Sviluppo del Mezzogiorno: qualche riflessione e scenario di intervento

Written by Ciro Romano Thursday, 01 September 2005 02:00 Print

Il Mezzogiorno, assolutamente scomparso dalla programmazione del governo in questi ultimi quattro anni, non può non riprendere il suo posto centrale nella politica di sviluppo del prossimo futuro, non so o per se stesso ma per il bene di tutto il paese. Sembra evidente, infatti, che il nostro paese, se davvero vuole essere pienamente competitivo in Europa e nel mondo, aperto ai traffici ed alla concorrenza economica, non può più trovarsi con un terzo del proprio territorio, della propria popolazione e del proprio sistema in un stato di sviluppo inadeguato, con una disoccupazione che è tre volte maggiore rispetto al resto d’Italia e il lavoro irregolare che coinvolge oltre un quinto degli occupati: questa rappresenta una condizione di estrema debolezza non solo del Mezzogiorno ma dell’intero sistema paese.

 

Il Mezzogiorno, assolutamente scomparso dalla programmazione del governo in questi ultimi quattro anni, non può non riprendere il suo posto centrale nella politica di sviluppo del prossimo futuro, non so o per se stesso ma per il bene di tutto il paese. Sembra evidente, infatti, che il nostro paese, se davvero vuole essere pienamente competitivo in Europa e nel mondo, aperto ai traffici ed alla concorrenza economica, non può più trovarsi con un terzo del proprio territorio, della propria popolazione e del proprio sistema in un stato di sviluppo inadeguato, con una disoccupazione che è tre volte maggiore rispetto al resto d’Italia e il lavoro irregolare che coinvolge oltre un quinto degli occupati: questa rappresenta una condizione di estrema debolezza non solo del Mezzogiorno ma dell’intero sistema paese.

Nessuno pensa di ripresentare politiche di intervento straordinario vecchio stampo, istituzioni di casse speciali o altri armamentari del tipo di quelli adottati dai governi che si sono alternati nella seconda metà del secolo scorso. Pur tuttavia, con il prossimo governo qualche provvedimento andrà pur preso, qualche iniziativa di politica economica, sociale e territoriale andrà pur perseguita per tentare, almeno, di attenuare lo storico «divario»; anche perché the time is over: quello dei finanziamenti a pioggia, quello delle attese miracolistiche, come quello della speranza o pretesa del cambiamento e miglioramento eterodeterminato.

 

Le contrapposizioni da superare

Un discorso sullo sviluppo del Mezzogiorno che voglia avere un minimo di concretezza, dovrebbe, secondo me, innanzitutto sgombrare il campo da alcune querelle su cui si è fin troppo dibattuto e che, credo, sia giunto il momento di superare:

  • «Mezzogiorno» o «Mezzogiorni»?
  • Localismo o globalizzazione?
  • Approccio «dall’alto» o «dal basso»?
  • Fare da soli o chiedere sovvenzioni?
  • Mezzogiorno industriale o postindustriale?

Non voglio passare per un Salomone del III millennio, ma, dal mio punto di vista, in questo tipo di posizioni antitetiche che tendono a visioni contrapposte non c’è grande saggezza e credo piuttosto che le soluzioni più razionali si trovino quasi sempre in un giusto mix di orientamenti e prospettive.

E dunque, per quanto riguarda la prima questione, è chiaro che il Mezzogiorno non è un corpo monolitico ma è composto da tante realtà con proprie peculiarità ambientali e culturali. Nonostante ciò vi si può riconoscere una certa omogeneità di condizioni sociali ed economiche che ne fanno un’area-problema di assodata riconoscibilità nel panorama nazionale ed europeo.

Questa considerazione rimanda direttamente alla seconda ed alla terza: una politica di sviluppo per il Mezzogiorno non può non considerare le specificità locali, le quali, anzi, forniscono prospettive di valorizzazione che non meritano di essere mortificate in nome della competitività sui mercati nazionali e mondiali.

