiettivo di sostenere l’economia interna attraverso le rimesse. Una scelta che finì però per ritorcesi contro lo stesso regime in quanto facilitò l’introduzione della dottrina wahhabita in Egitto.

Un’altra differenza rispetto alla fase precedente è che negli anni della cosiddetta “rivoluzione correttiva” di Sadat e in quelli successivi, fu lasciato spazio agli islamisti affinché diffondessero le loro dottrine in aperta opposizione a quelle comuniste e marxiste. Ciò permise agli islamisti di rafforzarsi anche grazie al desidero di vendetta del regime.

L’esercito, invece, fu ricompensato con la nomina di generali e ufficiali a posizioni nell’amministrazione civile e mantenne il controllo sul campo economico assicurandosi 1,3 miliardi di dollari all’anno di aiuti statunitensi come parte degli accordi di Camp David.

Dopo la morte del presidente Sadat, ricominciarono le persecuzioni nei confronti dei gruppi islamici e in particolare dei membri della Fratellanza musulmana. Malgrado le pressioni a cui era soggetta, la Fratellanza fu in grado di continuare a mantenere forti relazioni con la popolazione grazie alla vasta attività di beneficenza e alla diffusione di un messaggio politico fondato sulla sharīʿa. I Fratelli musulmani riuscirono ad assicurarsi così il sostegno di un numero enorme di persone appartenenti a classi sociali diverse. Quando non si ha più alcuna speranza nel futuro, è normale cercare rifugio nel passato con un senso di nostalgia. Ritengo che questo sia quanto è accaduto al popolo egiziano. Una parte dei copti trovarono conforto negli antichi momenti della Chiesta cristiana d’Egitto, così come i musulmani rivolsero le loro speranze nella creazione di uno Stato islamico.

Arriviamo dunque al 25 gennaio dello scorso anno, quando governo ed esercito rimasero sconvolti dal numero enorme di persone che scesero in piazza a protestare. La loro sorpresa fu persino maggiore qualche giorno dopo, il 28 gennaio, quando l’apparato di polizia collassò, insieme ai tentativi di seminare il terrore per porre fine alle dimostrazioni, di fronte alla ferrea volontà dei manifestanti. Dopo diciotto giorni, il regime non era più in grado di resistere alla pressione e alla determinazione dei rivoluzionari. Fu in questo contesto che venne presentata la Dichiarazione militare n° 1, con la quale venivano garantiti sia l’uscita dalla scena del presidente Mubarak (nel settembre del 2011) sia alcuni emendamenti alla Costituzione. Il Consiglio supremo delle forze armate decise di riunirsi, senza Mubarak, per trovare una soluzione: sperava di mantenere il controllo sul paese dichiarando il proprio sostegno alla rivoluzione e al cambiamento.

Quando infine Mubarak – a causa delle pressioni dell’esercito o in accordo con esso – si dimise, il civilissimo popolo egiziano abbandonò piazza Tahrir dopo averla ripulita: una scena di umanità decisamente inusuale. I manifestanti celebrarono il successo dei loro sforzi e ricordarono i martiri e le ingiurie subite. La gente nelle strade festeggiava e cantava “Noi un giorno ci sposeremo”, segno che il regime corrotto e oppressore non si ergeva più fra loro e il futuro. C’era un tale ottimismo e una così grande speranza che si costituirono centinaia di movimenti civili e giovanili. Gli studenti si riversarono per le strade, pulendole e dipingendole con la loro speranza, per vedere un paese bello come quello che sognavano.

Ma il regime cominciò presto a riprendersi il ruolo che esercitava prima. Sebbene avesse evitato di aprire il fuoco contro la popolazione e avesse concordato – o forzato – le dimissioni di Mubarak, l’ombra del vecchio regime era ancora presente. Giocare il gioco con le medesimo regole non può portare cambiamenti reali, e di certo non in linea con l’atmosfera rivoluzionaria che pervadeva l’Egitto.

Il regime non vuole il cambiamento, vuole piuttosto che si dica a voce alta: “Io sono la scelta giusta”. Rivendica che la propria legittimità deriva dal colpo di Stato del 1952. Considera quella del 1973 una vittoria che salvò la sovranità sui territori conquistati dal nemico Israele. Anche il fatto di essersi astenuti dall’usare la violenza contro i manifestanti è, a loro avviso, una fonte di legittimità. L’indipendenza economica dell’esercito, la capacità decisionale, l’immunità per i leader del Consiglio supremo delle forze armate e un ruolo speciale per le istituzioni militari nel processo decisionale sono le condizioni minime accettabili prima che i militari rinuncino all’effettivo controllo sul sistema politico.

