Il coordinamento delle indagini giudiziarie sui delitti di terrorismo

Written by Piero Luigi Vigna Thursday, 01 September 2005 02:00 Print

Una riflessione sulle iniziative da assumere per una più efficace azione di contrasto al terrorismo – e non solo a quello di carattere transnazionale, ma anche a quello, forse silenziosamente in agguato, di matrice interna – non può prescindere dalla seguente, preliminare e deludente, constatazione: la legislazione italiana, nell’affrontare le questioni relative alla criminalità strutturata – e mi riferisco non solo a quella terroristico-eversiva, ma anche a quella di tipo mafioso, fenomeni fra i quali non mancano, del resto, connessioni – si è mossa in modo non lungimirante e asistematico.

 

Una riflessione sulle iniziative da assumere per una più efficace azione di contrasto al terrorismo – e non solo a quello di carattere transnazionale, ma anche a quello, forse silenziosamente in agguato, di matrice interna – non può prescindere dalla seguente, preliminare e deludente, constatazione: la legislazione italiana, nell’affrontare le questioni relative alla criminalità strutturata – e mi riferisco non solo a quella terroristico-eversiva, ma anche a quella di tipo mafioso, fenomeni fra i quali non mancano, del resto, connessioni – si è mossa in modo non lungimirante e asistematico.

Questa constatazione è comprovata dal fatto che – specie per il terrorismo, ma con significativi esempi anche per la mafia – furono quasi sempre eventi tragici a sollecitare l’intervento del legislatore che si attivò, dunque, sull’onda delle forti emozioni – di insicurezza, di sdegno, di insopportabilità – che quegli eventi avevano determinato ed in difetto, pertanto, di una «visione di sistema» necessaria per contrastare «sistemi criminali» già in gran parte noti per le loro modalità operative e per gli obiettivi perseguiti.

Sarà sufficiente ricordare, in proposito ed in via puramente esemplificativa, che nel catalogo dei «Delitti contro la personalità dello Stato» formulato dal codice penale del 1930, solo dopo il sequestro dell’onorevole Aldo Moro fu introdotta una norma per punire una condotta già da tempo praticata dalle Brigate Rosse: il sequestro di persona a scopo di terrorismo o d’eversione (art. 289-bis c.p., aggiunto dall’art. 2 del D.L. 21 marzo 1978, n. 59, conv., con mod., dalla L. 18 maggio 1978, n. 191) e che l’occasione per ulteriori interventi normativi fu poi offerta, nel dicembre 1979, da attentati compiuti da Prima Linea, nei confronti di persone che operavano presso la Scuola di Amministrazione Aziendale di Torino. Del pari, norme dirette alla repressione e prevenzione del terrorismo internazionale furono varate solo dopo le stragi dell’11 settembre 2001 negli Stati Uniti e del luglio 2005 a Londra, mentre quelle di Madrid dell’11 marzo 2004 non stimolarono iniziative legislative, benché, ormai, il terrorismo stragista di matrice islamica fondamentalista fosse penetrato nell’Unione europea.

In questa riflessione mi limiterò ad esaminare, fra quelli che potrebbero elencarsi, un tema che reputo essenziale per un più efficace contrasto del terrorismo e che emerge, spesso, all’attenzione delle forze politiche, sia di maggioranza che di opposizione, senza che si riesca, tuttavia – e per motivi neppure esplicitati – a darvi soluzione, e sul quale neppure il legislatore del 2001 volle intervenire: si tratta del coordinamento delle indagini giudiziarie sui delitti di terrorismo.

La L. 15 dicembre 2001, n. 438, nel convertire, con modificazioni, il D.L. 18 ottobre 2001, n. 374, aggiunse, all’art. 51 del codice di procedura penale, il comma 3-quater in virtù del quale, quando si tratta di procedimenti per delitti, consumati o tentati, per finalità di terrorismo, è legittimato alle indagini l’ufficio del pubblico ministero presso il tribunale del capoluogo del distretto nel cui ambito ha sede il giudice competente. In tal modo, concentrando le indagini in 26 uffici di procura, è stato, almeno in parte, posto rimedio al fenomeno della ineluttabile frammentazione e frantumazione delle investigazioni su tale tipologia di reati, derivante dalla legittimazione a svolgerle, secondo la precedente normativa, almeno in via astratta, da ognuna delle 166 procure della Repubblica che operano in Italia.