Credo sia ancora valido ciò che scrivevano De Rita e Bonomi fin dal 1998: «Oggi, infatti, si compete attraverso sistemi territoriali, non più soltanto tra imprese: è il sistema territoriale nel suo insieme che compete nella dimensione globale, proprio perché il territorio è diventato quell’ambiente strategico funzionale ad alimentare sia il processo produttivo sia la gara competitiva».1 L’esasperata (a volte ottusa) ricerca della competitività a tutti i costi, di fatto, spesso taglia fuori le reali vocazioni dell’ambiente e del territorio e i bisogni effettivi delle comunità locali. L’esperienza di tanti distretti industriali – oggi tra l’altro in crisi produttiva proprio perché l’asticella della concorrenza internazionale è portata sempre più in alto – mostra che non sempre si creano delle oasi felici: degrado ambientale, malessere sociale e malattie professionali frequentemente la fanno da padrone incontrastato.

La valorizzazione delle risorse locali, d’altro canto, non deve però escludere il ricorso a tutti gli strumenti di carattere innovativo che possono consentire alle imprese di competere al meglio sul mercato mondiale. Il termine «glocalismo» è utilizzato ancora con accezioni troppo variegate perché anch’io lo usi disinvoltamente, ma intanto non trovo un altro termine per descrivere un moto endogeno di sviluppo che parta da un territorio e rivitalizzi le sue risorse naturali e culturali, lo doti di nuove strutture per la comunicazione e la produzione della conoscenza, in modo da innovare il tessuto produttivo e sociale e creare quell’ambiente favorevole all’intercettazione, non solo di flussi turistici, ma anche degli investimenti delle multinazionali. Tutto ciò però deve avvenire senza snaturare i contesti, senza dover traviare le culture locali riducendole al massimo a patetico folklore, senza dover abbattere qualsiasi tutela sindacale, vincolo ambientale o controllo fiscale.

La trasposizione – dalla fabbrica fordista all’intero territorio – della ricerca della massima efficienza credo sia ormai una tendenza incontrovertibile, per cui le policies da mettere in campo non possono essere che «di contesto» e devono agire trasversalmente su tutte le risorse disponibili. Il tutto però avrebbe scarsa efficacia se fosse basato sul ricorso ad interventi frammentati e particolaristici; è necessario, invece, un disegno organico che riconduca ad unità le fila delle competenze e degli interessi settoriali, e che riesca ad individuare obiettivi che devono essere il più possibile misurabili e realizzabili in tempi certi.

Questo approccio è possibile solo se è sostenuto da una forte motivazione politica e non può, evidentemente, escludere la cultura dello sviluppo «dal basso», quella del fare (condiviso) e dell’auto-responsabilizzazione che, pur tra mille contraddizioni, si sta inesorabilmente sostituendo alla vecchia logica dell’assistenzialismo, quella dell’attesa miracolistica nel provvidenziale intervento a pioggia. Responsabilizzazione, consenso condiviso, forza motivazionale nelle scelte sono alcuni punti cardine del processo; accanto a questi ve ne sono degli altri: coordinamento, efficienza nella spesa, controllo della effettiva realizzazione, riposizionamento strategico, i quali però richiedono necessariamente anche un esercizio programmatorio «dall’alto».

Una politica di sviluppo caratterizzata da una giusta miscela tra approccio bottom-up e topdown presupporrebbe un reale passaggio da forme di government autoreferenziali a forme di governance multi-level, caratterizzate da efficienza nella cooperazione, basate su decisioni politiche e tecniche condivise tra i vari livelli istituzionali ed amministrativi, in grado così di evitare sovrapposizioni e commistioni di compiti e di funzioni e perseguire interventi il più possibile integrati fra loro. Tema questo sicuramente molto fashion ma di non facile praticabilità nella realtà meridionale: si tratta di innescare reazioni virtuose fra gli attori, minimizzando la loro tendenza a perseguire azioni escludenti, confliggenti, ridondanti, nonché deresponsabilizzate. Tutto ciò confligge con la generale propensione (molto meridionale, ma diventata ormai italica attitudine) a far prevalere i particolarismi, che spesso sfociano in litigiosità per la difesa del proprio microcosmo (la famiglia, il clan politico/sociale, il «campanile») e che si traducono in faticosa ricerca di autodisciplina organizzativa o di cooperazione per l’efficienza produttiva. Malgrado gli ostacoli di tipo culturale e sociale, onestamente non vedo un’altra strada da percorrere verso il rilancio di una programmazione dello sviluppo nelle regioni meridionali.

