Il futuro siciliano

Written by Roberto Tagliavia Wednesday, 01 March 2006 02:00 Print

È possibile immaginare una Sicilia in cui le tre grandi città metropolitane (Palermo, Catania e Messina) integrino i servizi, quasi fossero un sistema unico, puntando per il proprio sviluppo sulle tre università esistenti? È possibile immaginare una politica regionale che aiuti queste stesse università a integrarsi e, piuttosto che a moltiplicare i corsi, ad elevarne la qualità, guardando al Mediterraneo più che alla sola Sicilia, incoraggiando e coordinando alcune tendenze già in atto? È immaginabile per la sanità siciliana una politica regionale di investimenti che guardi, appunto, al bacino mediterraneo e africano, sui modelli del centro trapianti (ISMETT) e del centro ustioni dell’Ospedale civico di Palermo?

È possibile immaginare una Sicilia in cui le tre grandi città metropolitane (Palermo, Catania e Messina) integrino i servizi, quasi fossero un sistema unico, puntando per il proprio sviluppo sulle tre università esistenti? È possibile immaginare una politica regionale che aiuti queste stesse università a integrarsi e, piuttosto che a moltiplicare i corsi, ad elevarne la qualità, guardando al Mediterraneo più che alla sola Sicilia, incoraggiando e coordinando alcune tendenze già in atto? È immaginabile per la sanità siciliana una politica regionale di investimenti che guardi, appunto, al bacino mediterraneo e africano, sui modelli del centro trapianti (ISMETT) e del centro ustioni dell’Ospedale civico di Palermo?

È proprio necessario parcellizzare la spesa tra le grandi strutture culturali dell’isola, anziché attivare un grande e qualificato centro di produzione (per l’opera, il teatro, il cinema, la televisione), utilizzando poi i tre grandi teatri d’opera e la rete dei teatri di provincia per la circolazione di lavori pensati per un bacino d’utenza più vasto, sufficiente a supportarne i costi?

Si può mettere in cantiere un piano di trasporto regionale «ultraveloce» che renda le tre metropoli fruibili per lavoro e per svago come un unicum (lavorare a Palermo, assistere a un concerto a Catania e dormire a Messina), integrando ciascuna area al suo interno con una rete efficiente di trasporto metropolitano, utilizzando, come già fanno in Campania, tutti i diversi mezzi che la tecnica mette oggi a disposizione per superare distanze e dislivelli? Possiamo, attraverso questo piano dei trasporti, ripensare le nostre città e riprogettarle non solo attraverso il recupero del costruito più antico, ma anche con una potente iniezione di architettura moderna e sperimentale? Per quanto ancora dovremo attendere un Piano energetico regionale? E tutto questo è possibile farlo senza mettere mano a un importante progetto di formazione permanente, mirato sui quadri da formare piuttosto che, come succede oggi, sull’occupazione dei formatori e a prescindere dal contenuto e dalla qualità dei corsi?

Ma torniamo alla nostra università: è di pochi mesi fa la notizia di alcuni prodotti elaborati da ricercatori sui materiali della facoltà di ingegneria di Palermo che aprono interessantissime opportunità per tutta l’area mediterranea, così interessata da fenomeni sismici e alla ricerca di materiali resistenti, leggeri e poco costosi. Come è possibile passare dalla ricerca alla pratica, aiutando le imprese edili a impadronirsi di queste nuove tecniche? Anche in questo caso si tratta di un problema di formazione.

Ma la mente mi porta ancora più indietro, a quasi cinquanta anni fa, quando il dipartimento dei trasporti della stessa facoltà di ingegneria di Palermo divenne noto per avere prodotto un «treno-razzo». A parte la terminologia dell’epoca, forse i tempi non erano maturi per simili avventure, ma se quelle ricerche fossero proseguite secondo un piano regionale, con la precisa volontà politica di assicurare alla popolazione siciliana livelli di mobilità di altissima efficienza, quale sarebbe oggi nel palermitano lo stato delle industrie di materiale rotabile, dell’aeronautica e della cantieristica navale, della costruzione di autobus e di automobili, che in questi anni, invece, hanno conosciuto un declino progressivo e desolante?

