Religione e democrazia

Di Redazione Lunedì 11 Maggio 2009 20:34 Stampa

La prima edizione della Summer School di Filosofia e politica, organizzata dalla Fondazione Italianieuropei, ha affrontato il tema della nuova rilevanza politica e culturale assunta dal rapporto tra religione e democrazia nell’attuale congiuntura storica. La crescente centralità di questo argomento ha riaperto il dibattito sul significato e sulle implicazioni del concetto di laicità. È tornata così in discussione una questione che sembrava risolta, almeno nelle società occidentali, sia sul piano della ricostruzione dottrinale sia su quello della sistemazione giuridico- costituzionale. A cura di Massimo Adinolfi e Alfredo D’Attorre | Scarica il documento integrale


Introduzione

Democrazia, laicità e ruolo pubblico della religione

La prima edizione della Summer school di filosofia e politica, organizzata dalla Fondazione Italianieuropei, ha affrontato il tema della nuova rilevanza politica e culturale assunta dal rapporto tra religione e democrazia nell’attuale congiuntura storica. La crescente centralità di questo argomento ha riaperto il dibattito sul significato e sulle implicazioni del concetto di laicità. È tornata così in discussione una questione che sembrava risolta, almeno nelle società occidentali, sia sul piano della ricostruzione dottrinale sia su quello della sistemazione giuridico-costituzionale. La laicità ha costituito un elemento centrale nella definizione teorica dello Stato moderno a partire da Thomas Hobbes. Lo Stato moderno fonda la legittimità del suo potere anzitutto sulla capacità di neutralizzare la carica distruttiva dei conflitti religiosi, sperimentata dall’Europa nel secolo successivo alla diffusione della Riforma protestante. La laicità diventa la condizione stessa di effettività del potere sovrano e della sua pretesa di ubbidienza. Questa pretesa non può che fare appello a ragioni “penultime”, che risultano efficaci solo se le convinzioni etico-religiose “ultime”, per cui si è disposti anche a uccidere e ad essere uccisi, vengono neutralizzate ed escluse dalla sfera politica. Nei secoli successivi, lungo la linea che conduce dalle Dichiarazioni sui diritti dell’uomo e del cittadino del XVIII secolo negli Stati Uniti e in Francia alle Carte fondamentali degli Stati costituzionali europei del secondo dopoguerra, il tema della laicità si carica di ulteriori valenze rispetto alla sua originaria matrice hobbesiana fondata sul binomio sicurezza-protezione, intrecciandosi con i principi della tolleranza, del pluralismo e della libertà religiosa. Secondo questa ricostruzione, la laicità segna il profilo degli ordinamenti costituzionali democratici in maniera ancora più profonda rispetto alla precedente esperienza della statualità moderna. Nel suo intervento, Luciano Violante ha richiamato, a questo riguardo, la sentenza 203/89 della Corte costituzionale italiana, con la quale la laicità viene riconosciuta tra i «principi supremi» dell’ordinamento repubblicano. In questa prospettiva, i segni di un ripensamento contemporaneo del tema della laicità e di un ritorno della religione nella sfera pubblica sarebbero da ricondurre ai problemi inediti posti dal crescente carattere multiculturale delle società occidentali e alle inquietudini generate dalla sfida del fondamentalismo islamico, resasi drammaticamente evidente dopo l’11 settembre 2001. Una chiave di lettura più articolata del rapporto fra religione, morale e diritto negli ordinamenti democratici occidentali viene proposta nel contributo di Alfonso Catania. Il presupposto della crisi attuale dell’idea di laicità che ha caratterizzato la modernità politica viene individuato già nella positivizzazione di principi e valori morali contenuta nelle Costituzioni democratiche a partire da Weimar e, soprattutto, nell’interpretazione che larga parte del costituzionalismo contemporaneo ha dato di questo processo, mettendo in discussione la valenza neutralizzante della mossa hobbesiana di fondazione della sovranità politica. Catania sottolinea i rischi di eticizzazione del diritto e di una irruzione non mediata di imperativi religiosi nel processo di deliberazione politica legati alla torsione antipositivistica della filosofia giuridica neocostituzionalistica contemporanea. In un momento storico come quello attuale, in cui anche filosofi come Jürgen Habermas sembrano rivedere le posizioni tradizionali che «escludevano la religione e le sue valenze identitarie dal costrutto teorico dello Stato», Catania osserva che, paradossalmente, «molto più della prima parte della Costituzione, è la seconda, che