La quarta questione si sta risolvendo da sola. Si può cercare ancora di combattere per conservare il più a lungo possibile i vantaggi di essere Obiettivo 1, ma qui il percorso è ormai tracciato: il rubinetto dei fondi europei è destinato a ridurre sempre più la sua portata finché al massimo gocciolerà, per cui intanto cerchiamo di gestire l’acqua elargita con l’ottica del cammello che si avvia al deserto e poi troviamo nuove «falde» nei nostri territori dalle quali drenare risorse che sempre più dovranno essere gestite con oculatezza e senza sprechi. Attraverso questa metafora «idrica» ho forse dipinto un quadro a tinte troppo fosche, ma credo che sia meglio prepararci al peggio ed abituarci decisamente a fare da soli.

Relativamente alla quinta questione, mi sembra che il Mezzogiorno, pur senza essere passato da una compiuta e matura fase industriale, è di fatto entrato inesorabilmente in una fase postindustriale. Ma anche relativamente a questo discorso non mi sento di sostenere posizioni manichee, radicalmente affezionate o all’idea che lo sviluppo del Mezzogiorno passi in maniera pressoché esclusiva attraverso l’estensione e il potenziamento dell’apparato industriale o viceversa all’opinione che ritiene improponibile qualsiasi ipotesi di rilancio industriale e che il Sud debba puntare solo su sole, mare e cultura. Al riguardo devono essere proprio le politiche di contesto a definire per ogni sistema locale di sviluppo quali siano, in base alle vocazioni e senza orientamenti pregiudiziali, le leve e risorse sulle quali puntare, in un’ottica, dunque, nella quale in partenza nessuna opzione può essere aprioristicamente messa da parte.

In verità, oltre alle cinque questioni che ho elencato e sulle quali anch’io alla fine ho detto la mia, ce ne sarebbero almeno altre tre: quella dei contratti salariali («nazionali» vs «di area»), quella degli status lavorativi («garanzie» vs «flessibilità») e quella delle politiche di incentivi («diretti» vs ambientali»).

Per quanto riguarda le questioni di carattere occupazionale, non ho le giuste competenze per esprimere opinioni e giudizi. Certamente, però, è arrivato il momento di chiarire se, per quanto riguarda i salari, è vero o no, come sostiene qualcuno, che l’omogeneità contrattuale si basi su un malinteso senso egalitario che, in un contesto non più compensato da interventi di sgravio degli oneri sociali, costituisca di fatto un incentivo all’immersione e una rigidità in più per il Sud, soprattutto per il lavoro giovanile. Allo stesso modo, relativamente agli status lavorativi, credo sia necessaria una riflessione approfondita sulle forme contrattuali atipiche per verificare se effettivamente, in luogo di diventare elementi di flessibilità nella creazione di nuovi posti di lavoro, si sarebbero affermati soprattutto in sostituzione di impieghi più stabili e remunerati, quindi favorendo essenzialmente forme di lavoro precario e sottopagato. In ogni caso, qualche rimedio per flessibilizzare il mercato si dovrà pur trovare, soprattutto per accrescere le chances dei tanti young outsiders meridionali, di tutti quei giovani, cioè, che sembrano oggi irrimediabilmente fuori dal mercato del lavoro e a cui non rimane altro che trasferirsi in altre zone del paese.

L’emigrazione dal Sud, che negli anni Cinquanta e Sessanta ha depauperato il Mezzogiorno delle sue migliori energie produttive, costituendo, del resto, uno dei fattori principali del miracolo economico del Nord, da qualche anno, purtroppo, è ripresa vigorosa. Tra l’altro, allora proveniva soprattutto (ma non solo) dal mondo contadino, oggi è un’emigrazione di tipo giovanile ed intellettuale con forse anche maggiori implicazioni negative nel tessuto sociale e produttivo del Sud.