Il parametro e modello legislativo di riferimento della nuova disposizione è stato quello offerto dal comma 3-bis dell’art. 51 c.p.p. che, introdotto dal D.L. n. 367/1991, analogamente disponeva per i delitti di mafia. Se, dunque, la nuova previsione ha conseguito il positivo scopo di evitare una eccessiva dispersione delle indagini con negative ricadute sulla loro efficacia e completezza, tuttavia tale fine non è stato compiutamente realizzato per la mancanza di una altrettanto necessaria disciplina del coordinamento interdistrettuale delle investigazioni, come avvenne, invece, quando tale materia fu regolata, per i delitti di mafia, con l’istituzione della Direzione nazionale antimafia (DNA), organo centrale del pubblico ministero, istituito nell’ambito della procura generale della Corte di Cassazione.

Al procuratore nazionale antimafia, infatti, furono conferite specifiche attribuzioni per attuare sia il coordinamento finalizzato a prevenire e risolvere i contrasti investigativi, sia quello diretto a dare impulso e completezza all’attività investigativa.

Nell’ambito del primo tipo di coordinamento il procuratore nazionale antimafia può, infatti, impartire ai procuratori distrettuali specifiche direttive alle quali attenersi per prevenire o risolvere i contrasti riguardanti le modalità del coordinamento; riunire i procuratori distrettuali interessati al fine di risolvere i contrasti insorti malgrado le direttive impartite; disporre l’avocazione delle indagini quando non hanno avuto esito le «conferenze conciliative» e il contrasto nelle indagini ha dato luogo a situazioni di grave stasi processuale. Per quanto concerne, poi, la seconda tipologia di coordinamento, il procuratore nazionale può provvedere all’acquisizione ed elaborazione di notizie, informazioni e dati attinenti alla criminalità organizzata, realizzando, come è avvenuto, un sistema informatico fondato su una banca dati centrale collegata con quelle delle 26 direzioni distrettuali antimafia che la alimentano, con la possibilità, per queste, di interpellarla per conoscere tutte le informazioni che essa contiene, anche in forma strutturata. Inoltre può procedere a colloqui investigativi personali con detenuti o internati ex art.18-bis comma 5 L. 26 luglio 1975, n. 354; garantire la funzionalità dell’impiego della polizia giudiziaria nelle sue diverse articolazioni, anche impartendo direttive intese a regolare le forme e le modalità di utilizzazione dei reparti investigativi della Direzione investigativa antimafia e degli altri servizi centralizzati; assicurare, anche per mezzo dei magistrati della direzione nazionale, il collegamento investigativo con gli uffici interessati; disporre l’applicazione temporanea dei magistrati della direzione nazionale o delle direzioni distrettuali presso quegli uffici che, con riferimento a specifiche esigenze investigative o processuali, necessitano di particolari apporti professionali.

La mancanza, per i delitti di terrorismo, di un organo con poteri simili a quelli della direzione nazionale antimafia, non solo non consente il coordinamento delle indagini affidate alle 26 procure della Repubblica, ma, tenendo conto della dimensione spiccatamente internazionale assunta da questo fenomeno criminoso, penalizza anche i sempre più necessari rapporti di cooperazione fra le autorità giudiziarie dei paesi ove il terrorismo opera. Si tratta, dunque, di una lacuna alla quale occorre porre rimedio. Eppure il legislatore del 2001 aveva avvertito l’esigenza ora segnalata, tanto che nel corso dei lavori parlamentari dedicati alla conversione in legge del D.L. 374/2001, il relatore presentò un ordine del giorno che impegnava il governo ad istituire un organo nazionale di coordinamento delle indagini dell’autorità giudiziaria in ordine ai reati connotati dalla finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine costituzionale.

