Quell'America liberal che ci piace tanto

Written by Massimiliano Panarari Monday, 03 January 2005 02:00 Print

Se all’indomani del tragico e fatidico 11 settembre, come aveva titolato «Le Monde», l’intero Occidente si era sentito «tutto americano» come un sol uomo, per i progressisti è diventata impellente, più di recente, una nuova e ulteriore identificazione: quella che non troppo tempo fa Timothy Garton Ash ha emblematicamente sintetizzato, affermando che «siamo tutti americani blu ora», dal colore del Partito democratico ancora adesso, almeno parzialmente, sotto shock, dopo la sconfitta elettorale, e orfano di un leader. Or dunque, il quesito fondamentale è: esiste veramente un’«Altra America»? Qualcuno dice che è soltanto un’idea, la proiezione di una lista di desiderata tipicamente europei che c’entra poco o nulla con la prima (e unica) superpotenza planetaria odierna, int enzionata a fare e disfare, e a rimodellare l’ordine mondiale all’insegna di un «Nuovo secolo americano», in maniera – per usare un eufemismo – quanto meno sbrigativa, preoccupandosi assai poco dei propri partners e men che meno dell’Unione europea.

 

A proposito di Richard Rorty e del glorioso progressismo statunitense

 

Se all’indomani del tragico e fatidico 11 settembre, come aveva titolato «Le Monde», l’intero Occidente si era sentito «tutto americano» come un sol uomo, per i progressisti è diventata impellente, più di recente, una nuova e ulteriore identificazione: quella che non troppo tempo fa Timothy Garton Ash ha emblematicamente sintetizzato, affermando che «siamo tutti americani blu ora»,1 dal colore del Partito democratico ancora adesso, almeno parzialmente, sotto shock, dopo la sconfitta elettorale, e orfano di un leader. Or dunque, il quesito fondamentale è: esiste veramente un’«Altra America»? Qualcuno dice che è soltanto un’idea, la proiezione di una lista di desiderata tipicamente europei che c’entra poco o nulla con la prima (e unica) superpotenza planetaria odierna, int enzionata a fare e disfare, e a rimodellare l’ordine mondiale all’insegna di un «Nuovo secolo americano», in maniera – per usare un eufemismo – quanto meno sbrigativa, preoccupandosi assai poco dei propri partners e men che meno dell’Unione europea. Eppure quell’«Altra America», l’America bifronte – lacerata al suo interno (alla sinistra piace sempre, chissà perché, farsi del male) ma, in definitiva, indivisibile – liberal e radical, ha rappresentato, nel corso degli anni Sessanta e Settanta, fino alla «rivoluzione conservatrice» del reaganismo (propiziata dalla rivolta antifiscale del referendum californiano «Proposition 13» del 1978) la vera America; duramente contrastata dai repubblicani, i quali, però, non si sarebbero mai sognati sino ad allora di mettere in discussione la dignità dei lavoratori e il ruolo dello Stato e del Big Government, con la sua matrice «dirigista» e favorevole al welfare.2

Cosa ne resta ora? Una domanda che si rivela estremamente pressante e rilevante dopo l’impressionante vittoria riportata da George W. Bush e dai suoi «cavalieri cristianissimi » evangelici, così antitetici a quelli che popolarono la Camelot di «Re Artù JFK», esemplarmente celebrata dal suo «agiografo ufficiale» Arthur Schlesinger, che di Kennedy, il presidente delle grandi speranze, fu consigliere. Rimane, per fortuna, ancora molto.