organizza il potere tramite procedure, a rappresentare ancora una difesa della laicità e del pluralismo contro il corto circuito tra valori etico-religiosi ed effettività». Una decisa riaffermazione del principio della laicità in termini classici e della sua piena compatibilità con il paradigma costituzionalistico viene proposta, invece, nell’intervento di Luigi Ferrajoli. Sulla base del suo originale impianto teorico (un neocostituzionalismo che resta ancorato al positivismo giuridico), Ferrajoli collega la nozione di laicità ai concetti di anticognitivismo etico («la verità si conviene solo alle tesi assertive, siano esse della logica o della conoscenza empirica; mentre dei giudizi di valore – etici o politici – non si può dire che siano veri o falsi, ma solo che sono giusti o ingiusti») e di autonomia morale («l’azione morale è autenticamente tale solo se spontanea, cioè fine a sé medesima, e non un mezzo per evitare l’inferno o per raggiungere il paradiso »). Solo su questa base si può evitare l’«equazione tra bene e vero che è all’origine di ogni intolleranza» e si riesce a garantire la «separazione tra diritto e morale, ovvero tra diritto e religione, o ancora tra diritto e giustizia», in cui Ferrajoli individua ancora oggi «la formula più appropriata» per rispondere alla domanda sul significato della laicità del diritto e dello Stato. Se dal piano normativo si passa a quello descrittivo, Ferrajoli, tuttavia, non nega i sintomi di quel «declino del principio di laicità», in particolare nel nostro paese, su cui si sofferma il contributo di Luciano Violante. Dopo un’articolata ricostruzione di alcuni dei principali filoni giurisprudenziali in materia di laicità, Violante si interroga sulle ragioni storiche e politiche che hanno condotto in Italia a una sorta di «crisi della modernità», che «ha fatto dimenticare alla politica come si pensa storicamente e come si agisce criticamente». Si è prodotta così una situazione in cui, a giudizio di Violante, «il centrodestra, attraverso una apparente acquiescenza al Vaticano che nasconde un manifesto uso politico della religione, e il centrosinistra, attraverso i silenzi, sembra abbiano delegato alla Chiesa cattolica la titolarità dell’etica pubblica, dei grandi valori e delle grandi idee capaci di dare un senso alla vita». Il significato della laicità torna ad essere conteso, ma nessuna delle posizioni teoriche e culturali in campo nega che essa rimanga un elemento irrinunciabile per ogni ordinamento democratico e pluralista. Si potrebbe osservare che proprio il riaccendersi di una disputa così serrata su questo tema confermi (nonostante le tante teorizzazioni postmoderne degli ultimi decenni, anche in ambito giuridico-politico) la difficoltà a prendere davvero congedo dalle categorie politiche della modernità, di cui il concetto di laicità è parte essenziale. Da un altro punto di vista, il dibattito sulla laicità e le distinzioni sempre più ricorrenti a cui esso dà luogo (laicità o laicismo, vecchia o nuova laicità, laicità in senso debole o forte) sono il segno delle tensioni a cui gli ordinamenti democratico-costituzionali dell’Occidente sono sottoposti sotto l’urto delle tumultuose trasformazioni delle società globali. Un’altra chiave di lettura della ridefinizione odierna dei rapporti tra politica e religione è rappresentata dal tramonto delle grandi narrazioni ideologiche novecentesche. Il contributo di Remo Bodei descrive lo svuotamento di senso che l’agire politico sembra subire in uno scenario in cui la dissoluzione dei movimenti ideologici di massa («banche che emettevano valori etici») ha generato «un nuovo protagonismo delle religioni». In una condizione di «contrazione delle attese e delle speranze che spinge le persone a concentrarsi sul presente», si sono aperti «varchi di senso attraverso cui passa l’idea che le democrazie abbiano bisogno della stampella o del sostegno della religione, perché, altrimenti, nel loro relativismo, sarebbero incapaci di guidarsi da sole». Pur senza citare espressamente Ernst-Wolfgang Böckenförde, Bodei indica una direzione del tutto alternativa alle sue tesi, sottolineando la necessità di un progetto laico e plurale di «rafforzamento della politica», che rimane un’attività «fragile» ma indispensabile. A ciò bisogna collegare una concezione non autoreferenziale né escludente dell’identità, rappresentabile piuttosto come una corda costituita dall’intreccio di più fili: «Più fili ci sono, più l’identità individuale e collettiva si esalta». Il tema della complessità e della stratificazione caratterizzanti ogni identità storico-culturale è al centro