Oggi avremmo verosimilmente un’isola più attraente e funzionale, avremmo industrie solide e avanzate in grado di competere sul piano del trasporto pubblico mondiale tanto quanto i giapponesi o i franco-tedeschi. A Palermo e nelle altre città siciliane il problema non sarebbe più «il traffico» (come recitava Johnny Stecchino) e ricercatori, ingegneri e operai avrebbero lavoro assicurato non solo dal mercato interno, ma anche da quello internazionale, per la domanda dei grandi conglomerati urbani del Mediterraneo e del Sud del mondo.

Ancora quaranta anni fa, forse, non sarebbe stato possibile avviare un’operazione di tale portata anche per via del monopolio delle Ferrovie dello Stato (anche se l’autonomia speciale siciliana avrebbe dovuto spingere a una maggiore intraprendenza!), ma è da tempo che il nuovo contesto europeo rende possibili joint venture e privatizzazioni utili a costruire sistemi di trasporto autonomi, e la stessa legislazione favorisce l’intervento regionale (la Lombardia è già al secondo piano ferroviario) che la Sicilia, proprio per la sua autonomia speciale, avrebbe sicuramente potuto già attivare.

Abbiamo avuto, invece, il progressivo ripiegamento della regione verso una impropria funzione di ammortizzatore sociale, con una pressione, oggi fuori misura, per il «posto» pubblico e una domanda scriteriata di sovvenzioni e interventi d’urgenza per il salvataggio di settori in crisi e di produzioni obsolete. È un cane che si morde la coda.

La regione è mancata al proprio compito. È mancata una guida politica e istituzionale capace di orientare le risorse, guardando più lontano di quanto non possa fare il singolo cittadino. Così in Sicilia si combatte ancora con il completamento della rete autostradale siciliana e il doppio binario (da fare!) sulla linea Messina-Palermo, con il traffico caotico nelle grandi aree metropolitane, con il dissesto dei grandi teatri siciliani (dal Massimo di Palermo al Bellini di Catania), con la vita grama delle tre università, che vivono l’autonomia finanziaria in modo drammatico per le ristrettezze di un’economia e di un’industria siciliana ridotta al lumicino, in piena crisi nei suoi punti di forza (petrolchimico, estrattivo, mezzi di trasporto) e incapace di avviare seri programmi di ricerca con le stesse università locali.

Questo è un tempo, invece, in cui o si cambia passo o si muore. Né vale più contrapporre la questione della «emergenza sociale» ogni volta richiamata per giustificare quella politica assistenziale che dilapida e congela risorse, sottraendole a una visione produttiva e socialmente utile.

È, invece, una forte iniezione di fantasia e coraggio ciò che serve: la riorganizzazione del territorio, delle sue funzioni e dei servizi, una diversa fruizione degli spazi, delle aree e dei volumi delle nostre città, compreso il recupero e la salvaguardia ambientale. Sono queste le cose che possono rimettere in circolo risorse, fare respirare l’economia e offrire occasioni d’oro per rilanciare e qualificare l’edilizia. Proprio il settore che può offrire la risposta più rapida all’emergenza sociale, utile per assorbire domanda di lavoro diffusa e sostenere lo stesso artigianato locale, avviandolo verso ulteriori standard di qualificazione.

Ciò che serve è una coraggiosa dinamizzazione della società siciliana, da ottenere liberando risorse ed energie, mettendo in discussione assetti consolidati, offrendo nuove possibilità a chi ha voglia di costruire un futuro diverso, mantenendo il tutto entro un solido disegno di recupero e valorizzazione dell’ambiente e del territorio, smettendola di inseguire cicli speculativi (come ha sempre proposto la destra) che lasciano poi disastri economici, sociali e territoriali.

Per fare tutto questo dobbiamo mettere al centro la domanda sociale, il bisogno di mobilità, di cura e di abitazione dei siciliani, avendo occhio non solo al contesto nazionale in cui operare ma anche a quello internazionale, da cui trarre risorse e ispirazione e a cui offrire opportunità, beni e servizi: partire dalla domanda sociale dell’isola per andare oltre.