I dati dell’ultimo Rapporto Svimez parlano chiaro: nel 2004, a fronte di 187.000 nuovi posti di lavoro creati nel Centro-Nord, il Mezzogiorno ne perde 23.000 che sommati ai 25.000 del 2003, fanno 48.000 unità di occupati in meno negli ultimi due anni. Il paradosso è che nel Sud, oltre a calare il tasso di occupazione, cala anche il tasso di disoccupazione e ciò è dovuto non alla creazione di nuovi posti di lavoro, ma all’aumento dei «rinunciatari»: sono oltre 100.000 le persone (l’8,6% dei disoccupati) che, nel Mezzogiorno, hanno smesso di cercare un nuovo lavoro (di questi la metà, 50.000 unità, sono residenti in Campania). Questi rinunciatari si rifugiano nel sommerso o stanno alimentando nuove imponenti correnti migratorie: solo nel 2003 hanno lasciato il Sud 94.000 persone (soprattutto giovani dai 24 ai 30 anni). Per una parte dei giovani rinunciatari rimasti al Sud, i più fortunati – e avanzo un’ipotesi che forse andrebbe esplorata con attenzione – non si rifugiano nel sommerso, ma campano di rendita grazie a qualche buon investimento che i loro genitori hanno messo a segno qualche anno fa e che oggi, visto il vero e proprio boom dei valori immobiliari, consente loro di disporre di ampi margini di sopravvivenza.

Quest’ultima considerazione ne richiama un’altra dai contorni devastanti: l’alto valore dato al possesso della «roba», la propensione, cioè, all’accumulo socialmente improduttivo di beni immobiliari, contrapposto ad un modello di impiego produttivo/speculativo di beni a rischio crescente, sembra dolorosamente un orientamento che sta coinvolgendo gli individui e le famiglie a qualsiasi latitudine del nostro paese e sta rappresentando sempre più uno dei tratti più salienti del nostro sistema sociale ed economico. È desolante osservare che siamo in un’epoca nella quale dovremmo assistere ad una transizione dall’economia «del possesso» a quella «dell’accesso» ed invece sembra riaffermarsi la più retriva delle economie da manomorta, nella quale hanno cittadinanza soprattutto i privilegi delle rendite parassitarie ed improduttive.

D’altro canto, se da una parte il valore delle rendite, soprattutto quelle immobiliari, è cresciuto a dismisura, nel mercato dei capitali permane una differenza qualitativa e quantitativa tra Nord e Sud del paese, che, seppur in parte giustificata dalla maggiore rischiosità e da più lunghi e costosi recuperi del credito nel Sud, non è sicuramente più tollerabile. L’accumulo improduttivo di beni e le inefficienze del mercato dei capitali, con un’offerta molto scadente dei servizi finanziari per le imprese meridionali, costituiscono, di fatto, un fattore integrato di indubbio freno allo sviluppo del Mezzogiorno.

Per ultimo, ho accennato alla questione degli incentivi. Su questo tema credo che vada detto, innanzitutto, che qualunque sia la forma di incentivi prescelti, bisogna fare in modo che questi finiscano dove realmente servono. Fa scuola in tal senso l’esperienza fatta nell’applicazione della Legge 488/92, allorché la spinta leghista a convogliare i già ridotti incentivi non soltanto nel Sud, ma in tutte le aree più svantaggiate del paese, ha fatto sì che una buona fetta degli investimenti agevolati finisse in molte aree del Centro-Nord e, anche all’interno del Mezzogiorno, si concentrasse nelle regioni più sviluppate (ciò che ha consentito, per esempio, all’Abruzzo di uscire dalle regioni dell’Obiettivo 1).