anche del contributo di Salvatore Natoli: «Ogni civiltà è più o meno debitrice di qualcun’altra» e solo se si tiene conto di ciò si può aprire un autentico dialogo interculturale. Vi è in questa tesi una risposta implicita alla tentazione della Chiesa cattolica di Benedetto XVI di candidarsi a soggetto storico chiamato a difendere la tradizione culturale occidentale, fondata sul logos. A questa tentazione si lega la pretesa di garantire quel nucleo veritativo di principi ultimi senza il quale le democrazie occidentali, soggiogate dalla “dittatura del relativismo”, sarebbero destinate alla negazione della loro stessa ragion d’essere. Natoli, tuttavia, riconosce che le religioni, in quanto «sollevano problemi di senso e problematizzano le certezze e la pretesa sufficienza della stessa ragione», possono contribuire ad allargare gli orizzonti cognitivi delle società contemporanee. Il filo comune che emerge da questi interventi è l’idea che la fede e i punti di vista religiosi possano essere accolti nella sfera pubblica non come fondamento sostanziale di identità storiche e politiche in cerca di ridefinizione nel mondo globale, ma come un arricchimento del pluralismo e della vitalità culturale degli ordinamenti democratici. Questo riconoscimento positivo del ruolo pubblico delle religioni viene fortemente sottolineato nella relazione di Charles Larmore, con particolare riferimento alla specificità dell’esperienza politico-costituzionale americana e al significato che il liberalismo politico ha assunto all’interno di essa. Una delle tesi teoriche più impegnative che Larmore enuncia riguardo al rapporto tra democrazia liberale e religione prescrive che i cittadini religiosamente attivi non debbano essere dissuasi dall’assumere posizioni politiche che tengano conto del proprio credo religioso. Portando l’esempio del ruolo che il sentimento religioso ha esercitato nell’ispirare la lotta per i diritti civili di Martin Luther King o nel difendere principi di solidarietà sociale nelle società capitalistiche occidentali, Larmore esprime la convinzione che sia «un bene per la cosa pubblica che i credenti affermino il proprio credo nello spazio pubblico e cerchino di convincere gli altri cittadini, eventualmente non credenti, della verità del loro punto di vista». I rischi legati a una congiunzione del ritorno della religione nella sfera pubblica con il tema dell’identità e delle radici sono sottolineati, invece, nel contributo di Tzvetan Todorov, che muove da una considerazione critica di due recenti discorsi tenuti dal presidente della Repubblica francese Nicolas Sarkozy sul rapporto tra religione e democrazia. Todorov rivendica il perdurante valore, a maggior ragione nell’attuale fase storica, della tradizione culturale dell’Illuminismo, inaugurata nel Settecento da pensatori che, come Giambattista Vico, Montesquieu, David Hume o Johann Gottfried Herder, affermano il valore della pluralità rispetto a quello dell’unità: non più l’unione, ma «la pluralità fa la forza», una pluralità che comporta anzitutto il riconoscimento del diritto di ognuno a professare il proprio credo religioso e che diventa un «elemento prioritario» dell’identità europea. Sono perciò da respingere le tesi semplificanti secondo le quali l’identità culturale sarebbe nient’altro che una diretta conseguenza delle «radici che affondano nel passato». Ricorrendo a una metafora vegetale, Todorov osserva che «nessuno mangia le radici di un melo»: il frutto e il suo sapore finale non hanno una relazione diretta con le radici, che sono solo un elemento tra i tanti del processo di maturazione. Ogni identità culturale viva è in uno stato di continua trasformazione, giacché solo le culture morte non cambiano più. In questo senso, si può dire che la «funzione prevale sulla sostanza» e che nessuna identità del passato «può decidere da sola del nostro presente». Pur nell’evidente diversità di accenti rispetto al punto di vista “americano” di Larmore, Todorov non propone un’idea della laicità come contestazione della presenza delle religioni nella sfera pubblica, ma come garanzia di «contesto giuridico e istituzionale che permetta la loro coesistenza pacifica e assicuri nel contempo la libertà di coscienza di ognuno». Le considerazioni di Todorov si saldano su questo punto con quelle di Massimo D’Alema. Il riconoscimento del ruolo pubblico delle religioni e la difesa intransigente della laicità del diritto e dello Stato trovano un punto di equilibrio nella necessità, sottolineata da entrambi, di «riabilitare la politica». La riflessione di D’Alema muove dalla constatazione che la religione