Attualmente, invece, il sistema è ancora incentrato sulle previsioni dell’art.118-bis disp. att. c.p.p. e, quindi, sui poteri conferiti ai procuratori generali presso le Corti di Appello. Tale impianto è, tuttavia, ampiamente inadeguato rispetto all’esigenza di un effettivo coordinamento quale è richiesto dalla natura stessa dei delitti di terrorismo, così come avviene, invece, per quelli di mafia il cui catalogo, proprio in base a quell’esigenza ed al profilo sempre più spiccatamente transnazionale dei delitti attuati dalle organizzazioni criminali, si è ampliato con l’inserimento, nell’originario catalogo disegnato dall’art. 51 co. 3-bis c.p.p., del delitto di associazione contrabbandiera e di quelli relativi al traffico di esseri umani.

L’inadeguatezza del sistema vigente per il coordinamento delle indagini sui delitti con finalità di terrorismo, deriva non solo dalla mancanza di «vocazione al coordinamento» – dovuta anche al difetto delle strutture utili allo scopo – degli uffici di procura generale, ma dallo stesso impianto normativo.

Infatti, anche a mantenersi in una visione ristretta al terrorismo interno, se più indagini si svolgono in diversi distretti di Corte d’Appello, l’effettività del coordinamento rimane affidata alla mera possibilità di promuovere, da parte dei procuratori generali, mediante le comunicazioni e le eventuali riunioni previste dalla legge, intese spontanee fra le procure della Repubblica interessate. Né, in caso di perduranti ineffettività di coordinamento, i procuratori generali possono superarle ricorrendo allo strumento dell’avocazione poiché, potendo tale istituto essere esercitato, da ciascuno di essi, soltanto rispetto all’indagine che si svolge nel distretto di competenza, ne consegue la pura e semplice riproduzione di organi di indagini, senza un coordinamento a livello nazionale.

Che questo, invece, sia necessario ed indilazionabile emerge, anzitutto, come si notava, dalla natura stessa dei delitti di terrorismo. Questi, come quelli di mafia, sono riconducibili ad associazioni strutturate che li realizzano sulla base di un programma e di una strategia previamente elaborata, di modo che, in qualunque parte del territorio nazionale – ed anche oltre i confini di questo – vengano realizzati, essi presentano quasi costantemente nessi, connessioni, elementi di collegamento l’uno con l’altro, di guisa che solo una loro acquisizione, analisi e lettura «a livello centrale», con la ricaduta di tali attività sugli organi delle indagini, può consentire che questi ultimi non solo sappiano tutto di tutto, in modo da poter orientare le investigazioni ad un medesimo fine senza reciproci intralci, ma possano anche prevenire o risolvere, all’esito di apposite riunioni con l’organo di coordinamento, i possibili contrasti che tanto negativamente incidono sull’efficacia delle investigazioni e sulla pubblica opinione. Senza contare che solo quelle attività di raccolta ed analisi dei collegamenti fra l’uno e l’altro delitto potrà essere in grado di svelare il programma e la strategia praticata dal gruppo terroristico e di facilitare l’individuazione di coloro che ne fanno parte.

Il compianto professor Vittorio Bachelet, in anni ormai lontani, quando la nozione di coordinamento non era stata ancora assunta a fondamento dell’azione delle forze di polizia e dei magistrati del pubblico ministero, notava che quella parola aveva avuto una larga diffusione nel linguaggio comune anche in relazione al necessario riassetto organico da dare ai pubblici poteri per evitare conflitti, contraddizioni, interventi a fini contrastanti. Ed in effetti, aggiungeva, il coordinare è, in un certo senso, manifestazione tipica di una società democratica e pluralista che intende ottenere l’armonico orientamento di individui, gruppi, istituzioni verso fini determinati, senza però annullare la libertà o l’iniziativa di tali individui, gruppi o istituzioni. Il coordinamento, infatti, notava ancora il giurista, viene in rilievo quando si è in presenza di una pluralità di attività e di soggetti di cui l’ordinamento riconosce l’autonoma individualità, pur disponendone l’armonizzazione ed eventualmente la cospirazione a fini determinati e l’attività di coordinamento si esplica con la raccolta, la documentazione e l’elaborazione di dati e informazioni e mediante consultazioni, suggerimenti, direttive. Concetti, questi, ampiamente ripresi, come si notava, dalla legislazione antimafia, diversamente da quanto è avvenuto per la normativa antiterrorismo.