Relativamente al tipo di incentivi, oggi molti degli osservatori più attenti, Gianfranco Viesti ad esempio, protendono per una diminuzione degli incentivi diretti, per destinare invece più risorse al miglioramento dei contesti (centri di ricerca, ferrovie, reti idriche, ecc.), guardando così un po’ meno a «ciò che accade dentro le fabbriche» ed un po’ più a «ciò che è fuori dai cancelli delle fabbriche». Il ragionamento mi sembra che non faccia una grinza: invece di perseguire interventi per compensare le imprese meridionali per le diseconomie ambientali in cui sono costrette ad operare, è meglio intervenire su quest’ultime per ridurle. D’altro canto, gli incentivi diretti, che pure non dovrebbero essere aboliti, devono sospingere soprattutto verso le tecnologie più innovative, maggiormente suscettibili di fornire qualche arma in più per resistere alla concorrenza internazionale, incentivando così le aziende che, secondo un monitoraggio di indicatori certi (percentuali di risorse destinate ad attività di R&S, per esempio), si dimostrino realmente indirizzate verso l’innovazione e la riqualificazione.

Sembra, del resto, indispensabile sostenere le aggregazioni virtuose tra imprese, incentivando la creazione di poli produttivi, filiere, consorzi, reti, consorzi distrettuali, incubatori, Bic (Business innovation centres), in modo da concentrare gli sforzi in settori ed aree ben individuate, realizzando centri produttivi fortemente specializzati. Di fatto, una delle condizioni sfavorevoli per il Mezzogiorno è stata sempre la mancanza di un’adeguata «fertilizzazione incrociata» tra le aziende con la presenza, soprattutto, di un’insufficienza nella specializzazione produttiva, ciò che non consente, in particolare, alle imprese meridionali un’adeguata integrazione orizzontale e lo sviluppo di prodotti in subfornitura. Oltre a ciò, l’inadeguatezza organizzativa delle imprese ha sovente limitato la loro possibilità di accedere a forme di intervento pubblico che non siano quelle della forma più tradizionale della sovvenzione sulle spese di investimento o dello sgravio sui contributi sociali.

Le carenze manageriali e l’insufficiente capacità di organizzare progetti di investimento complessivi delle aziende meridionali ha fatto già perdere tante occasioni; si pensi, ad esempio, all’impulso offerto dall’eccezionale aumento della domanda estera seguita alla svalutazione del 1992: questo è stato colto in maniera molto inferiore dalle imprese meridionali rispetto a quelle settentrionali, relativamente molto più orientate all’esportazione ed ai mercati internazionali.

Fatte queste considerazioni di carattere generale, provo a tracciare degli scenari di intervento in alcuni settori specifici che considero particolarmente strategici.

Non parlerò, almeno esplicitamente, di turismo perché lo fanno già in tanti per cui il discorso mi appare anche troppo scontato. Né parlerò di agricoltura, della quale si discute meno, pur essendo la nuova agricoltura che si sta affermando, con caratteri «produttivistici» e «ambientalistici», un settore di estremo interesse in Italia, ma anche nel Mezzogiorno dove, secondo alcuni osservatori, starebbe addirittura rovesciando, cinquant’anni dopo, la concezione rossidoriana dell’assetto agrario meridionale e vedrebbe oggi più avvantaggiate le aree interne, quelle che erano «osso», rispetto alle aree costiere, una volta «polpa», ma che è resa indigesta da speculazioni edilizie ed insediamenti produttivi inappropriati. Questi due settori, del resto, sono tutt’altro che incompatibili con quelli sui quali vado sinteticamente a trattare.

 

Mobilità, logistica e rilancio industriale

In generale, quella dell’esigenza di infrastrutture per lo sviluppo, specie di quelle relative alla mobilità, rimane una delle grandi questioni non risolte del nostro paese e, particolarmente, del Mezzogiorno.

Relativamente alle infrastrutture «materiali», vanno finalmente completati gli assi stradali prioritari, in particolare il tratto meridionale del corridoio europeo 1 che partendo da Berlino e passando per Monaco, Bologna, Roma, Napoli arriva sin a Palermo (con l’annoso problema dell’A3 Salerno-Reggio Calabria). Ma sulla stessa dorsale tirrenica, come in quella adriatica (e in connessione tra le due), va soprattutto portato avanti il potenziamento e l’ammodernamento tecnologico delle rete ferroviaria. Il collegamento trasversale Napoli-Bari (asse decisivo del corridoio 8 verso i Balcani), in particolare, è in un medioevo tecnologico non più tollerabile. Come pure va finalmente realizzato il programma delle autostrade del mare, con il contestuale ammodernamento degli snodi portuali, interportuali e aeroportuali per la logistica integrata.

