Riforma elettorale e riassetti delle coalizioni

Written by Cesare Pinelli Monday, 01 May 2006 02:00 Print

La legge elettorale per la camera e il senato approvata lo scorso anno dalla allora maggioranza di centrodestra ha ripristinato il sistema proporzionale, accompagnandolo con un premio per la lista o la coalizione di liste che abbiano riportato la maggioranza relativa dei voti, e con sbarramenti differenziati per l’accesso alla rappresentanza parlamentare (legge 270/2005). È un sistema senza precedenti o paragoni in altre democrazie. Differisce da sistemi proporzionali variamente corretti perché il premio di maggioranza si sovrappone in modo assai più pesante alla «giustizia dei numeri». D’altra parte, a differenza dei sistemi maggioritari, dove ogni seggio è assegnato in ciascun collegio alla lista che abbia ottenuto la maggioranza dei voti, il sistema è proporzionale tranne che per il premio, assegnato alla lista o alla coalizione di liste che abbia ottenuto la maggioranza dei voti a livello nazionale alla camera e regionale al senato. L’arbitrarietà del premio è molto maggiore della distorsione della rappresentatività delle opinioni che col maggioritario si verifica collegio per collegio, e che diventa tollerabile a livello nazionale proprio perché frutto della volontà degli elettori.

La legge elettorale per la camera e il senato approvata lo scorso anno dalla allora maggioranza di centrodestra ha ripristinato il sistema proporzionale, accompagnandolo con un premio per la lista o la coalizione di liste che abbiano riportato la maggioranza relativa dei voti, e con sbarramenti differenziati per l’accesso alla rappresentanza parlamentare (legge 270/2005).

È un sistema senza precedenti o paragoni in altre democrazie. Differisce da sistemi proporzionali variamente corretti perché il premio di maggioranza si sovrappone in modo assai più pesante alla «giustizia dei numeri». D’altra parte, a differenza dei sistemi maggioritari, dove ogni seggio è assegnato in ciascun collegio alla lista che abbia ottenuto la maggioranza dei voti, il sistema è proporzionale tranne che per il premio, assegnato alla lista o alla coalizione di liste che abbia ottenuto la maggioranza dei voti a livello nazionale alla camera e regionale al senato. L’arbitrarietà del premio è molto maggiore della distorsione della rappresentatività delle opinioni che col maggioritario si verifica collegio per collegio, e che diventa tollerabile a livello nazionale proprio perché frutto della volontà degli elettori.

Il sistema si basa insomma su una correzione molto rozza del proporzionale, e nello stesso tempo è più distorsivo di qualsiasi sistema maggioritario. Né si può accostare ai sistemi per il rinnovo dei nostri consigli provinciali, comunali e regionali, che al di là delle loro differenze prevedono il doppio turno, e assegnano il premio alle liste collegate a quella del candidato risultato eletto, rispettivamente, presidente di provincia, sindaco e presidente di regione.

La legge ha ricevuto critiche definitive di politologi e giuristi di ogni orientamento, che vengono riassunte di seguito.

Al senato, il premio di maggioranza è del tutto aleatorio. Previsto per rispettare la regola costituzionale che vuole il senato eletto «su base regionale» (ma si potrebbe discutere sulla necessità che anche il premio, oltre al disegno dei collegi, debba obbedire a tale regola), il premio, proprio perché calcolato regione per regione, non è calcolabile preventivamente in sede nazionale, e dunque incongruo rispetto a una competizione elettorale come quella del senato della Repubblica. È insomma un premio che rinnega se stesso. Una legge che prevede uno strumento del tutto inadeguato o insensato per raggiungere un obiettivo indicato dalla stessa legge è palesemente irragionevole e incostituzionale, anche se nel nostro sistema è molto difficile che una questione di legittimità di disposizioni relative al sistema elettorale in senso stretto arrivi alla Corte costituzionale.