Un esempio, oltre quello dei trasporti, è dato dalla sanità. Nessuno dice che, con le risorse che abbiamo a disposizione, questo sistema sanitario non può reggere; la verità è che fra qualche anno non potremo più garantire l’assistenza sanitaria generale e diffusa così come la conosciamo oggi. L’unica soluzione, individuata già da tempo in altri contesti, è l’offerta di sanità all’estero e la creazione di strutture in grado di offrire servizi a domanda proveniente dall’estero. La Sicilia, per la sua collocazione geografica è in una posizione invidiabile: gli americani di Pittsburgh quando hanno deciso di investire in Sicilia per la creazione di un centro trapianti mediterraneo (l’ISMETT, appunto) hanno semplicemente dato seguito a questa ovvia evidenza. Se seguissimo l’esempio francese (Lione e Parigi) o quello spagnolo (Barcellona) molto verosimilmente contribuiremmo a un ulteriore salto qualitativo della medicina siciliana, porremmo fine della marginalizzazione del personale e dei meccanismi che producono malasanità, e sicuramente avremmo un ritorno economico utile a garantire quella assistenza di base che è un elemento fondamentale di solidarietà, di sicurezza e di giustizia sociale.

Tutte condizioni indispensabili per un ordinato sviluppo economico e per rendere la nostra regione attrattiva per i più diversi insediamenti di natura commerciale, artistico-culturale, tecnico-scientifica o industriale. Allora, perché tutto questo non decolla? Eppure queste cose sono state dette e scritte almeno da dieci o quindici anni. Cosa impedisce di mettere insieme energie e risorse, che pure in Sicilia ci sono o sono disposte a tornare? Il mal sottile è la sfiducia diffusa. L’idea che gli egoismi di ciascuno impediscano di organizzarsi, di fare sistema, di calibrare, dosare e distribuire nel tempo le risorse e gli sforzi in vista di risultati condivisi. Non si riesce a mettere in campo «progetti lunghi». Soprattutto incombe l’idea che «non ce lo faranno fare», che equilibri politici e interessi nazionali e internazionali fuori dalla nostra portata decideranno per noi, utilizzando quegli «ascari» locali che sono sempre pronti a servire interessi forti. La storia di cinquant’anni di autonomia speciale, infatti, è storia di un perverso scambio tra la classe dirigente nazionale e quella locale: non spingere l’autonomia fino alle sue più mature conseguenze in cambio di denaro e assicurarsi una copertura nazionale per avere mano libera in Sicilia in cambio di voti, di tanti voti.

Ci sono state serie motivazioni internazionali e strategiche dietro questa storia, ma così è stato selezionato un personale politico assolutamente subalterno e acritico rispetto ai diversi confronti nazionali; un personale inadeguato a quei grandi progetti di cui la Sicilia ha bisogno ma, semmai, abile nell’intuire chi avrebbe vinto quei confronti piuttosto che nel prendere posizione in merito. In nome di questa sorta di franchising politico si è poi instaurato con i cittadini un rapporto di caporalato, fondato sulla possibilità di convogliare risorse nelle diverse province siciliane in cambio, appunto, di quantità massicce di voti. Sicché il voto siciliano è divenuto merce di scambio: la risorsa, «il prodotto» più richiesto, più utile, più esportabile! È stato in questo modo che il notabilato, che pure esiste in tutto il territorio nazionale, qui è divenuto sceiccato, con conseguente asfissia della vita democratica, con una dipendenza sempre maggiore dai flussi di finanziamento pubblico, la mortificazione dell’imprenditoria e la sua sostituzione con la genìa degli appaltatori.

Il voto di scambio è così diventato tratto distintivo non solo di una classe politica corrotta ma di una intera società che non crede e non spera più in un proprio ruolo, in uno spazio utile nella comunità nazionale. È un punto politico grave, di cui non vedo grande consapevolezza in giro. Eppure, di una tale regressione si ha testimonianza in innumerevoli intercettazioni e in inchieste che hanno riguardato diversi enti locali siciliani.