Si tratta dell’America di periodici come «The Nation» o «Dissent», la «mitica» rivista di Michael Walzer e dei suoi «compagni di scorribande» intellettuali. Di movimenti attivistici e siti come «Act» (AmericaComingTogether) piuttosto che «MoveOn». Delle metropoli della East e West Coast come San Francisco, città della tolleranza civile e della convivenza multietnica, e concentrato di tutte le sinistre a stelle e strisce, raccontata in modo intelligentemente «fazioso» dal bravissimo Federico Rampini. O come l’elegante Boston, la città del patriziato liberal, custode delle memorie storiche del Nuovo mondo. E di quello straordinario ombelico del pianeta (la sua capitale, a buon diritto…) che è New York, la «cittàmondo» per antonomasia, il feroce cuore del capitalismo internazionale, ma al tempo stesso la metropoli progressista fatta di esseri umani con le loro infinite fragilità, narrata, al punto da rendercela familiare, da Woody Allen e dalla giovane straordinaria letteratura recente dei Foster Wallace e dei Franzen, con il loro «padre putativo» Paul Auster (su cui ci ha aggiornato Giulio Sapelli nel suo recente racconto di viaggio per «Italianieuropei»). E si tratta, soprattutto, dell’America di Bill Clinton (e del clintonismo), il quale, ancora adesso, rappresenta il «soccorso rosso» (o, meglio, «rosa») per eccellenza cui il Partito democratico attinge nei momenti difficili.

In poche parole, è l’America progressista e liberal oggetto del solo libro decisamente «politico» del grande filosofo e intellettuale statunitense Richard Rorty (non a caso un newyorkese, sia detto by the way): «Achieving Our Country. Leftist Thought in Twentieth Century America».3

 

Per un «liberalismo ironico»

Uomo in bilico tra Stati Uniti ed Europa (esponente di quella frazione – sfortunatamente minoritaria – di americani cosmopoliti, curiosi e aperti nei confronti del resto del mondo, come, per l’appunto, solamente certi yankees speciali sanno essere), Rorty è uno dei «principi del postmodernismo», nella sua versione maggiormente dialogante e meno «ideologica» (quella peculiarmente USA, giustappunto), e l’autore di un’opera che si vuole ponte tra filosofia analitica e continentale. Un filosofo di grande rilevanza, centrale nella seconda metà del Novecento, come pure un individuo estremamente colto e incline alle contaminazioni, proveniente dalla migliore storia democratica e progressista d’Oltreoceano. Un’avventura intellettuale partita, come mette brillantemente in luce nel suo volume, con i due cantori dell’orgoglio nazionale americano e le loro visioni, l’umanesimo di Walt Whitman e il pragmatismo «socialdemocratico» di John Dewey (il filosofo essenziale della democrazia statunitense contemporanea, la cui «riscoperta » e rilancio all’interno del dibattito europeo si deve in gran parte proprio a Rorty). Una vicenda di idee il cui esito è l’edificazione – quanto meno ideale – di una open society, intrisa di tolleranza e democrazia, di apertura e predisposizione alla conduzione pacifica dei rapporti tra gli Stati (antidoto così necessario all’odierno dilagare di fondamentalismi e integralismi di ogni natura), che venne, per l’appunto, concepita in seno al pragmatismo, il «corpus» teorico (volutamente e necessariamente asistematico), delineato da tre eccezionali studenti della Boston degli anni Sessanta del XIX secolo (affiancati dal loro più giovane sodale Dewey) – William James, Charles Sanders Peirce e Oliver Wendell Holmes jr – animatori di quel club denominato il «Circolo metafisico», la cui avvincente storia è stata ricostruita in un altro splendido libro degli ultimi anni (vincitore di un premio Pulitzer), scritto dal critico letterario e columnist politico Louis Menand.4

Perfettamente in linea con questa eredità, nel suo libro «La filosofia dopo la filosofia»5 – consacrato, non a caso, «alla memoria di sei liberali: i miei genitori e i miei nonni» (l’autore, infatti, crebbe all’interno di una grande famiglia dell’intellighentzia di sinistra riformista e anticomunista USA) – Rorty dà vita a una sorta di archetipo o di eponimo (cui dovrebbero ispirarsi tutti i riformisti) degno, ci sembra, di campeggiare nel pantheon dei personaggi letterari novecenteschi. Quasi un personaggio joyciano, un nuovo «Ulysses», ovvero l’ironico – e potremmo aggiungere l’irenico – liberale, il cui laicissimo «credo» si compendia mediante le tre formule della contingenza, dell’ironia e della solidarietà. È costui un liberale autentico e in senso pieno, il cui liberalism si nutre del significato dell’accezione statunitense, vale a dire «progressismo» e liberalismo di sinistra. Un liberale «a diciotto carati» che nutre istintiva perplessità riguardo a quella vena ossessivamente comunitaris a o neocomunitaria, chiusa e ripiegata su se stessa, da tempo assai in auge negli Stati Uniti, alla quale contrappone il proprio senso della relatività delle cose e dei valori e la propria naturale apertura verso la molteplicità.