La differente disciplina del premio al senato e alla camera può avere una conseguenza disastrosa sul funzionamento delle istituzioni: l’attribuzione del premio (se quello del senato si può considerare tale) a maggioranze di colore politico opposto alla camera e al senato. Sarebbe la conseguenza dell’applicazione di una legge vigente, e quindi pienamente legittima. Ma poiché nel nostro ordinamento le funzioni della camera e del senato (comprese le funzioni legislativa e di indirizzo politico) sono equiparate, le volontà delle due camere si eliderebbero a vicenda e la legislatura si dovrebbe subito interrompere con uno scioglimento. Il rischio di maggioranze difformi, evitato per un soffio con i risultati elettorali del 9 e 10 aprile, avrebbe creato ulteriori complicazioni politiche per l’elezione del nuovo capo dello Stato, e conseguenti gravi complicazioni giuridiche per lo scioglimento delle stesse camere.

La legge vigente prevede ben sei soglie di sbarramento, differenziate tra l’uno e l’altro ramo del parlamento, a seconda della propensione dei singoli partiti a coalizzarsi e della loro consistenza elettorale. L’obiettivo di scongiurare la frammentazione è perseguito con strumenti che violano il principio costituzionale di eguaglianza (non delle liste cui si applica la soglia rispetto a quelle cui non si applica, ma fra le liste cui la soglia si applica).

La legge non offre nessuna garanzia che i partiti coalizzati alle elezioni per ottenere il premio di maggioranza restino insieme in corso di legislatura. Non vale obiettare che, a questo fine, si possono modificare i congegni della forma di governo in via di revisione costituzionale. Come vedremo più avanti, sistemi elettorali diversi da quello in vigore possono assicurare maggiore stabilità alle coalizioni parlamentari in corso di legislatura; e lo strumento impiegato (sistema elettorale e congegni istituzionali) non è affatto indifferente.

La legge costituzionale n. 1 del 2003 ha aggiunto al testo dell’art. 51, comma 1 della Costituzione («Tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge») la proposizione «A tale fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini». In proposito la Corte costituzionale ha ritenuto «doverosa l’azione promozionale per la parità di accesso alle consultazioni» (sentenza 49/2003). Ma nella legge elettorale del 2005 non c’è traccia di questa azione promozionale.

La riforma elettorale ha reintrodotto lo scrutinio di lista con il meccanismo delle liste bloccate, eliminando i collegi uninominali. La differenza fra la legge in vigore dal 1993 e quella vigente non consiste nella modalità di designazione dei candidati alle elezioni, designati in tutti e due i casi da partiti politici. Consiste, invece, nel fatto che il collegio uninominale rende molto più visibile all’elettore la personalità del candidato di quanto non possa fare la lista bloccata. Non a caso, la campagna elettorale del 2006 si è caratterizzata per una forte spersonalizzazione della competizione: in moltissimi casi, la collocazione nella lista corrispondeva a una vittoria o a una sconfitta certa del candidato. Il fatto che «già si sapesse» chi avrebbe vinto ha depresso il significato democratico della competizione. D’altra parte, il meccanismo delle preferenze suggerito da qualche nostalgico del centrodestra, invece di incoraggiare la personalizzazione della competizione, riprodurrebbe le cordate fra candidati che tutti ricordiamo, espressione di correnti di partito. Occorre invece ripristinare il collegio uninominale, innestandolo in un nuovo disegno riformatore.

Da quando Berlusconi e altri esponenti del centrodestra hanno dichiarato di averlo voluto solo per vincere le elezioni, questo sistema elettorale deve ufficialmente considerarsi uno strumento di parte.

L’Unione ha espresso nel suo programma il favore per un sistema elettorale «che assicuri insieme la rappresentanza e la governabilità: due valori che devono coesistere perché la prima senza la seconda non assicura effettività alla scelta degli elettori e la seconda senza la prima si trasforma in puro esercizio di comando. Non seguiremo l’esempio del centrodestra imponendo un ‘nostro’ sistema elettorale, ma lavoreremo per un sistema elettorale che assicuri tutti questi valori».