Fatto ancora più grave, l’appartenenza emerge come massimo valore sociale. Sapere a quale «famiglia» fare riferimento, quali «amicizie» coltivare, di quale «clan» far parte, è tornato a caratterizzare in modo diffuso e capillare il costume della società siciliana a tutti i livelli e, quel che fa più male, anche di buona parte dei giovani. È una regressione, dicevo, ma lo è verso forme tribali che spingono a fuoriuscire dalla civiltà e dalla storia d’Occidente, creando le condizioni di una ulteriore area «balcanizzata» (o libanesizzata), nel cuore del Mediterraneo. La devastazione è profonda, lo stesso diritto ha perso credibilità. A molti appare risibile l’idea che possa esistere un’autorità in grado di garantire e tutelare i deboli, con indipendenza. Credere nel diritto appare una ingenua romanticheria che non aiuta in un mondo fatto di Parmalat, di Enron, di traffici illeciti coperti da ragion di Stato, di amicizie e solidarietà di casta. Pure la contrapposizione politica appare fittizia, nulla più di una copertura propagandistica di interessi ben più materiali, di «famiglie» in lotta per la supremazia.

Si è rotto ulteriormente qualcosa nel patto nazionale che segnò il Risorgimento. Le ragioni, la cultura, il sistema istituzionale nazionale è stato messo duramente alla prova sul piano dell’economia, della giustizia, della lotta alla criminalità e ne è uscito male: c’è il senso dello sfaldamento di una intera classe dirigente nazionale.

È a questa società così sfiancata che, invece, parla Cuffaro con la sua politica degli abbracci e dei baci, con l’insistenza sulla «famiglia» come perno e cifra della politica (l’Assessorato per gli enti locali è divenuto formalmente l’Assessorato per la famiglia e gli enti locali). A questa isola ha parlato anche Berlusconi che, con la sua sfrontatezza e irriverenza verso le regole, è potuto apparire paradossalmente più autentico e innovativo, meno ipocrita: uno che dice le cose come stanno e non si ferma davanti a nessuno pur di affermare il suo clan: un vero leader! In questo quadro anche i finanziamenti perdono ogni legame con i progetti e i progetti si separano dai bisogni. Si decide un’opera per intercettare quel tale finanziamento, per far girare il denaro, per accontentare i propri «clienti», garantire gli amici; poco importa se l’opera sarà finita, se ricompenserà la spesa, se tornerà utile alla comunità. Ed è anche in questa logica che si è costruito il sistema sanitario di Cuffaro e si è organizzato l’assalto ai fondi per la formazione professionale.

Questa degenerazione, purtroppo, ha riguardato anche il popolo della sinistra ed esponenti di spicco della politica regionale sono arrivati a teorizzare (come fosse una novità e non ricordando il ruolo nefasto del vecchio notabilato democristiano) che la funzione del politico deve essere quella di collettore di risorse e finanziamenti. Quel che è peggio è che questo viene spacciato per realismo riformista, solo perché quei finanziamenti sarebbero diretti da «noi» e andrebbero ai «nostri». È del tutto evidente che con una simile logica, che aderisce e conferma i presupposti del «familismo immorale», è molto difficile cambiare le cose, attivare energie, essere utili al paese e combattere nel profondo i meccanismi antropologici e sociali che determinano il permanere della mafia. Diventa impossibile colpire il nodo essenziale della conservazione: quel «sono tutti uguali» che è alla base della sfiducia e dell’infiacchimento della società siciliana.

Si risponde: «la Sicilia non è Milano e la sua arretratezza obbliga a questa politica che è l’unica capace di suscitare consenso». Non sono d’accordo: è vero il contrario! C’è bisogno di proporre le condizioni di un nuovo patto sociale, di definire obiettivi e regole, e con questo l’evidente bisogno di una forza politica che metta insieme energie in coerenza con quegli obiettivi di trasformazione e sviluppo che abbiamo accennato all’inizio. È possibile?