Nel liberalism risiede, a giudizio del filosofo (e siamo ben lieti di pensarla nello stesso identico modo), l’eredità più autorevole e sincera della tradizione americana, che è tale anche per numerosi altri esponenti della sinistra democratica USA, quali John Kenneth Galbraith piuttosto che Robert Reich.6 Rorty crede nella vitalità e nella forza delle tradizioni delle varie comunità e contesti, linguistici e culturali, sostanzialmente rinnegate e umiliate dall’indifferentismo e dall’omogeneità prevaricatrice delle ideologie – che, naturalmente, da buon postmoderno rifiuta recisamente – a patto, però, che dialoghino tra loro e non si rinserrino in maniera «autarchica» su se stesse. In una delle sue maggiori e più fortunate opere teoretiche7 sostiene che a una modalità di fare filosofia come «epistemologia» se ne deve sostituire un’altra «ermeneutica», in grado di riconoscere la storicità dei paradigmi – dai linguistici a quelli scientifici – entro i quali si svolge l’esistenza umana, individuale e collettiva, valorizzando così pienamente la ricchezza della loro pluralità, garanzia contro l’imposizione ideologica e fondamento di un esercizio dell’attività intellettuale che concepisce la vita in termini poetici e morali, anziché pesantemente fondativi e gnoseologici, e che alimenta in tal modo la grande «conversazione dell’umanità». Come scrive Gianni Vattimo nella prefazione all’edizione italiana del libro, il filosofo si rivela alfiere di una sinistra «pragmatista» ed ermeneutica, la quale ci pare costitutivamente «errabonda» e inquieta, e propensa a identificarsi nella figura dell’acuto e perennemente insoddisfatto flaneur baudelairiano, che attraversa gli accadimenti e le esperienze. Campione di un postmodernismo intelligente e non sterilmente rassegnato, né men che mai cinico, Rorty stigmatizza l’illusione del razionalismo illuminista di uniformare il mondo, ma non si esime dal polemizzare – all’insegna di un pensiero sempre pronto alle rivisitazioni e a ripensare se stesso – con una certa deriva francese del post-strutturalismo che finisce per cadere in una sorta di rinnovato – e ineffabile – «pathos» quasi religioso oppure per trasformare la filosofia in un apparato – molto postmodern, per l’appunto – di «pubbliche relazioni»; e non risparmia neppure la tendenza dei cultural studies a tramutarsi in «studi vittimari» come li ha ribattezzati Stefan Collini. Al reincanto propagandato dai decostruzionisti snobbish (e da certi ambienti radical e po-mo eccessivamente compiaciuti delle università della West Coast) oppone così un progressismo della speranza e una sinistra umanista e della secolarizzazione.

Se i neoprogs8 statunitensi (personaggi quali Mark Crispin Miller, Sean Wilenz, Jeff Madrick, Jonathan Schell, David Cole e numerosi altri ancora cui è affidata la speranza della rinascita di un pensiero di sinistra americano) hanno un «padre nobile», dunque, costui è sicuramente Richard Rorty, pronto a rammentarci, nella becera tiritera della destra trionfante – in cui si distingue, come sempre, quella italiana – sulla «perdita dei valori» che questi costituiscono il prodotto di percorsi culturali e storici, e non certo la sedimentazione di una sedicente «verità rivelata». Il «relativismo responsabile» ha fatto grande l’America; rappresenta un patrimonio inscritto nel codice genetico di una parte della sinistra occidentale, nonché l’unica modalità per governare senza violenza né sopraffazione le società del multiculturalismo. Non gettiamolo, quindi, a mare sull’onda di un’inutile rincorsa di tematiche neocon o, peggio ancora, teocon, ma troviamo il modo di farne il cuore di una nuova «società decente», come la chiamerebbe Avishai Margalit. Perché non esiste riformismo (di sinistra) senza relativismo.