Una riforma con le sole forze parlamentari della maggioranza uscita dalle urne sarebbe in contrasto con queste convinzioni, oltre che irrealistica. Ma come arrivare a una riforma elettorale condivisa? Quale sistema, nello specifico contesto italiano, sarebbe in grado di assicurare meglio «rappresentanza e governabilità»? E quali altri aspetti andrebbero considerati?

Alla prima domanda oggi è impossibile rispondere. Il clima fra i due schieramenti è pessimo, ed è difficile immaginare se, quando e come potrà migliorare. In attesa di una finestra di opportunità, come si dice, sarà bene affrontare subito le altre due questioni.

Anzitutto, lo stato di salute del nostro bipolarismo. È condivisibile la tesi di Mauro Calise, che Silvio Berlusconi sia stato l’artefice dell’assetto bipolare.1 La creazione del cartello di centrodestra precedette le elezioni del 1994 e fu determinante per la sua vittoria di allora; solo dopo aver appreso la lezione il centrosinistra diede vita all’Ulivo. Senza quel cartello, la legge elettorale del 1993 non avrebbe assicurato un effetto maggioritario. E il fatto che nelle ultime tornate gli elettori si siano dimostrati affezionati al bipolarismo non basta a garantirne la tenuta nel caso il cartello dovesse entrare in crisi. In ogni caso, né la legislazione elettorale del 1994 né quella del 2005 sono in grado di contenere le spinte centrifughe manifestatesi in corso di legislatura dal 1994 in poi, come conseguenza di benefici posizionali assicurati a partiti estremisti determinanti per la sopravvivenza delle maggioranze parlamentari.

Le prestazioni del sistema elettorale vanno poi misurate in una scacchiera più vasta: le modifiche della forma di governo, da attuarsi o meno con revisione costituzionale, i processi di aggregazione partitica e le modalità di designazione delle candidature alle cariche elettive che si sono affacciate negli ultimi anni.

Quando si riformano i sistemi elettorali, si affrontano problemi distinti da quelli delle riforme delle istituzioni. Le riforme elettorali strutturano il sistema di trasformazione di voti in seggi: con esse si può sperare di conformare almeno in parte il sistema politico, di incidere su numero, dimensione e disposizione nello schieramento degli attori politici che si presentano nella competizione elettorale. Le modifiche della forma di governo scontano numero, dimensione e dislocazione delle forze politiche, e regolando diversamente i rapporti tra istituzioni (parlamento, governo, presidente della Repubblica) incidono sui comportamenti costituzionali dei rispettivi titolari. Riforme elettorali e della forma di governo possono combinarsi fino a raggiungere complessivamente un effetto utile, purché non si confondano i rispettivi oggetti.

Nella passata legislatura, le proposte di riforma delle istituzioni erano partite dal presupposto che una riforma elettorale fosse politicamente impraticabile e/o pericolosa, e hanno così finito col caricare la riforma delle istituzioni di aspettative che andavano riferite almeno in parte alla riforma elettorale, affrontando a valle, cioè con accorgimenti istituzionali, tutto il problema della scarsa coesione delle maggioranze e dei rischi di cambiamenti di collocazione parlamentare in corso di legislatura. Peraltro, a parte la scorrettezza metodologica dell’impostazione, nell’ultima parte della legislatura si è visto che il presupposto era sbagliato. Il timore del centrosinistra di toccare la legge elettorale scontava la certezza che essa non sarebbe stata modificata dalla sola maggioranza. Invece il centrodestra, oltre ad approvare una riforma della Costituzione che concentra nel primo ministro il potere di scioglimento e limita la possibilità di sfiducia ai soli parlamentari della maggioranza, ha approvato la riforma elettorale che abbiamo esaminato. Non si può negare una perversa coerenza fra proliferazione delle liste e premierato assoluto.

Ora le questioni della riforma elettorale e della riforma della forma di governo si ripresentano nuovamente insieme, e si può quindi tornare a distinguere gli effetti attesi dall’una e dall’altra. Si può partire dalla necessità di rendere più coesi gli schieramenti con una riforma del sistema elettorale, in modo da riservare al riassetto istituzionale il compito suo proprio, che è quello di canalizzare i comportamenti costituzionali delle istituzioni politiche entro argini predeterminati.