non solo non è stata cancellata dalle società occidentali, come prevedevano molte teorie della secolarizzazione, ma ha assunto un crescente rilievo pubblico, configurandosi come un «fattore essenziale di identità, di protezione e di consolazione di fronte alle dure sfide di un mondo che si trasforma velocemente». D’Alema complica e arricchisce l’analisi di diversi contributi richiamati in precedenza, sostenendo che la rinascita del sentimento religioso non sia da imputare soltanto al tramonto delle ideologie tradizionali, ma soprattutto al fallimento dell’«utopia neoliberale», che ha dominato l’ultimo ventennio e ha rappresentato, pur negando di esserlo, «l’ultima grande ideologia totalitaria del Novecento». In realtà, il liberalismo, dopo la crisi delle ideologie ad esso alternative, è diventato «una sorta di campo di battaglia», ossia un orizzonte assai ampio entro il quale si sviluppa un «confronto tra più liberalismi». D’Alema solleva qui un punto di grande interesse, che nella seconda metà degli anni Settanta era stato toccato da Michel Foucault nella sua analisi comparativa dell’Ordoliberalismus tedesco della Scuola di Friburgo e del neoliberalismo americano della Scuola di Chicago (si tratta di pagine che sarebbe interessante rileggere nella congiuntura attuale, in cui torna in discussione il rapporto fra potere politico ed economia di mercato, anche perché disvelano una complessità e un pluralismo della tradizione liberale di cui si è persa traccia nella vulgata neoliberista dell’ultimo ventennio). Riguardo al tema della società post secolare, D’Alema invita a distinguere tra «rinascita del sentimento religioso e riconquista religiosa dello spazio politico- statuale», mettendo in guardia dai rischi di «un’alleanza tra religiosità e potere». Si tratta di un dibattito che attraversa anzitutto il mondo religioso e che vede una parte significativa del cattolicesimo post conciliare rifiutare «l’idea di un patto fra la Chiesa-istituzione e il potere». Ma D’Alema si interroga anche sul versante laico, individuando nell’esperienza del costituzionalismo democratico («l’insieme di valori morali e norme giuridiche che stanno a fondamento della nostra convivenza e che si reggono etsi deus non daretur») un «potenziale di universalità» maggiore della sola tradizione giudaico-cristiana. Il filo rosso della riflessione di D’Alema può essere individuato nell’indebolimento (che riguarda l’intero Occidente e, in modo forse ancor più accentuato, il nostro paese) della forza coesiva e direttiva della politica in grado di sostenere il patrimonio costituzionale occidentale. A ciò viene collegato il fascino di cui oggi gode il celebre diktum di Böckenförde («lo Stato liberale secolarizzato vive di presupposti che non è in grado di garantire»). D’Alema lo definisce «funesto», sfidando un certo consenso acritico che oggi circonda la tesi del giurista tedesco. Si tratta, peraltro, di un consenso che quasi mai si interroga su quanto abbia inciso nella genesi di questa teoria il fatto che egli sia stato il più acuto allievo di Carl Schmitt. Da questo punto di vista, il veluti si Deus daretur rischia di agire da fondamento degli ordinamenti politici quale sostituto funzionale della «decisione politica fondamentale» teorizzata da Schmitt. Il principale obiettivo polemico della posizione schmittiana era la tesi del nesso inscindibile tra democrazia e relativismo sostenuta da Hans Kelsen. Oggi, forse, il termine relativismo è troppo carico di polemiche ed equivoci semantici. Ma neppure la “nuova laicità” o “laicità positiva”, di cui si discute da qualche tempo, pur valorizzando la voce delle religioni nell’arena pubblica, può accettare la ricerca di fondamenti sostanziali della democrazia che pretendano di superare o di mettere tra parentesi l’irriducibile pluralismo culturale delle società contemporanee. Né è accettabile l’idea che questo pluralismo, senza un ancoraggio teologico-religioso, sia destinato a sfociare inevitabilmente nel nichilismo relativistico. Il riconoscimento del valore infinito di ogni essere umano e il rispetto incondizionato della sua dignità e natura razionale possono costituire il più alto punto di convergenza oggi pensabile tra il patrimonio del costituzionalismo democratico e la tradizione delle grandi religioni. A partire da questo principio condiviso, si può forse proseguire una riflessione sulla laicità che garantisca sì il libero dispiegarsi del ruolo pubblico delle religioni, ma consenta alla politica democratica di recuperare la forza e l’autonomia culturale per affrontare concretamente i problemi della convivenza umana.