Eppure anche la sempre maggior connotazione internazionale di tale fenomeno avrebbe dovuto orientare il legislatore sulla necessità del coordinamento, affidato ad un organo centrale, delle indagini giudiziarie sui delitti di terrorismo realizzati da gruppi che operano in Stati diversi. In sua assenza le autorità straniere sono costrette a rivolgersi ad una molteplicità di interlocutori che dispongono di notizie ed informazioni parziali, spesso contrastanti l’una con l’altra, con intuibili effetti negativi sulla rapidità e fluidità dei rapporti di collaborazione e sulla stessa credibilità del nostro sistema giudiziario, oltre che sulla efficacia complessiva della concertazione internazionale degli sforzi repressivi.

A tale situazione non ha posto rimedio, ma l’ha, anzi, aggravata la L. 14 marzo 2005, n. 41 che attua, in Italia, la decisione quadro (2002/187/GAI del Consiglio dell’Unione europea del 28 febbraio 2002) relativa ad Eurojust, organo al quale, come è noto, è attribuita, fra l’altro, la funzione di coordinare le indagini anche per i delitti di terrorismo che interessano due o più paesi dell’Unione europea.

È infatti stabilito (art. 9) che «corrispondenti nazionali» di Eurojust per tale tipologia di reati, sono i ventisei procuratori generali presso le Corti di Appello e, dunque, organi che, come si è visto, non hanno poteri d’indagine e, quel che più conta, non dispongono di banche dati, neppure a livello locale. Premesso questo, è mia convinzione che la funzione di coordinamento delle indagini giudiziarie sui delitti con finalità di terrorismo debba essere attribuita alla direzione nazionale antimafia, costituendo, se del caso, una apposita sezione all’interno di tale ufficio. Le ragioni di tale convincimento si fondano sui seguenti rilievi: la direzione nazionale antimafia è una struttura del pubblico ministero, istituita nell’ambito della procura generale presso la Corte di Cassazione, che opera da oltre un decennio, durante il quale ha realizzato una considerevole e positiva esperienza in tema di coordinamento di indagini sui reati riconducibili ad associazioni criminali strutturate che operano per programmi, come quelle che agiscono nel settore del terrorismo; la DNA, in forza del D.L. 12 ottobre 2001, n. 369, conv., con mod., dalla L. 431/2001, fa parte del Comitato di sicurezza finanziaria istituito per contrastare il finanziamento del terrorismo ed è, inoltre, destinataria, in base alla normativa antiriciclaggio, delle segnalazioni delle operazioni finanziarie sospette riferibili alla criminalità organizzata; la DNA è punto di contatto della Rete giudiziaria europea per quanto concerne la criminalità organizzata ed ha inoltre instaurato rapporti, per scambio di informazioni, sottoscrivendo specifici verbali di intesa, con numerose procure generali di paesi che non fanno parte dell’Unione; la DNA, come già si notava, dispone di un aggiornato ed evoluto sistema informatico, preso a  modello da vari paesi ed anche da Eurojust, che collega la banca dati nazionale con quelle delle 26 procure distrettuali, di guisa che, senza particolari ed impegnativi oneri finanziari, potrebbe procedere alla raccolta, analisi ed elaborazione dei dati e delle informazioni sui delitti di terrorismo al fine di coordinare le indagini degli uffici di procura ed offrire a questi elementi utili per la completezza e la tempestività delle investigazioni; la più recente legislazione «antiterrorismo» ha introdotto nell’ordinamento, per contrastare tale fenomeno, istituti pensati ed attuati per la repressione delle attività mafiose e, pertanto, ben noti e sperimentati dalla DNA.

Vi è poi da considerare che anche le organizzazioni mafiose possono assumere una valenza terroristico-eversiva. Ciò è comprovato, infatti, in primo luogo dalla circostanza che gli appartenenti a «cosa nostra» che realizzarono le stragi nel continente nel 1993 (maggio: Roma, via Fauro; luglio: Firenze, via dei Georgofili; Roma, chiese di San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro; Milano, Museo Nazionale d’Arte Moderna; ottobre: Roma, Stadio Olimpico) sono stati condannati per tali delitti, ritenuti aggravati dall’aver agito per finalità di terrorismo ed eversione dell’ordine costituzionale (art.1, D.L. 625/1979, conv., dalla L. n. 15/1980), in secondo dalla notazione che formazioni terroristiche hanno compiuto delitti oggi qualificati «di mafia» dall’art. 51 co.3-bis c.p.p. (sequestro di persona a scopo di estorsione in danno di Costa e realizzato dalle Brigate Rosse; sequestri estorsivi compiuti da Prima Linea; sequestro estorsivo in danno di Mariano ad opera di Ordine Nuovo).