Occorre allora escludere sia un ritorno al sistema maggioritario a turno unico, i cui effetti maggioritari sono troppo aleatori, visto il numero e la dislocazione sistemica e territoriale dei partiti italiani, sia un sistema proporzionale anche corretto da soglie di sbarramento, che ridurrebbe la frammentazione ma non scongiurerebbe una dislocazione al centro di alcune forze politiche.

La soluzione più ragionevole consiste nel doppio turno di collegio, accompagnato dalla destinazione di una piccola quota di seggi per partiti che non intendano coalizzarsi con nessuno dei due schieramenti maggiori («diritto di tribuna», secondo quanto a suo tempo proposto per la Francia da Georges Vedel). Un disegno di legge governativo, discusso in parlamento ma non approvato nella XIII legislatura, aveva aggiunto anche un piccolo premio di maggioranza. Il progetto aveva previsto per il rinnovo della camera l’assegnazione di una quota del 90% dei seggi ai candidati che avessero ottenuto il 50% più uno dei voti in altrettanti collegi uninominali, salvo il ricorso al doppio turno nel caso in cui tale percentuale non fosse stata raggiunta da nessun candidato. Il restante 10% dei seggi veniva assegnato: a candidati che non intendessero presentarsi nei collegi uninominali in ragione di 23 seggi, a garanzia della rappresentatività della camera; alla coalizione vincitrice in ragione di 23 seggi, a garanzia della stabilità di governo; ai migliori perdenti nei collegi uninominali per la parte residua. Per il rinnovo del senato, un disegno di legge governativo presentato contestualmente prevedeva l’introduzione del doppio turno, ferma restando la disciplina per l’attribuzione degli ulteriori seggi, e l’eliminazione dello scorporo.2

Il doppio turno di collegio avrebbe il vantaggio di spostare la scelta dei partiti per uno dei due schieramenti in competizione dalla fase della presentazione delle liste per il turno elettorale unico all’intervallo fra il primo e il secondo turno. La scelta sarebbe operata di fronte agli elettori, compresi coloro che quel partito abbiano votato al primo turno. Sarebbe più trasparente e nello stesso tempo più impegnativa, col risultato di rendere corrispondentemente più onerosa, di fronte all’elettorato, l’eventuale decisione di cambiare schieramento in corso di legislatura. D’altra parte, i partiti che sentissero di dover solo rappresentare certe opinioni in parlamento senza impegnarsi in un’azione di governo (o di opposizione destinata potenzialmente a sostituirlo) potrebbero farlo, concorrendo fra loro per l’assegnazione dei seggi riservati al «diritto di tribuna».

Un sistema del genere convoglierebbe preventivamente la scelta dei partiti in un doppio binario: l’adesione a uno schieramento potenzialmente maggioritario o la pura rappresentanza. In questo caso, un’eventuale decisione di cambiare schieramento in corso di legislatura sarebbe scoraggiata grazie al maggior effetto selettivo di un sistema a doppio turno di collegio, nonché, come si è detto, grazie al timore di esporsi all’accusa di tradimento da parte degli elettori che avevano votato per quel partito al primo turno e che avevano condiviso l’apparentamento dello stesso partito ad un certo schieramento al secondo turno.

Proprio in presenza di queste condizioni, ci si può chiedere se la revisione costituzionale del disegno della forma di governo debba essere finalizzata ad impedire in ogni caso i cambiamenti di schieramento in corso di legislatura, o a regolare quei rari cambiamenti che potrebbero verificarsi. Se si risponde nel secondo senso, che appare più ragionevole, la riforma elettorale ipotizzata potrebbe trovare il proprio complemento nell’introduzione del meccanismo della sfiducia costruttiva, secondo quanto proposto nel programma elettorale dell’Unione.