Religione, antropologia e politica nell’età post secolare

Le distinzioni fondamentali alle quali è affidata la salvaguardia della laicità dello spazio pubblico sono sottoposte a forti tensioni da profonde trasformazioni che non investono solo la politica contemporanea, ma che tuttavia non mancano di caricarsi di un senso politico. Un primo imponente ambito nel quale si addensano nuovi problemi è quello che riguarda la stessa dimensione biologica della vita umana. La lingua greca, da cui deriva grande parte del lessico politico che ancora oggi usiamo, distingueva fra la zoè e il bíos: con il primo termine indicava la vita nel suo senso ancora non differenziato, che coinvolge tutti gli esseri viventi; con il secondo designava invece forme di vita proprie di una determinata specie, che nel caso della specie umana possono essere diverse (mentre una, e sempre la stessa, è la forma di vita propria di ciascuna specie animale). Proprio la distanza tra un piano e l’altro consentiva la posizione del problema politico che concerneva, per Aristotele, l’insieme delle scelte situate non semplicemente sul piano del vivere, ma del vivere bene, della buona vita. L’una e l’altra dimensione appartengono alla physis dell’uomo, cioè alla sua natura, ma solo la seconda sollevava per Aristotele problemi politici, poiché investiva il carattere eminentemente pratico della decisione. Una caratteristica puramente formale di questo modello di comprensione dello spazio politico si ritrova anche negli autori moderni, per i quali la determinazione rigorosa di condizioni e leggi dello stato civile comporta anzitutto l’uscita dallo stato di natura: richiede cioè – da Thomas Hobbes a John Locke, da Immanuel Kant a Karl Marx – una distanza e uno scarto rispetto ad una dimensione naturale pre politica, dalla quale, per l’appunto, si esce. Pensare la politica significa considerarla a partire da una simile soglia. Benché tutto, o quasi, sia cambiato nel passaggio dall’orizzonte classico a quello moderno, ciò che viene comunque mantenuto in un caso e nell’altro è l’idea che lo spazio della politica non coincide con quello vitale o naturale, ma si situa a una certa distanza da esso. Quello spazio si staglia perciò su uno sfondo non modificabile di natura che mette l’uomo in comunicazione non solo, in basso, con la natura animale e la natura in generale, ma anche, in alto, con potenze religiose trascendenti l’ordine politico. È quindi inevitabile che queste potenze si sentano chiamate in causa dai movimenti contemporanei di riconfigurazione della soglia della politicità umana, e più specificamente dal fatto che lo sfondo naturale non stia più affatto sullo sfondo, essendo ormai giunto in superficie per divenire oggetto di interventi sulla vita sempre più profondi e invasivi. Qui c’è dunque un punto di domanda: è infatti del tutto ovvio che una così estesa mobilitazione, in grado di coinvolgere il mondo intero e la sua “base” naturale, solleciti anzitutto, nel pensiero religioso, analisi preoccupate, le quali si assumono spesso l’onere di segnalare il bisogno di istanze compensatrici, capaci di controbilanciare la spinta relativistica e nichilistica che sarebbe propria della modernità: capaci insomma di integrare tutto quello che appartiene alla mera “ragione del potere e del fare”, alla ragione strumentale e calcolante che nell’enciclica “Spe Salvi” viene indicata da Benedetto XVI come carente non solo rispetto alla fede, ma anche rispetto a un concetto (opportunamente allargato) di razionalità. Non è difficile ravvisare, in questo genere di interpretazione diagnostica del tempo presente, i tratti caratteristici di un pensiero conservatore tradizionalmente diffidente nei confronti della modernità, e troppo fiducioso in risorse metafisiche che la filosofia contemporanea ha da tempo posto in crisi. Ciò nondimeno, resta il punto, e cioè se le categorie politiche moderne siano ancora in grado di assicurare intellegibilità al proprio oggetto, e, soprattutto, se siano ancora in grado di legittimare decisioni politiche fondamentali negli inediti ambiti