Il Sud d’Italia, del resto, è il baricentro di un Mediterraneo che oggi non è periferico, ma che certo deve attrezzarsi per non rimanere fuori dalle correnti di traffico commerciale che dall’Asia, particolarmente dalla Cina e dall’India, tramite Suez, possono trovare nei nostri porti possibilità di sbocco, di intercettazione e di conferimento di valore aggiunto per una successiva redistribuzione su tutto il continente europeo. È evidente, del resto, che il nostro Sud non può fungere da semplice scalo logistico per una redistribuzione non selettiva e di massa. A me sembra giusto auspicare che dal Far East non arrivi di tutto, in particolare prodotti già confezionati e pronti per il mercato, spesso di qualità scadente e realizzati con lo sfruttamento di manodopera a buon mercato. Bisogna far di tutto affinché, invece, transitino e si fermino, per un completamento del loro ciclo produttivo, tutte quelle merci la cui produzione è incompatibile e non competitiva per l’Italia e per il Mezzogiorno. Penso chiaramente a materie prime e prodotti semilavorati che, da noi, in un tessuto industriale leggero, riqualificato e tecnologicamente avanzato potrebbero trovare opportuna fase di manifattura finale di qualità.

Oltre a ciò, da un punto di vista strettamente logistico, va tenuto conto del fatto che, per esempio, Taranto o Cagliari, seppur da rafforzare nelle loro capacità ricettive e redistributive, non potrebbero mai diventare come Rotterdam o Amburgo (prospettiva comunque non auspicabile); e, del resto, il Sud, ma anche il resto dell’Italia, non sarebbe sicuramente in grado di tollerare un traffico impazzito di tir che percorressero in lungo e in largo le nostre già insufficienti strade ed autostrade. Oltre ad un necessario potenziamento delle vie del mare e sul ferro, è necessario un ruolo forte di strumentazioni del mondo ITC, al fine di creare le condizioni per un movimento merci efficiente e sostenibile.

Nel campo della logistica, dunque, vi è tanto da fare per organizzare in maniera efficiente la distribuzione delle merci, specie di quelle autotrasportate, con l’apporto di tecnologie innovative e di infrastrutture «immateriali». In particolare, andrebbero adottate misure di incentivazione «intelligente» all’intermodalità, all’aggregazione delle aziende e all’acquisizione di tecnologie, soprattutto relativamente al tracciamento ed alla localizzazione. Si pensi, in tal senso, all’importanza del progetto di posizionamento satellitare europeo Galileo, magari associato all’introduzione della «e-targa» (la targa elettronica), che apre prospettive enormi nel campo dei servizi per il telecontrollo delle flotte, per l’ottimizzazione dei flussi, e per una logistica integrata ed orientata al cliente finale. L’adesione dell’India e della Cina allo standard Galileo, a cui però fa da assurdo contrappeso il sostanziale defilarsi dell’Italia, aprirebbe di fatto anche grandi possibilità di esportare tecniche e metodi per servizi innovativi nel campo della mobilità.

La logistica integrata, dunque, potrebbe costituire una grande occasione per il rilancio e la riconversione industriale, puntando, quest’ultima, su selezionate attività produttive di qualità ed espellendo progressivamente quelle attività di trasformazione da sempre risultate incompatibili e che ora non possono che lasciare spazio ad altre e più qualificate iniziative imprenditoriali. La ripresa industriale, dunque, non può che avvenire in maniera da rafforzare la qualità dei prodotti, essendo del tutto improponibile l’idea di competere con i paesi emergenti sul costo del lavoro e sui prezzi.