Nell’esperienza tedesca questo meccanismo è stato utilizzato una sola volta (nel 1983), il che dimostra non l’inutilità ma l’alto grado di deterrenza del meccanismo, che in presenza di altre condizioni ha assicurato un’alternanza alla guida del governo e una sufficiente coesione delle maggioranze parlamentari dagli anni Settanta dello scorso secolo fino alle elezioni del 2005. In secondo luogo, il fatto che la sfiducia costruttiva votata nel 1983 dai liberali della FDP portò rapidamente ad elezioni politiche, che confermarono la maggioranza della coalizione CDU-FDP, dimostra che in casi ben delimitati il cambiamento strategico di linea di un partito può essere legittimato dagli elettori anche se si manifesti in corso di legislatura. Infine, l’obiezione che la Germania è tornata alla Grosse Koalition dimentica che ci è tornata dopo oltre trenta anni di alternanza, e per ragioni che nulla hanno a che vedere con la sfiducia costruttiva.

Non si vede perché, una volta ottenuti schieramenti parlamentari sufficientemente coesi al loro interno grazie a una riforma del sistema elettorale, si debba escludere l’ipotesi, che sarebbe a quel punto eccezionale, di un cambiamento di schieramento parlamentare in corso di legislatura, che imporrebbe al partito che se ne facesse promotore una chiara assunzione di responsabilità di fronte al corpo elettorale.

È stato detto che un sistema a doppio turno accelererebbe la formazione di nuove aggregazioni politiche, quali il Partito democratico a sinistra e un partito moderato a destra.3 Anche se è difficile dire oggi cosa potrebbe venire prima, l’ipotesi di un circolo virtuoso fra introduzione del doppio turno e aggregazione dei partiti sembra più che verosimile.

Molto spesso, a scoraggiare l’aggregazione in una famiglia politica più grande, non è tanto il dubbio sulla bontà dell’operazione quanto il timore di perdere qualcosa che si pensa di avere acquisito per sempre. Per alcuni aspetti (identità ideologiche, apparati), questo timore non ha più senso da anni. Per altri (rendite elettorali di posizione, fasce di elettorato), perlomeno per quanto riguarda il Partito democratico, non ha più ragion d’essere dopo che i risultati elettorali hanno dato all’Ulivo alla camera oltre tre punti percentuali in più che al senato, dove i due partiti dell’Ulivo si sono presentati da soli. Il che spiega la successiva scelta di dar vita a un unico gruppo parlamentare alla camera e al senato.

Il bisogno di grandi partiti, non di cartelli elettorali, è vitale per la democrazia italiana e non solo per il bipolarismo. Servono nuove risposte alle attese del futuro, che sintetizzino senza ridurle a slogan elettorali le visioni politiche dei grandi temi della convivenza, a cominciare dalla diversa declinazione del rapporto fra libertà ed eguaglianza dei moderati e dei riformisti.

Il dibattito sulla nuova legge elettorale si inscrive anche in questa prospettiva, e il doppio turno di collegio può meglio di altri sistemi convogliare le identità politiche in aggregati più ampi ma anche fra loro ben distinguibili. Ciò dipende dalla scansione in due turni della consultazione elettorale e dagli effetti che produce sul comportamento degli elettori. Mentre al primo turno l’elettore vota per la lista del partito in cui si riconosce maggiormente, comportandosi come in un sistema proporzionale puro, al secondo turno, dove le opzioni di voto si riducono di solito a due, l’elettore tende a votare per la lista meno lontana dai suoi orientamenti politici. Inoltre, la scansione in due turni costringe i partiti ad accordarsi fra loro, tramite confluenze nella medesima lista o attraverso desistenze, all’indomani del primo turno. L’argomento che il doppio turno suscita così un «mercato» dei partiti minori che «si vendono al miglior offerente» è inconsistente. Quando l’assetto è multipartitico e il sistema è maggioritario, gli accordi interpartitici sono inevitabili: ma mentre nel sistema a turno unico vengono effettuati riservatamente prima della consultazione elettorale, in quello a doppio turno si svolgono fra un turno e l’altro sulla base dei risultati ottenuti da ciascun partito e non di quelli presunti, dunque in modo necessariamente più trasparente. Se ne avvantaggiano la vita politica e la democrazia.