Anche sotto il profilo tecnico giuridico è poi da rilevare che l’associazione di tipo mafioso, a seguito delle modifiche introdotte, nel 1992, all’originario testo dell’art.416-bis c.p., ha assunto, essa stessa, una valenza eversiva poiché fra le sue finalità è stata inserita quella di «impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali». Si tratta, all’evidenza, della aggressione al principale strumento di democrazia diretta e che è, pertanto, connotata da valenza eversiva. Inoltre, l’art.2, comma 1, D.L. 345/1991, conv. dalla L. 410/1991, afferma che «spetta al SISDE ed al SISMI, rispettivamente per l’area interna e quella esterna, svolgere attività informativa e di sicurezza da ogni pericolo o forma di eversione dei gruppi di criminalità organizzata che minacciano le istituzioni e lo sviluppo della civile convivenza», ponendo così in evidenza il carattere eversivo che possono assumere anche le associazioni di tipo mafioso. Infine, nelle leggi che hanno istituito le Commissioni parlamentari antimafia si è affermato più volte il principio che il segreto di Stato non è opponibile nei procedimenti relativi a fatti di mafia, di camorra e organizzazioni similari trattandosi di fatti eversivi dell’ordine costituzionale.

È, ancora, da considerare che vari organi internazionali hanno ripetutamente richiamato l’attenzione sui collegamenti esistenti fra i gruppi terroristici e quelli di criminalità organizzata. Ciò è avvenuto fin dal 28 settembre 2001, quando il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, al punto 4 della Risoluzione n. 1373 affermò, testualmente di «osservare con preoccupazione la stretta connessione fra il terrorismo internazionale e la criminalità organizzata transnazionale, il traffico di droga, il riciclaggio di denaro sporco, il traffico illegale di armi.

Quanto ho finora esposto mi induce, dunque, a ritenere necessario un coordinamento nazionale delle indagini sui delitti di terrorismo e che tale funzione debba essere attribuita alla DNA che ha sempre agito ed opererà, anche in questo settore, come «struttura di servizio» nei riguardi delle 26 procure della Repubblica legittimate alle indagini.

Nel contempo, attese le connessioni, rilevate anche nel corso di recenti indagini e segnalate da organi internazionali, fra la criminalità terroristica e quella organizzata, con particolare riferimento ai cosiddetti delitti di mafia, ritengo poco plausibile (oltre che finanziariamente onerosa ed attuabile solo in tempi di lunga durata) la creazione di un autonomo organo nazionale di coordinamento. Si moltiplicherebbero, fra l’altro, nelle ipotesi di connessione fra delitti di terrorismo e delitti di mafia, i contrasti fra gli organi delle indagini e, addirittura, fra quelli di coordinamento.

Queste considerazioni sono state tenute presenti quando ad Eurojust è stata attribuita la funzione di coordinare le indagini, oltre che per altri reati, anche per quelli di terrorismo e di criminalità organizzata. Sarebbe singolare che ciò non avvenisse anche per la DNA che ha costituito il modello sul quale è stato strutturato Eurojust e che si perseverasse nel mantenere in vita l’attuale – e già richiamata – normativa che attribuisce la qualità di «corrispondenti nazionali» ai procuratori generali per il terrorismo ed alla DNA per i delitti di mafia.

Infine, se è innegabile che il coordinamento delle indagini è necessario anche per i delitti di terrorismo e se è vero – come il codice processuale penale prevede – che è affidata al pubblico ministero la direzione delle indagini, non si vede perché il coordinamento debba, di fatto, esser lasciato nelle mani delle forze di polizia, anziché essere attribuito, come avviene per i delitti di mafia, ad un organo centrale del pubblico ministero.