entro i quali devono oggi essere assunte. I contributi di Stefano Rodotà e di Roberto Esposito gravitano, sia pure partendo da prospettive assai diverse, intorno a questi ambiti e a questo decisivo punto di domanda. Se Rodotà perlustra le capacità non meramente residuali della politica di costruire e difendere una grammatica di diritti – a partire da quelli fondamentali garantiti dall’attuale quadro costituzionale – che possa assicurare la libera costruzione della personalità anche nell’epoca attuale, sempre più dominata dalle tecnoscienze, Esposito pone invece la domanda più radicale, squisitamente filosofica, circa gli orizzonti di senso che è necessario attivare una volta che sia radicalmente mutata la posta in gioco della decisione politica. Lo scavo in profondità della genealogia filosofico-politica di Esposito mira a spostare l’attenzione «dal piano della forma a quello dei contenuti, della “materia” degli attuali regimi politici occidentali». Ne va infatti della vita stessa, ed è sempre più difficile – il che peraltro non significa che non vada fatto – che politica e diritto siano in grado di neutralizzare (ad esempio mediante le tradizionali procedure della decisione democratica) i conflitti che le decisioni sulla vita generano. Si tratta dunque di evitare lo schiacciamento riduzionistico del bíos propriamente umano sulla zoè nuda e indifferenziata, ma anche, forse, di evitare che la protezione del bíos sia affidata ad agenzie il cui grado di legittimazione sia inferiore a quello che la modernità ha comunque saputo assicurare, inventando la forma moderna, costituzionalistico-liberale, della democrazia. Queste “agenzie” sono tuttavia in campo. Prima ancora di giudicare se sia un bene o un male, occorre prenderne atto. E non meravigliarsi se la secolarizzazione, che è a lungo parsa una forza irresistibile, il cui implacabile senso di marcia non avrebbe conosciuto deviazioni né ritardi, non ha affatto comportato la pura e semplice cancellazione del fenomeno religioso. A ragione, Eugenio Mazzarella ha richiamato le nozioni con le quali due dei massimi pensatori politici del nostro tempo hanno dato conto della persistenza di istanze religiose nell’orizzonte politico e culturale contemporaneo. Che si tratti della società post secolare di Jürgen Habermas o dello sfondo valoriale del liberalismo politico di John Rawls, ciò a cui si assiste è una assai robusta riproposizione nel dibattito pubblico di temi religiosamente rilevanti. Per Habermas, che tra i filosofi laici continentali è quello che più si è esposto nel dialogo con la Chiesa cattolica, le trasformazioni della coscienza pubblica non riguardano solo il venir meno della certezza che la religione sia destinata a scomparire con l’avanzare della modernizzazione (e l’indebolimento delle speranze laiche di riscatto integrale dell’umanità): c’è anche l’impatto, dovuto all’ampiezza dei fenomeni migratori, con orizzonti di vita diversi, nei quali il peso dell’identità religiosa è ancora notevole, e che è più difficile far convivere in condizioni di reciproco rispetto; e vi è, infine, l’influente ruolo di «comunità d’interpretazione» che la religione continua ad esercitare su un gran numero di questioni. Quest’ultimo ruolo richiede forse un supplemento di riflessione. Se infatti la religione continua a fornire chiavi di interpretazione della realtà umana testardamente efficaci, ciò deve dipendere dal fatto che, dopo tutto, non si tratta di una semplice impostura, o di una pia illusione, destinata a scomparire una volta raggiunto un grado di conoscenze o un livello di benessere adeguati. Si tratta piuttosto di un fatto antropologico primario, peraltro largamente attestato in tutte le culture, ad ogni latitudine. La critica à la Feuerbach, secondo la quale la religione verte su «ciò che è oggetto di fini e bisogni umani », coglie perciò non tanto un suo punto di debolezza, quanto un punto di forza, in ragione di questa stretta aderenza alla realtà umana. Naturalmente la cosa cambia se si confida in un futuro in cui fini e bisogni umani saranno definitivamente