La questione della designazione dei candidati alle elezioni si collega strettamente a quella della riforma elettorale. Di recente, nello schieramento di centrosinistra si sono sperimentate elezioni primarie per la designazione del leader della coalizione e dei candidati alla elezione di presidente della regione in Sicilia e in Puglia. Le ragioni erano diverse. Nel primo caso si trattava di garantire una forma di legittimazione «dal basso» a Romano Prodi, che i partiti avevano già candidato alla guida della coalizione, nel secondo occorreva rimettere agli iscritti ai partiti e ai simpatizzanti per la coalizione scelte su cui si era manifestato un disaccordo fra i partiti. Ma il processo che ha portato alle primarie, con la presentazione di un candidato espressione di una diversa posizione politica all’interno della coalizione come Fausto Bertinotti, e soprattutto il loro risultato, con la straordinaria partecipazione popolare che si è registrata, hanno mutato il segno delle consultazioni. La vicenda delle primarie si è rivelata molto più seria di quanto pensassero quasi tutti i dirigenti e commentatori politici. Fasce di cittadini molto più ampie degli iscritti e dei militanti affezionati alla politica l’hanno vista come un investimento di partecipazione democratica, dimostrando che la qualità della democrazia è strettamente connessa alla strutturazione dell’offerta politica e che la «deriva plebiscitaria» non è un destino inevitabile.

Alcuni mesi dopo, la designazione dei candidati alle elezioni politiche si è invece svolta in ambedue gli schieramenti secondo priorità stabilite all’interno dei singoli partiti. Non è detto che la lista bloccata prevista dalla legge elettorale abbia imposto questo modo di procedere, o abbia in qualche misura funzionato da alibi. In ogni caso, il contrasto con la recentissima esperienza delle primarie non potrebbe risultare più chiaramente, e conferma che finora i partiti hanno fatto ricorso alle primarie solo come strumento per sbloccare un’impasse interna. Gli esiti dovrebbero però aver dimostrato che la designazione dei candidati da parte dei cittadini può svolgere soprattutto la funzione, molto più importante e meno congiunturale, di rafforzare la legittimazione dei partiti, altrimenti in calo verticale.

A questo punto, istituzionalizzare le primarie per designare il leader della coalizione e i candidati alle presidenze delle regioni conviene allo schieramento che le ha già sperimentate (mentre disciplinare le primarie con legge sarebbe possibile solo se l’altro schieramento fosse disponibile). Una misura del genere si combinerebbe bene con il ripristino dei collegi uninominali che deriverebbe dalla riforma elettorale. In un caso e nell’altro, con strumenti diversi, circuiti nuovi o rinnovati di partecipazione democratica porrebbero fine alla diatriba fra «professionisti della politica» e «società civile», che si protrae sempre più stancamente da oltre dieci anni.

Naturalmente, come per l’aggregazione dei partiti in formazioni più ampie, anche nel caso dell’istituzionalizzazione delle primarie i partiti esistenti dovrebbero rinunciare a una quota di potere. Ma ormai è la nostra esperienza, non il solo richiamo a lontane esperienze, a dimostrare che questa rinuncia sarebbe più che compensata.

Le scelte dei partiti sulla riforma elettorale, sulla loro capacità di stare insieme e sulla designazione delle candidature interagiscono l’una con l’altra, e sono sotto i riflettori di cittadini che non andrebbero a fare girotondi, ma sono consapevoli della posta in gioco.

 

Bibliografia

 

1 M. Calise, La Terza Repubblica. Partiti contro Presidenti, Laterza, Roma-Bari 2006, p. 3 e sgg.

2 Si tratta dei due d.d.l. AS n. 3811 e n. 3812 del 1999, presentati dal governo D’Alema e noti come «progetto Amato», all’epoca ministro per le riforme istituzionali.

3 M. Bordignon, G. Tabellini, Il match point del doppio turno, https://www.lavoce.info, 20 aprile 2006.