 

Infrastrutture immateriali

Ho già messo in risalto il ruolo decisivo delle infrastrutture immateriali nel settore strategico della logistica; in generale, è un dato di fatto che quelle relative al settore dell’ITC sono infrastrutture di valore strategico almeno pari (forse anche superiore) a quelle materiali per il nostro paese e particolarmente per il Mezzogiorno.

Intanto, la scarsa informatizzazione dei processi produttivi, che sfocia sovente in un quasi totale analfabetismo digitale per una buona parte delle piccole imprese italiane, costituisce la causa primaria del significativo calo di produttività dell’economia italiana nel panorama internazionale. In questo quadro nazionale difficile, la situazione del Mezzogiorno appare, come sempre, più gravosa. Nel campo delle infrastrutture immateriali si è determinata una nuova forma di divario nel paese: il digital divide, determinato, per esempio, dal fatto che, ovviamente, i privati investono in fibra ottica dove la domanda è maggiore, ampliando così le differenze tra Nord e Sud del paese.

Come ha notato recentemente Walter Tocci, le tendenze in atto al livello nazionale sono tutte negative osservando che in tre anni (dal 2002 al 2005) l’Italia è passata dal venticinquesimo al quarantacinquesimo posto nella classifica mondiale del Global Information Technology Report, che indica il grado di preparazione dei paesi per lo sviluppo della telematica. Sempre Tocci osserva che nel secolo scorso, la transizione verso la prima industrializzazione si riuscì a realizzare malgrado il ritardo storico della scolarizzazione di massa; la net-economy, invece, ha difficoltà ad imporsi perché richiede saperi diffusi per tutta la popolazione, per la produzione ma anche per il consumo. È per questo che nel mare aperto della globalizzazione, l’Italia annaspa e non regge il passo della competizione mondiale. Questa consapevolezza della fragilità del sistema Italia, del resto, alimenta il circolo vizioso della fuga dal rischio verso posizioni di rendita. L’Italia dei patrimoni improduttivi, delle caste e delle gerontocrazie si trova con lo sguardo rivolto al passato. Occorre invece girare il Paese verso il futuro per riuscire a superare il declino, rimuovendo questi macigni che limitano la mobilità sociale ed economica dei giovani talenti e non consentono alla creatività italiana di compiere la necessaria transizione verso la società della conoscenza.

Uno dei macigni da rimuovere, secondo Viesti, è quello dell’accesso alle professioni la cui liberalizzazione proprio nelle aree dove la mobilità sociale è più modesta, come nel Mezzogiorno, può ottenere i risultati più importanti; sempre nel Sud, inoltre, occorre intervenire sul settore dei servizi di pubblica utilità locali che proprio con l’uso di tecnologie innovative possono diventare davvero efficienti per cittadini ed imprese.

La rimozione di questi macigni potrebbe costituire, per l’Italia e per il Mezzogiorno, un avvicinamento progressivo alle società postindustriali più avanzate dove è in atto quella che l’economista americano Richard Florida ha chiamato «l’ascesa della nuova classe creativa» per cui lo sviluppo non è più basato sulla produzione e disponibilità di risorse materiali, ma sull’innovazione e sull’accesso a risorse immateriali, come la conoscenza e la creatività. La creative economy, secondo questa suggestiva teorizzazione, si basa, come è noto, sul modello delle tre T (tecnologia, talento e tolleranza): la tecnologia rappresenta una sorta di prerequisito ma poi ci deve essere un adeguato tasso di talent capital capace di capire, utilizzare e rendere produttive al massimo le tecnologie esistenti, nonché una società tollerante, cioè aperta verso le diversità (etniche, culturali, religiose, sessuali) come miglior ambiente per far confluire, trattenere e valorizzare i talenti.

Ebbene, l’ambiente sociale meridionale, malgrado tutte le sue contraddizioni, non è sordo alle innovazioni sociali e culturali e ha un potenziale di talenti e creatività assolutamente poco sfruttato ma che, messo nelle giuste condizioni, senz’altro consentirebbe la transizione da uno sviluppo «pesante» ormai al capolinea, ad uno «leggero» contrassegnato dalla creatività, dall’innovazione, dalla bellezza.