conseguiti e soddisfatti. In realtà, lo stesso Feuerbach non ha mai condiviso l’importanza eccessiva attribuita da Hegel al «tempo esclusivista»: non condivideva cioè l’idea che la «zona degli dei», essendo il futuro la progressiva conquista di quella zona, avrebbe significato la definitiva cacciata degli dei dall’orizzonte dei rapporti interumani. Per dirla allora con Félix Duque, la filosofia, che pure non può non comprendersi, nell’orizzonte della modernità, come metodologicamente atea, «deve certamente guardarsi dall’essere edificante, ma non dal tentare di sondare ed esplorare in modo umano l’ineludibile necessità che hanno gli uomini – almeno, gli uomini dell’Occidente – di “edificazione”». Altrettanto ineludibile pare essere la richiesta di una presenza pubblica della religione. Se guardiamo solo al set di credenze in cui si formula una fede, riesce in realtà facile rubricare il tutto sotto la voce “opinioni”, nient’altro che un soggettivo «tener per vero» – per dirla con Kant – non più vincolante di ogni altro personale convincimento. Se però consideriamo la religione nel suo reale e denso spessore, se cogliamo in essa il retaggio di una dimensione mitica e rituale che le inerisce essenzialmente, se ne constatiamo la funzione socio-culturale, allora non possiamo non considerare che una religione privata è, sia da un punto di vista storico sia da un punto di vista naturalistico, una contraddizione in termini. Questo non significa affatto rinunciare al carattere laico della sfera pubblico- statuale. Può darsi anzi che proprio il riconoscimento del ruolo influente delle comunità di interpretazioni religiose obblighi ad una più rigorosa distinzione di ambiti: come ancora Habermas ha fatto notare, la sfera pubblica è infatti più ampia della cornice propriamente giuridico-statuale. Significa però che la relazione fra la sfera politica e quella religiosa non può essere rappresentata e “calcolata” secondo regole interamente proceduralizzabili. Non si tratta di una considerazione ovvia o scontata. Al pensiero laico è certo consustanziale la distinzione fra politica e religione, così come la distinzione fra diritto e morale. Ora, però, quel che queste distinzioni distinguono è anzitutto una forma da un contenuto: e poiché si vuole che solo la forma sia universale, il contenuto si trova ipso facto dal lato di ciò che, essendo particolare, non può costituire il fondamento universale di un ordine politico democratico, basato sull’uguaglianza in diritto fra gli uomini. Ma non appena domandiamo – com’è inevitabile – anche solo: “In cosa gli uomini sono uguali?”, subito si fa chiara la necessità di un’interpretazione del principio di uguaglianza formale, e di un fondamento per quell’interpretazione, che il principio stesso non può di per sé contenere, e che su qualche contenuto deve poter far leva. È la dialettica storica della vita democratica, in cui le opinioni devono trovare effettivamente un terreno di confronto e di composizione: dialettica che non può essere decisa in anticipo, una volta per tutte, su ogni ordine di questioni. Ed è il lavoro della politica, questo: di rendere negoziabili le soluzioni di principio. Sin qui però si è guardato molto più al modo in cui lo spazio pubblico è sottoposto a un certo numero di trasformazioni che non al modo in cui il cristianesimo è chiamato a misurarsi con questi cambiamenti. E invece, anche per la cultura religiosa, il Novecento è stato un secolo di profondissimi mutamenti intellettuali. La ricchezza di prospettive teologiche sorte – sia in ambito cattolico che protestante – nel corso del XX secolo è paragonabile solo alla grande fioritura teologica del XIII secolo. Il fatto è, tuttavia, che nel pensiero filosofico contemporaneo, e proprio nelle aree più recettive nei confronti dei teologumeni della tradizione, si è fatta valere una critica dell’ontoteologia, cioè della struttura metafisica della ragione classica e moderna, che mostra bene le risorse con le quali la ragione stessa ha rimesso in questione la comprensione teologica della fede cristiana. La quale