La sinistra tradizionale, i DS in modo particolare, costituiscono ancora oggi un punto rilevante di aggregazione. Quelle stesse ipotesi di lavoro, poste all’inizio del mio ragionamento, sono maturate proprio in una intensa vita di partito, di riflessioni comuni, di sollecitazioni colte in anni di incontri culturali, politici e sindacali che, nel PCI prima e nei DS dopo, hanno offerto a centinaia di cittadini (tra cui il sottoscritto) occasione di confronto di altissimo valore. Tuttavia, anche in questo contesto e nonostante l’organizzazione, limiti ideologici e degenerazioni corporative ed elettoralistiche hanno impedito di passare alla concreta costruzione di quei progetti, di mettere insieme persone, interessi, esperienze e competenze, risorse, in gruppi di lavoro operativi.

C’è dunque un nodo politico che strozza le potenzialità di sviluppo e a questo bisogna mettere mano. Sono convinto, per queste ragioni, che in Sicilia più che in altre regioni ci sia bisogno di un contenitore politico nuovo che metta insieme uomini e donne di formazione culturale differente. Proprio la laicità a cui obbliga una simile convivenza è la condizione migliore per spezzare quella logica di appartenenza alla tribù, quei settarismi, quei limiti ideologici e classisti che fin qui hanno impedito di unire le forze sane, democratiche e di progresso, di innervare la società siciliana di una diffusa etica del diritto e di esprimere una nuova vera cultura di governo.

Il tema del partito democratico, dunque, qui assume una urgenza e una valenza particolari perché il fenomeno del «cuffarismo», la sconfitta della sinistra per sessantuno a zero dimostrano il permanere di uno sperdimento della società siciliana.

La Democrazia Cristiana, sessanta anni fa, seppe trovare la cifra giusta per una società agricola e arretrata che usciva dalla guerra e seppe accompagnare i siciliani nella ricostruzione, in un paese che da agricolo diventava rapidamente industriale. In qualche modo quella DC, per quel patto sciagurato di cui abbiamo parlato prima, mantenne anche un forte elemento di arretratezza e questo, a un certo punto, è divenuto insopportabile. La ribellione di Orlando si spiega così, e così si spiegano le sue straripanti maggioranze che erano sempre dentro una cultura democratico-cristiana.

La Sicilia ha dimostrato di volere il cambiamento e alla fine non ha più avuto pregiudizi: ha dato grande ruolo ai sindaci democratici e molti di questi, soprattutto nei comuni minori erano tutti quadri formatisi nel PCI.

Ma né Orlando, né Bianco, né i comunisti andati al governo della regione, né i sindaci democratici seppero dare vita a una credibile nuova politica di governo, né sono stati capaci di uscire dal localismo e hanno finito col riproporre, più o meno, gli stessi percorsi dell’assistenzialismo, dello statalismo dalla regione siciliana e del clientelismo. E questo spiega la sconfitta del sessantuno a zero.

Ma ora, chi accompagnerà i siciliani nell’Europa e nel mondo di oggi, con regole nuove e diverse, inconciliabili col vecchio assistenzialismo e clientelismo? La paura del futuro, l’incertezza, la mancanza di speranza spiegano il ripiegamento sul «già visto», su Cuffaro o sull’avventura berlusconiana, ma danno anche la misura della sfida cui siamo di fronte.

I vecchi partiti e le vecchie classi dirigenti hanno dato fondo al barile e hanno perso credibilità; si avverte la necessità di una forza politica totalmente nuova che unisca le esperienze migliori ma soprattutto sappia guardare al futuro. Serve una sinistra democratica capace di fare ciò che fece la DC siciliana nel dopoguerra: prendere i siciliani per mano e accompagnarli nel mondo nuovo, inventare istituzioni nuove (l’Autonomia speciale), assicurare la possibilità di cambiare la propria condizione di vita. Se questo non ci sarà la Sicilia sarà terra di instabilità e, per la sua posizione strategica, un simile esito non potrà essere tollerato a livello internazionale, con tutte le pesanti interferenze sulla vita dell’isola che ne seguiranno.