 

Richard Rorty

Una sinistra per il prossimo secolo. L’eredità dei movimenti progressisti americani del Novecento Whitman e Dewey, ho argomentato, ci hanno provvisto di tutto il racconto mitico e di tutta l’edificazione spirituale di cui gli americani hanno bisogno per trattare la loro attività pubblica. Come osserva Edmundson, non dovremmo permettere che Emerson, un precursore tanto di Whitman quanto di Dewey, sia spodestato da Poe che è stato un precursore di Lacan. Al fine di pensare come portare a compimento la tradizione di questo paese, non è necessario preoccuparsi della teoria della verità come corrispondenza, dei fondamenti della normatività, dell’impossibilità della giustizia e dell’infinita distanza che ci separa dall’altro. Per quegli scopi, è possibile concedere un lasciapassare alla religione come alla filosofia. Ma possiamo tirare avanti solo cercando di risolvere «i problemi dell’uomo», come diceva Dewey.

Pensare a quei problemi significa astenersi dal pensare così tanto all’essere altro da iniziare ad aderire a ciò che Todd Gitlin ha chiamato, nel titolo di un suo recente libro, «il crepuscolo dei sogni comuni». Significa derivare la propria identità morale, almeno in parte, dalla cittadinanza in una nazione democratica e dai tentativi di adempiere alla promessa di quella nazione.

La sinistra culturale spesso sembra persuasa che lo Statonazione sia obsoleto e che perciò non abbia più senso cercare di rianimare la politica nazionale. Il problema di questa asserzione è che il governo del nostro Stato-nazione sarà, per l’immediato futuro, l’unico agente in grado di fare una qualche differenza nel grado di egoismo e di sadismo inflitto agli americani.

Non c’è consolazione, per chi corre il pericolo di impoverirsi a causa della globalizzazione, nel sentirsi dire che, siccome i governi nazionali divengono irrilevanti, dobbiamo escogitare un modo per rimpiazzarli. I cosmopoliti superricchi non ritengono che ciò sia necessario, ed è probabile che finiscano per prevalere. Bill Readings aveva ragione quando sosteneva che «lo Stato-nazione ha cessato di essere l’unità elementare del capitalismo», ma rimane in ogni caso l’entità che assume le decisioni sui benefici sociali e quindi sulla giustizia sociale. L’attuale modo di sinistra di allargare la visuale e di guardare al di là della nazionalità verso una strategia politica globale è altrettanto infruttuoso quanto la fede nella filosofia della storia di Marx, della quale quel modo è diventato un sostituto. Entrambi sono ugualmente irrilevanti per la questione di come prevenire il riemergere delle caste ereditarie, o di come evitare che i populisti di destra traggano vantaggio dal risentimento generato da quel riemergere. Quando pensiamo a questi problemi, iniziamo a comprendere che una delle trasformazioni essenziali cui la sinistra culturale dovrà sottoporsi è l’abbandono del suo seminconscio antiamericanismo, che ha ereditato dalla rabbia dei tardi anni Sessanta. Questa sinistra dovrà smettere di escogitare termini sempre più astratti e ingiuriosi per il «sistema», per cercare piuttosto di costruire immagini dell’America in grado di motivare i suoi cittadini. Solo in questo modo può iniziare a stringere alleanze con ambienti esterni all’accademia – in particolare con i sindacati. Fuori dell’accademia, gli americani vogliono ancora sentirsi patriottici. Vogliono ancora sentirsi parte di una nazione che è in grado di assumere il controllo del proprio destino e di diventare migliore.

Se la sinistra non stringe queste alleanze, non avrà mai alcun effetto sulle leggi degli Stati Uniti. La sinistra culturale potrà stringerle se lascerà perdere il ritratto disegnato da Baudrillard dell’America come Disneyland – un paese di simulacri – e inizierà a proporre emendamenti nelle leggi di un paese reale, abitato da persone reali che hanno sopportato sofferenze non necessarie, a molte delle quali può rimediare un’azione di governo. Niente sarebbe più utile per far rinascere la sinistra americana quanto un accordo su una concreta piattaforma politica, una Carta dei Cittadini, una lista di specifiche riforme. Una lista di questo tipo – incessantemente ristampata e discussa, familiare tanto ai professori quanto ai lavoratori, impressa nella mente dei professionisti come di coloro che puliscono i bagni dei professionisti – potrebbe rivitalizzare la politica di sinistra.