perciò non è chiamata a fronteggiare soltanto gli assalti a volte anche un po’ grossolani dei relativismi, degli scientismi, dei riduzionismi, ma a reggere l’urto di una critica filosofica agguerrita, innanzi alla quale l’intera concettualità filosofica greco-romana ha perduto gran parte della sua evidenza. È il tema della celebre lectio tenuta nel settembre 2006 dal papa nell’aula magna dell’Università di Ratisbona: tre grosse ondate di de-ellenizzazione hanno investito il cristianesimo, minacciando di separarlo dal patrimonio metafisico-spirituale della grecità. In verità, anche la metafora delle tre ondate successive proviene da quell’antica eredità: è la stessa a cui ricorre Platone, nella “Repubblica”, e come lì tocca all’oikistés Socrate difendere l’ordine della polis, così Benedetto XVI vede nell’alleanza di fede e ragione la difesa di un baluardo essenziale della civiltà cristiana. Con tutti i rischi, però, che ciò comporta per la stessa Chiesa, in un contesto storico e culturale profondamente mutato, come ha opportunamente sottolineato Massimo D’Alema: «Mentre in altre epoche storiche il legame tra cristianesimo, mondo occidentale ed Europa ha posto il cristianesimo al centro del mondo, oggi, se questo patto diventasse esclusivo e opprimente, il cristianesimo correrebbe il rischio di finire in un’area non periferica, ma certo ben delimitata». In realtà, non mancano esperienze intellettuali e fermenti religiosi assai vitali, che condividono il timore per un eccessivo arroccamento del cristianesimo dentro le frontiere storiche e spirituali dell’Occidente. Ad un ripensamento radicitus del cristianesimo storico guarda ad esempio Vincenzo Vitiello, che invita, in una diversa fedeltà alla Parola del Figlio – icasticamente: «Cristo non è un comandamento, è un esempio. Perciò non fonda nessun regno e nessuna polis» – a rinunciare definitivamente «al progetto di organizzare la comunità umana secondo un’istanza “superiore”», progetto che ha costituito l’ossatura principale della teologia politica occidentale. Piero Coda è invece impegnato a valorizzare con grande sapienza lo spazio che il Concilio vaticano II ha dischiuso alla Chiesa cattolica nel mondo della cultura e nella società, in uno slancio di rinnovamento che non ha ancora esaurito tutte le sue potenzialità, e il cui carattere epocale andrebbe forse misurato su un arco temporale più ampio di quello solitamente adottato dagli osservatori. Assumere il «quadro teologico di riferimento» del Concilio a proposito della presenza e dell’agire della Chiesa nel mondo significa, spiega Coda, considerare definitiva «l’acquisizione del significato positivo e ineludibile della laicità delle realtà temporali (...): laicità che costituisce la toile de fond della “Gaudium et Spes” e trova il suo imprescindibile fondamento nel principio della libertà religiosa formulato dalla “Dignitatis Humanae”». Che su questi fondamenti esistano tutte le condizioni per tenere vivo il dialogo fra spirito laico e spirito religioso è quanto nelle dense giornate di studio di Marina di Camerota si è forse potuto mostrare. La tela di fondo della laicità non si è ancora strappata e – come sopra si è detto – non è male che a tesserla e ritesserla concorrano fili diversi. È in questo modo che può farsi strada la comune consapevolezza che una tale tessitura, come ha osservato Massimo D’Alema in conclusione del suo intervento, «può concorrere a ridare forza di prospettiva alla politica. A una condizione: che i non credenti riconoscano che la ricerca della verità, cioè la ricerca del senso ultimo dell’esistenza umana, della propria esistenza individuale, costituisce non una fuga dalla realtà, non un’inutile perdita di tempo, ma un tratto di nobiltà dell’essere umano. E che i credenti riconoscano che la fede è solo una delle risposte possibili a questa ricerca di senso dell’esistenza umana», perché «anche una morale puramente umana può fondare il senso dell’esistenza individuale nel rapporto con gli altri».

Massimo Adinolfi
Alfredo D’Attorre

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