Dall’altra parte ci sono invece i rivoluzionari che, fino a questo momento, ritengono di non aver raggiunto pienamente gli obiettivi prefissati e che non possono accettare una rivoluzione incompleta, che non includa cioè un totale cambio di regime, ovvero la piena transizione democratica a un’autorità civile eletta, una costituzione moderna e democratica, nonché la messa in stato di accusa di quelle figure del regime che si sono rese colpevoli dell’uccisione di dimostranti, di aver oppresso il paese e rubato le sue ricchezze. Occupati dalla lotta per il raggiungimento di questi obiettivi, i rivoluzionari non hanno partecipato attivamente a un processo elettorale per il quale non erano ancora pronti. Il risultato è che la rivoluzione gode di una rappresentanza molto debole in Parlamento. I rivoluzionari, del resto, ritengono che il loro ruolo non sia tanto quello di “giocare alla politica”, quanto quello di sostenere le best practices politiche e monitorare l’attuazione delle riforme richieste dal popolo. Questo nobile atteggiamento potrebbe rivelarsi in futuro qualcosa di cui essere grati. Tuttavia, dovrebbe anche essere chiaro che il flusso in questo momento si sta muovendo verso una sorta di istituzionalizzazione della rivoluzione: la formazione cioè di un Parlamento la cui legittimità derivi proprio da piazza Tahrir e che sarà investito dal ruolo di scrivere la nuova Costituzione.

I movimenti rivoluzionari giovanili includevano inizialmente anche gruppi islamici impegnati nella lotta per la creazione di un nuovo Egitto. Ma il continuo dialogo dei Fratelli musulmani con l’esercito e la loro propensione a tenere presto le elezioni li ha resi meno rivoluzionari di quanto inizialmente desiderassero. A ciò si aggiungano alcune voci estremiste che negano e attaccano il sistema di valori nei quali credono invece i rivoluzionari, che si dichiarano liberali e laici e sostengono l’assenza di una forte ed efficiente élite istruita. Tale approccio non ha convinto un’ampia parte della popolazione.

I Fratelli musulmani e i salafiti (fondamentalisti islamici) sono stati i primi a organizzarsi in partiti politici e a utilizzare i legami con la popolazione costruiti in settant’anni di attivismo. Persino i copti hanno sostenuto la creazione di un partito liberale di “egiziani liberi”. Questo non è stato invece il caso dei movimenti rivoluzionari, i quali non sono stati in grado di strutturarsi in forme organizzative inclusive e cooperative al fine di unificare il proprio messaggio e di risultare convincenti per l’elettorato egiziano, impegnato nelle prime elezioni da sessant’anni a questa parte.

Il risultato delle elezioni, dunque, è stato quello previsto: oltre il 70% dei seggi sono stati attribuiti ai partiti islamici, Libertà e giustizia della Fratellanza musulmana e Al-Nour (Luce) dei salafiti. Il resto è andato alla coalizione liberale “Il blocco egiziano” e ad Al-Wafd. È così chiaro che il comportamento di cui si parlava sopra – il ritorno al passato e alla religione per quanti sono privi di speranza – si è manifestato in queste elezioni, che sono state però giudicate positivamente dalle molte istituzioni venute a monitorarne lo svolgimento (secondo queste la percentuale di frode elettorale non eccederebbe il 2%).

Adesso la domanda è: se il 70% degli elettori ha democraticamente votato per gli islamisti, nuove proteste pubbliche possono essere ancora considerate uno strumento effettivo per cambiare il regime? L’esercito ha cominciato ad attaccare e perseguire i rivoluzionari, sottoponendoli a processi militari, controllando le sedi delle ONG e accusandoli di provocare volutamente il caos e di essere nemici della stabilità. Questo perché i militari ritengono ormai di poter trattare con i dimostranti senza dover più temere una severa reazione nelle strade. Il popolo ha ormai compiuto la propria scelta e sta dalla parte dell’esercito, sostenendo gli islamisti e guidando il paese in una direzione diversa rispetto a quella anelata nel corso della rivoluzione.