I problemi che possono essere risolti da un’azione di governo, e che una lista siffatta metterebbe in agenda, sono per lo più quelli che derivano dall’egoismo piuttosto che dal sadismo. Ma il fatto di contribuire a risolverli aiuterebbe la sinistra, se solo lo volesse, a modificare il tono con cui oggi discute il sadismo. La sinistra riformista preanni Sessanta, preoccupandosi delle minoranze oppresse, proclamava che tutti, neri, bianchi o di pelle scura, sono americani, e che devono rispettarsi reciprocamente come tali. Questa strategia ha dato origine ai film «di squadra» (platoon movies), che mostravano americani di diverse origini etniche lottare e morire fianco a fianco. Al contrario, la sinistra culturale contemporanea insiste nel dire che l’America non dovrebbe essere un melting-pot, perché abbiamo l’esigenza di rispettarci l’un l’altro nelle nostre differenze. Questa sinistra vuole preservare l’identità piuttosto che ignorarla.

La distinzione tra la vecchia strategia e la nuova è importante. La scelta segna la differenza tra quelli che Todd Gitlin chiama i «sogni comuni» e quello che Arthur Schlesinger chiama «l’America che disunisce». L’orgoglio di essere nero o gay costituisce una risposta del tutto ragionevole alla sadica umiliazione a cui si è soggetti. Ma nella misura in cui questo orgoglio impedisce a qualcuno di essere anche orgoglioso della propria cittadinanza americana, di credere che il suo paese è capace di riforme, di unirsi agli eterosessuali o ai bianchi per iniziative riformiste, esso costituisce un disastro politico. (…)

Solo una retorica dell’appartenenza comune può creare una maggioranza vincente nelle elezioni nazionali. Non so se verrà trovata una qualche nuova via di questo tipo. Nessuno ha ancora suggerito una praticabile alternativa di sinistra alla religione civile di cui Whitman e Dewey erano profeti. Quella religione civile era orientata a trarre profitto dal tradizionale orgoglio di essere americani per sostituire la giustizia sociale alla libertà individuale come meta principale. (…)

Un giorno, forse, scopriremo che le riforme graduali, accumulandosi hanno condotto a cambiamenti rivoluzionari. Queste riforme un giorno potrebbero produrre quell’economia non di mercato al momento inimmaginabile, e poteri decisionali distribuiti in direzione orizzontale. Se analoghe riforme fossero intraprese in altri paesi, potrebbero addirittura configurare una federazione internazionale, un governo mondiale. In questo nuovo mondo, l’orgoglio nazionale americano diventerebbe un elemento pittoresco – come l’orgoglio di venire dal Nebraska o dal Kazakhstan o dalla Sicilia. Ma nel frattempo, non dovremmo lasciare che l’optimum descritto in termini astratti divenga nemico del meglio. Non dovremmo lasciare che la speculazione su un sistema totalmente diverso, e su un modo di pensare alla vita umana e alle faccende umane totalmente differente, prenda il posto di una riforma passo dopo passo del sistema che attualmente abbiamo.

Lasciatemi ritornare, ancora una volta, al tema con il quale ho esordito: il contrasto tra atteggiamento da spettatori e partecipazione attiva.