 

Governo del territorio

Relativamente al tema del governo del territorio, il nostro paese, e soprattutto il Mezzogiorno, è condizionato dal drammatico problema del ritmo vertiginoso del consumo di suolo degli ultimi quarant’anni e del fenomeno connesso dello sprawl urbano: l’insediamento disperso che ha, tra l’altro, condotto al grande aumento della mobilità privata. Nel Mezzogiorno, in particolare, in questi decenni la cementificazione e conseguente impermeabilizzazione del suolo è avanzata massiccia, il manto arboreo dei versanti montuosi e collinari, anche per gli incendi, è diventato sempre più limitato, le cave hanno eroso intere montagne per poi spesso trasformarsi in discariche abusive, i terreni agricoli di pregio hanno finito per diventare un patrimonio sempre più raro. Con questi fenomeni ancora purtroppo in atto, i versanti non possono che continuare a franare e i fiumi, per gran parte dell’anno quasi all’asciutto, non possono che, dopo tre giorni di pioggia abbondante, invadere città e campagne. In questo Mezzogiorno, che in una visione pur dolorosamente realistica non fa dimenticare comunque lo straordinario patrimonio di beni naturali e culturali, di intelligenze e creatività, di un potenziale umano giovane come in nessuna regione d’Europa, le prospettive di sviluppo non possono che essere prese in considerazione se non attraverso una valutazione assolutamente attenta delle risorse in gioco in un processo di governo del territorio assennato, oltre che efficace.

L’efficacia nei processi di governo del territorio è rappresentata da tempi certi nei procedimenti amministrativi e dall’efficienza complessiva del sistema. L’efficacia viene raggiunta, in particolare, se vincoli e norme posti dai vari enti non confliggono e sono sinteticamente ed immediatamente consultabili (carta unica del territorio), se le scelte sono partecipate e condivise, se le risposte a cittadini ed imprese sono veloci e motivate, se è garantita dinamicità e flessibilità nelle prassi di pianificazione. Anche per raggiungere questi obiettivi giocano un ruolo decisivo tecniche innovative provenienti dal mondo dell’ICT: in questo caso è la GI (Geographic Information) e in particolare la realizzazione di implementazioni GIS (Geographic Information System) o SDI (Spatial Data Infrastructure) che possono garantire integrazione, dinamismo ed efficienza in ogni fase, conoscitiva, valutativa, progettuale, gestionale di governo del territorio.

I vincoli urbanistici ed ambientali, del resto, non possono essere considerati alla stregua di qualsiasi «laccio e lacciuolo» allo sviluppo. Se infatti sono stati posti, non per una semplice volontà di mettere i propri paletti da parte di una qualche amministrazione, bensì scaturiscono da un’accurata fase di analisi, costituiscono allora o dei freni all’ulteriore degrado oppure delle forme di tutela di beni che possono essere in ogni caso valorizzati e rappresentare comunque occasioni di ricchezza per la popolazione; possono costituire possibilità per uno sviluppo magari diverso ma non per questo meno significativo.

Anzi, come abbiamo visto, oggi non si compete più per dazi, misure protezionistiche, costo del lavoro, ecc., ma per l’attrattività dei territori, la qualità della vita, la creatività, l’esclusività e il benessere complessivo. La qualità della vita del territorio rappresenta oggi una sorta di infrastruttura immateriale che può garantire la qualità dei prodotti e sta diventando un fattore talmente decisivo che alle tre T di Florida se ne dovrebbe aggiungere una quarta: territorio. E se purtroppo nella classifica europea delle tre T siamo collocati al decimo posto come tolleranza, all’undicesimo come tecnologia ed addirittura al tredicesimo come talento, possiamo recuperare molte posizioni come territorio, cioè se, malgrado tanti comportamenti dissennati, valorizziamo al meglio uno stile di vita, una creatività e un patrimonio di risorse naturali e culturali che nessun produttore cinese o indiano potrà mai copiarci.

 

Bibliografia

1 G. De Rita, A. Bonomi, Manifesto per lo sviluppo locale, Bollati Boringhieri, Torino 1998.