La rivoluzione era giusta. Questo è fuor di dubbio. Ma vale la pena di ricordare che il Parlamento prodotto dalle elezioni è lungi dall’essere rappresentativo dell’intera popolazione. Le donne e i giovani sono ben poco rappresentati, così come gli obiettivi rivoluzionari. Il prevedibile sviluppo di una tale situazione potrebbe essere uno scontro duro fra il Parlamento e una folla portatrice di istanze politiche che, pur partecipando alla rivoluzione, non ha avuto modo – se non temporaneamente e marginalmente – di guadagnare spazio sui media, a parte l’ampio seguito su Twitter. Questo scontro, qualora avesse luogo, coinvolgerà la religione, i dimostranti, i mass media e sarà tristemente represso nel sangue. E questo perché gli strumenti oppressivi e violenti usati dalla polizia prima della rivoluzione sono ancora in azione oggi.

L’obiettivo di questa analisi è di contestualizzare il ruolo giocato da ognuno degli attori coinvolti.

In breve, e partendo da quanto detto finora, il regime è ancora lì. Non c’è stato alcun reale tentativo di eliminarlo. Oggi si sta cercando di dare una nuova credibilità al paese e di porre fine ai disordini con un ordine prestabilito. I Fratelli musulmani e i salafiti sono stati i più veloci ad adattarsi grazie al maggior grado di organizzazione, riuscendo in tal modo a mobilitare l’elettorato e guadagnare la maggioranza dei seggi. Il loro obiettivo principale è governare il paese e piantare i semi per la creazione di una sorta di format politico sovranazionale costruito sulla base dell’applicazione della sharīʿa. Dall’altra parte ci sono ancora i rivoluzionari, i quali mirano a conquistare dignità e giustizia sociale per il popolo e ad avviare una vera transizione alla democrazia.

Per completare lo scenario fin qui tratteggiato è necessario fare riferimento anche agli sforzi controrivoluzionari di quegli attori che si trovano in questo momento in prigione o che agiscono dall’esterno, e in particolare l’Arabia Saudita e gli altri paesi del Golfo. Questi non desiderano che il vento del cambiamento soffi anche sui loro paesi. Due sono i modi attraverso i quali riescono a esercitare la propria influenza: cercano di creare il caos, attraverso la diffusione di un messaggio negativo sui movimenti rivoluzionari, oppure esercitano il proprio potere offrendo assistenza economica alle loro condizioni. La maggior parte dei paesi del Golfo, soprattutto l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi, il Kuwait, si oppongono inoltre al processo a Mubarak.

A questo punto vorrei concludere, ricordando che la rivoluzione è stata spinta dalla piazza verso strade più strette, nelle sale del Parlamento, e ciò al fine di dividere le forze e far perdere vigore all’eco della piazza, piuttosto che trasformare quelle voci in un reale cambiamento politico. La rivoluzione sta andando avanti, nonostante il fatto che sia adesso in bilico, perché la questione di un sistema giusto che garantisca la dignità dei suoi cittadini non è stata ancora risolta. Ed è chiaro che questa non è una questione che sta a cuore a quanti si trovano al ministero della difesa o nelle sedi dei partiti politici che hanno vinto le elezioni. Le elezioni sono state corrette, ma il loro risultato non potrà che portare a scontri. E altri errori verranno compiuti. È ora necessario che non si facciano più i medesimi errori, che non si giochi più il gioco di Mubarak, che si rispetti la volontà della gente. L’interesse mostrato ultimamente da Stati Uniti e Europa nei confronti dei movimenti islamici dovrebbe essere supportato dalla consapevolezza che le rivoluzioni sono sempre “volatili”, con molti alti e bassi. La rivoluzione sta vivendo, in questo periodo, un momento di stanca, che sarà però seguito da un nuovo attivismo. E allora sarà dura per quanti hanno agito per fermare la rivoluzione. Le richieste dei rivoluzionari non sono ancora state soddisfatte, è dunque probabile che la popolazione continuerà a chiedere e criticare fino a quando non saranno avviate quelle riforme strutturali fondamentali per le quali tanta gente ha perso la vita. È dunque prevedibile che ci troveremo presto in una nuova fase rivoluzionaria.

 


Foto: Jonathan Rashad