Immagino per queste ragioni una nuova sinistra, democratica e di governo. Insisto, di governo, per cambiare davvero, per radicarsi come espressione della maggioranza, come raramente la sinistra ha saputo essere in Sicilia. È pensabile farlo sommando gli stati maggiori dei partiti esistenti, epigoni di forze storiche ormai segnate dalla loro storia? Io penso di no, e lo sradicamento segnato dal sessantuno a zero, per quanto parzialmente recuperato negli anni e nelle elezioni successive, resta come un monito, insieme ai problemi drammatici che ho citato, a ricordarci la dimensione del lavoro che abbiamo davanti.

Questo sradicamento e questo sperdimento sociale non sono presenti nel resto del paese (o almeno non nella stessa dimensione) e tuttavia lì si è già posto e si pone il problema di una forza politica riformista e di governo nuova, perno dello schieramento di centrosinistra. Rendiamoci conto di quanto questo passaggio sia urgente e necessario in Sicilia!

Dunque questo è il primo compito per avviare la trasformazione della Sicilia e incidere sul disagio sociale e culturale, sulla corruzione del senso comune e civico.

Costruire il partito democratico non può essere quindi una somma di gruppi dirigenti esistenti, né può prevedere la loro eliminazione (come qualcuno auspica). Semplicemente deve nascere in funzione dei problemi da risolvere, unendo e recuperando le persone capaci di costruire le strutture della nuova società, della nuova economia; sapendo che non è con i «pannicelli caldi» che la Sicilia recupererà il gap.

Ecco perché ho posto quei progetti così arditi come obiettivo per rivitalizzare la Sicilia ed ecco perché è urgente dotarsi di una forza politica di governo, capace di guidare e coinvolgere larga parte della società in un cambiamento tanto radicale; ecco perché una operazione del genere non può essere affrontata da una forza politica localista. Il senso forte dell’autonomia, come occasione per prendere il destino nelle nostre mani, infatti, non può declinare nella chiusura localistica, perché questa sarebbe espressione delle paure e della ostilità verso il mondo, il contrario di ciò che serve per realizzare quei progetti e mettere la Sicilia in grado di affrontare la sfida del mondo moderno. Serve un collegamento nazionale e internazionale con le forze più dinamiche e del cambiamento, partecipando attivamente nella formazione del partito democratico alla costruzione dell’Italia nuova.

La partecipazione a questa impegnativa avventura nazionale non deve farci venire meno al compito che abbiamo in Sicilia di ricostruire la fiducia dando prospettive e recuperando il nesso tra obiettivi e sistema dell’Autonomia speciale. La regione, altra grande strozzatura dello sviluppo dell’isola ed elemento ormai inaccettabile di spreco per il già pesante debito pubblico italiano, è da riformare profondamente. Pensato prima ancora della nostra Costituzione, lo Statuto dell’Autonomia speciale è oggi uno strumento da rivedere e ripensare in funzione di impegni ed esigenze completamente nuovi.1

Ci dovremo muovere in un mondo globalizzato, nel nuovo contesto europeo, intercettare i flussi provenienti dall’oriente, tenere conto dell’immigrazione e dei problemi culturali e religiosi che ciò comporta; si potrebbe continuare con un elenco infinito che dà la misura di quanto tempo sia passato, di quanta giurisprudenza sia mutata in questi sessanta anni, per capire che così com’è la regione non può andare avanti.

La scadenza elettorale regionale è, a mio parere, una occasione imperdibile per porre ai siciliani la questione con estrema chiarezza: che nella nuova legislatura l’Assemblea regionale siciliana si costituisca quale assemblea costituente della nuova regione siciliana. È un tema, questo, che si sposa con la riflessione sulla devolution e il nuovo assetto dello Stato italiano e che offre la possibilità di collocare su un terreno affatto nuovo il patto tra la Sicilia e il resto del paese.

Il paese ha pagato e paga quel rapporto diffidente e distorto di cui abbiamo parlato e, se un sogno domina sugli altri, vorrei proprio che il tratto di discontinuità di una nuova classe dirigente nazionale nascesse da una riconsiderazione della risorsa Sicilia, come fulcro di una nuova storia d’Italia nei nuovi equilibri mediterranei. Non più piemontesi e Borboni, ma una comunità di regioni unite da interessi e da valori condivisi, da una idea moderna e democratica della società italiana: fare squadra e mettere insieme risorse per stare, con la sufficiente massa critica, dentro il contesto europeo ed essere in grado di affrontare positivamente la competizione internazionale.

