Una guerra non “scaccia” le altre. L’eurocentrismo non può essere la ragione per cui sentire l’Ucraina più vicina a noi mentre la Siria, la Palestina, il Rojava curdo siriano, lo Yemen, l’Afghanistan non fanno notizia, non meritano un millesimo dello spazio mediatico dato alla guerra d’Ucraina. Gerarchizzare gli orrori e le ingiustizie che segnano il nostro tempo non dovrebbe far parte del DNA di una società democratica.
Eppure è ciò che sta accadendo. Sull’Ucraina si è imposta, è stata imposta, una narrazione dominante, deformante, totalizzante. Il dominio del pensiero unico. Vale per l’Ucraina. E per il conflitto israelo-palestinese. Ai filosofi con l’elmetto, agli strateghi della domenica, a una stampa in divisa, poco o niente interessa se la Palestina muore.
Per chi ha conosciuto Enrico Berlinguer e lo ha vissuto come una guida nel corso della sua giovinezza, ricordarlo non è soltanto un dovere ma è anche l’occasione per ripensare a una personalità straordinaria in grado di trasmettere un messaggio anche al mondo di oggi.
Egli è stato uno dei maggiori protagonisti della storia dell’Italia repubblicana e, certamente, nella generazione che venne dopo quella dei padri fondatori è stato, insieme ad Aldo Moro, il protagonista più significativo.
Con la partecipazione di Simona Colarizi, Piero Craveri, Massimo D’Alema, Emma Fattorini, Agostino Giovagnoli, Silvio Pons, Marco Revelli.
È questa la seconda iniziativa editoriale che Italianieuropei dedica al centenario del PCI. Con la prima abbiamo inteso, attraverso un dialogo tra alcuni dei protagonisti del gruppo dirigente di quel partito, mettere a confronto l’esperienza di diverse generazioni di comunisti. Il confronto di oggi coinvolgerà invece alcuni tra i più autorevoli storici contemporaneisti del nostro paese, che, pur con diversi approcci culturali, non sono nuovi a una riflessione sul comunismo italiano e sul suo ruolo nella storia nazionale. Il punto di partenza di questo nostro dialogo sarà il libro di Silvio Pons “I comunisti italiani e gli altri”; un testo a mio giudizio importante, che propone un approccio innovativo collocando in modo più organico la vicenda del comunismo italiano nel quadro dello sviluppo della storia europea e mondiale.
Con il lento e inesorabile incedere del tempo non solo si affievoliscono i ricordi, ma ci stanno lasciando uno dopo l’altro i testimoni delle grandi tragedie del Novecento, in primis della Shoah. Stiamo entrando, con scarsa consapevolezza collettiva, nell’età della post memoria, un’epoca in cui non solo gli storici di professione, ma tutti noi siamo chiamati al non facile compito di trasmettere una corretta memoria tra le generazioni, senza produrre pericolosi e assai rischiosi cortocircuiti.
L’unico mio incontro con Rosario Villari avvenne nel 2009, durante un convegno dedicato a Giuliano Procacci, deceduto l’anno prima. Ero borsista all’Istituto Croce di Napoli e Michele Ciliberto, con cui di lì a poco avrei discusso una tesi di dottorato dedicata a Benedetto Croce, relatore in quel convegno (assieme a Villari, Maurice Aymard e altri), mi invitò a seguirne i lavori. Del rapido colloquio con lui ricordo l’invito a chiudere un’edizione critica che mi portavo dietro da qualche anno. Da liceale non mi toccò il suo popolare manuale di storia, sostituito negli anni Novanta da altri tomi, e dalla mia prospettiva, estranea agli studi di storia propriamente detti, Villari apparteneva a quella generazione di studiosi il cui “mondo storiografico” (formazione, biografia intellettuale e contesto etico-politico) attraeva più del “mondo storico”. Potrei fare un lungo elenco: Delio Cantimori, Federico Chabod, Luigi Firpo, Giorgio Candeloro, Giuliano Procacci, Ernesto Ragionieri, Arturo Carlo Jemolo, Franco Venturi, Eugenio Garin, Giorgio Spini, Ernesto Sestan, Arnaldo Momigliano.
Sono passati settant’anni da quando si è chiusa, anche formalmente, la vicenda del Partito d’Azione. Fu infatti nel novembre del 1947 che la maggioranza del Pd’A decise di confluire nel PSI allora guidato da Lelio Basso, ma egemonizzato da Pietro Nenni e Rodolfo Morandi. Certo, rispetto al peso militare conquistato nella Resistenza dalle brigate Giustizia e Libertà e a quello intellettuale della stessa GL nell’esilio antifascista, già il risultato delle elezioni per la Costituente aveva rappresentato per gli azionisti un severo ridimensionamento delle proprie ambizioni politiche. Tuttavia i limiti delle forze tradizionali del movimento operaio parevano alla dirigenza del Pd’A ancora irrisolti, per cui l’ipotesi dello scioglimento del partito non si pose all’ordine del giorno fino alla scissione del PSIUP di palazzo Barberini. Fu la divisione del socialismo italiano in due tronconi – quello socialdemocratico guidato da Saragat e quello frontista guidato dal trio Basso/Nenni/Morandi – a portare a definitiva maturazione la crisi azionista. Il percorso che condusse alla confluenza nel PSI non fu né lineare né tanto meno esente da traumi e lacerazioni anche personali. Di questi ondeggiamenti fu pienamente partecipe anche il leader riconosciuto del partito, Riccardo Lombardi. Ma se nel mese di novembre si giunse infine alla confluenza – e all’inserimento dello stesso Lombardi e di Alberto Cianca nella direzione socialista, pur senza diritto di voto – fu proprio grazie alla definitiva inclinazione dell’allora segretario del Pd’A verso l’accordo con l’ala sinistra dello schieramento socialista italiano.
Volgendo lo sguardo indietro si può vedere quanto il percorso di integrazione razziale negli Stati Uniti sia stato lungo, contorto e faticoso. Di questo percorso – che a giudicare dalle reazioni all’elezione di Obama e da alcune delle spinte che hanno portato Trump alla presidenza è lontano dal compiersi – è una tappa importante l’episodio che nel 1957 ha riguardato la battaglia di nove studenti afroamericani di Little Rock per vedere riconosciuto il loro diritto all’istruzione su un piano di parità con i coetanei bianchi. Cosa ha rappresentato questa vicenda per la storia delle forze progressiste americane e non solo?