Dal punto di vista di uno spettatore distaccato e cosmopolita, l’America sembra avere pochi motivi di orgoglio. Gli Stati Uniti alla fine hanno liberato i loro schiavi, ma all’epoca inventarono anche le leggi di segregazione che avevano la stessa ingegnosa crudeltà delle leggi di Norimberga promulgate da Hitler. Hanno iniziato a creare uno Stato sociale, ma ben presto sono rimasti indietro rispetto alle altre democrazie industriali nel garantire eguali servizi sanitari e scolastici e pari opportunità ai bambini dei ricchi e dei poveri. I lavoratori degli Stati Uniti hanno creato un forte movimento sindacale, ma poi hanno permesso che questo movimento fosse schiacciato da una legislazione restrittiva e dai gangster a cui fu permesso per la loro debolezza di assumere il controllo di molte sezioni locali. Il governo degli Stati Uniti ha snaturato una giusta crociata contro un impero del male, per ridurla a una cospirazione con oligarchi di destra per sopprimere movimenti socialdemocratici.

Sono andato argomentando che la risposta appropriata a queste osservazioni è che noi americani non dovremmo assumere il punto di vista di un distaccato spettatore cosmopolita. Dovremmo guardare in faccia spiacevoli verità su noi stessi, ma non dovremmo assumere queste verità come l’ultima parola sulle nostre chance di felicità o sul nostro carattere nazionale. Il nostro carattere nazionale è ancora sempre in via di formazione. Pochi nel 1897 avrebbero previsto il Movimento progressista, la settimana di quaranta ore, il voto alle donne, il New Deal, il Movimento per i diritti civili, i successi della seconda ondata del femminismo, o il Movimento per i diritti dei gay. Nessuno nel 1997 può affermare che l’America non testimonierà, nel corso del prossimo secolo, un progresso morale ancora più grande.

Whitman e Dewey cercarono di sostituire la speranza alla conoscenza. Cercarono di mettere i sogni utopici condivisi – sogni di una società idealmente onesta e civile – al posto della conoscenza della Volontà di Dio, della Legge Morale, delle Leggi della Storia o dei Fatti della Scienza. Il loro partito, il partito della speranza, ha fatto dell’America del XX secolo qualcosa di più grande di un semplice gigante economico e militare. Senza la sinistra americana, noi avremmo certo potuto essere forti e audaci, ma nessuno avrebbe potuto sostenere che eravamo una buona nazione. Finché avremo una sinistra politica efficace, avremo ancora la possibilità di portare a compimento il nostro paese, di fare dell’America il paese dei sogni di Whitman e Dewey.

da R. Rorty, Una sinistra per il prossimo secolo. L’eredità dei movimenti progressisti americani del Novecento, Garzanti, Milano 1999.

 

Chi è Richard Rorty?

Considerato uno dei maggiori filosofi contemporanei, Rorty (nato a New York nel 1931) insegna attualmente a Stanford. Cresciuto all’interno di alcune delle tradizioni culturali anglosassoni per antonomasia, la filosofia analitica e il pragmatismo (nella sua filiazione semiotica), Rorty è divenuto uno dei protagonisti fondamentali del postmodernismo. Dopo aver teorizzato la «fine della filosofia», ha elaborato un’originale forma di «decostruzionismo pragmatista» che abolisce la Verità assoluta, relativizzando e contestualizzando le credenze, senza però consegnarci alla «terra desolata» del pensiero negativo, ma alimentando il fuoco della speranza di un progresso razionale e umanitario.

 

 

Bibliografia

1 T. Garton Ash, L’America contro l’America, in «La Repubblica», 20 novembre 2004.

2 Lo Stato sociale, pilastro delle politiche europee (come evidenzia molto bene il saggio di R. Vinen, L’Europa nel Novecento. Una storia sociale, Carocci, Roma 2004), esistette dunque a lungo, sia pur con proprie specificità, anche sull’altra sponda dell’Atlantico.

3 R. Rorty, Una sinistra per il prossimo secolo. L’eredità dei movimenti progressisti americani del Novecento, Garzanti, Milano 1999.

4 L. Menand, ll Circolo metafisico. La nascita del pragmatismo americano, Sansoni, Firenze 2003.

5 Rorty, La filosofia dopo la filosofia, Laterza, Roma-Bari 1989.

6 R. Reich, Perché i liberal vinceranno ancora, Fazi, Roma 2004.

7 Rorty, La filosofia e lo specchio della natura, Bompiani, Milano 1986.

8 R. Festa, Cosa succede a un sogno. Le nuove tesi dei «neoprogs» USA, Einaudi, Torino 2004.