Fare questo significa ascoltare e capire la Sicilia che vuole cambiare; significherebbe dare speranza, essere portatori di un sistema efficiente che impedisca i falsi in bilancio, che sciolga e risolva la lunga oscura storia delle trattative tra Stato e mafia, che restituisca valore al diritto e che, democraticamente, dia spazio agli interessi legittimi e alle potenzialità del territorio.

La storia ci dice che la Sicilia cambia quando una seria classe dirigente sa proporre, in un unico nesso, un programma di sviluppo, di regole condivise, di partecipazione e controllo. Quando si creano opportunità per la vita di ciascuno, secondo le rispettive capacità e al di là di qualsiasi appartenenza, dove ognuno come singolo cittadino è efficacemente garantito da leggi e da istituzioni davvero democratiche, lì scatta tutta la potenzialità civile e progressista della Sicilia.

Questa corrispondenza non c’è stata nella misura dovuta e la voglia di cambiamento e di riscatto civile finora ha finito con l’esprimersi in grandi movimenti emotivi (che pure hanno fatto intravedere il fiume di lava che scorre sotto la crosta della presunta immutabilità della società isolana). Ci sono stati alti momenti di sdegno civile, ma è mancata una visione del presente e del futuro, una riorganizzazione degli interessi e delle risorse da cui derivassero nuove regole di comportamento (dalla sicurezza alla credibilità nei commerci, dalla efficienza alla meritocrazia, dalla solidarietà alla fermezza delle regole, alla certezza della pena), come condizione del successo stesso di quei progetti di sviluppo: in una parola, un moderno e coraggioso riformismo.

In questi anni si è finito col parlare di regole senza riferimento alle cose concrete della vita, come assunto ideologico, moralistico, quasi una bandiera identitaria: paradossalmente un’altra «famiglia», quella de «l’altra Sicilia». Di fronte a questa inconcludenza, l’equivoco di un presunto realismo riformista in salsa siciliana è sembrata l’unica alternativa a Cuffaro: ma combattere Cuffaro con le sue stesse armi è una contraddizione in termini. È mancata una riflessione laica (a parte lo sforzo isolato e un po’ datato di Sciascia) sulla natura della crisi della società siciliana. Una occasione mancata anche per riflettere sul modo d’essere del sistema-paese e sugli ineludibili nodi del rinnovamento necessario.

Così, quando si cita la Sicilia scatta in molti una sorta di fastidio. La Sicilia oltre che irredimibile viene percepita soprattutto come un problema irrisolvibile. Per ben che vada è un posto bello, ma tanto inefficiente: è meglio andare altrove. Certamente non è un luogo che attraente per investimenti e lavoro.

Sembra dunque esservi un filtro di lettura della realtà siciliana, anche nella classe dirigente nazionale, che verso la Sicilia mantiene un rapporto di sostanziale incomprensione e diffidenza. La verità è che questa quasi nazione di circa sei milioni di abitanti, pur vivendo male il rapporto con il resto del paese, è al contempo vittima e artefice di un tale disagio.

Il primo passo spetta dunque a noi in Sicilia: saper cogliere le novità profonde e strutturali che possono indurre la comunità nazionale a ripensare il proprio rapporto con il Sud e la comunità internazionale a intervenire per lo sviluppo pacifico del Mediterraneo. Oggi queste novità ci sono.

Il quadro strategico individuato dal centrosinistra per il Sud oggi è la novità favorevole per fare del 2006 l’anno del cambiamento per l’Italia e la Sicilia perché è incentrato sui nuovi assi commerciali marittimi internazionali che stanno rendendo attivo il Mediterraneo.

Dopo cinquecento anni di marginalità, questa parte del mondo torna centrale. Ripensare in questo contesto il sistema-paese in funzione dell’Europa, come un grande porto proteso ad accogliere questi nuovi traffici tra Oriente e Occidente, è una grande intuizione e una occasione per la Sicilia.

Questo disegno va assecondato, ma attrezzare la portualità siciliana o fare il ponte di Messina non basta all’isola. Serve di più. Serve stabilire che in un’area tanto instabile occorre garantire la sicurezza, i servizi, la cultura. È una esigenza internazionale: non ci sono traffici duraturi senza sicurezza, senza servizi efficienti, senza un clima di civile dialogo e pacifica collaborazione. Fare dell’isola una piattaforma logistica del commercio mediterraneo, comporta, quindi e innanzitutto, il ripristino di un ambiente favorevole, di alto livello e qualità, in grado di competere con altre aree del mondo, di attrarre insediamenti economici, finanziari, commerciali, scientifici, di ricerca e artistico culturali adeguati. Perché si dovrebbe venire a Palermo o a Siracusa, a Catania o a Trapani lasciando Hong Kong, o gli Emirati, l’Australia o Parigi? Perché lasciare la Silicon Valley o Los Angeles o San Francisco per la Sicilia, se vicino c’è Roma, Milano, Barcellona, Firenze, Berna o Lione? La sfida però è questa: è una sfida sui servizi, sull’architettura, sull’urbanistica, sui trasporti, sulla sanità, sull’ambiente, sulla praticabilità della ricerca, su un clima laico e liberale di reciproco rispetto.

La sfida non è, se abbiamo ben compreso i meccanismi che saranno indotti dai nuovi traffici, quella di fare dell’isola un paese di benpensanti: è di più, è molto di più. È mettersi al passo per attrarre risorse e intelligenze per offrire ai siciliani e al paese una regione dalle potenzialità uniche. Il punto vero, in una società ingessata com’è oggi quella siciliana, in cui le risorse sono bloccate e le persone sono condannate per generazioni a restare prigioniere del loro status, è quello di restituire dinamismo e contrastare in tutti i modi quella deriva conservatrice che ha narcotizzato la fiducia dei siciliani.

E qui torna l’autonomia speciale della regione. Va potenziata, altro che annacquata! Fin qui abbiamo solo avuto il pianto greco sui mali della regione: siamo anche arrivati a teorizzarne l’abolizione per tornare sotto l’ala di un declinante e improbabile centralismo, assecondando le peggiori pigrizie e deresponsabilizzazioni, mentre il resto d’Europa (compresa l’Inghilterra) riconosceva il ruolo delle autonomie. C’è d’esempio la Spagna, c’è da riflettere sulla Catalogna e sui livelli di grande autonomia che stanno maturando come risorsa e valore aggiunto di quel sistema-paese.

Bene, il rinnovo dell’Assemblea regionale deve essere l’occasione per chiedere una assemblea regionale costituente, una legislatura costituente, che riscriva lo Statuto e riveda la legislazione regionale (delegiferando e semplificando) alla luce dell’Europa, della democrazia maturata nel nostro paese e dei nuovi orizzonti scientifici, culturali, commerciali e sociali.

Perché qui torni una cultura del fare, perché sia possibile connettere l’artigianato alla ricerca, favorire i consorzi, stimolare il passaggio all’industria, potenziare i trasporti, per la sanità pubblica efficiente e per quella di eccellenza, per collegare tra loro le aree metropolitane e le tre università, per farne una terra bella, per bella gente, dove sia bello vivere e non più una terra aspra e dura, dove è solo possibile emigrare o avere un rapporto fugace, da turismo mordi-e-fuggi.

 

 

Nota

1 Lo Statuto siciliano fu scritto prima della Costituzione e non fu mai sottoposto a una verifica referendaria, anzi, fu in parte pensato come antidoto al «vento del Nord» che spirava dall’esperienza unitaria e democratica della lotta di liberazione. Da allora diritti fondamentali hanno mutato peso e qualità della legislazione italiana, cambiato norme costituzionali e assetti istituzionali: lo Statuto è rimasto immobile anche a garanzia di taluni privilegi ormai inutili e inaccettabili.