Lifelong learning in Italia: il miraggio dell'educazione continua

Written by Francesco Florenzano Monday, 01 November 2004 02:00 Print

È difficile scrivere di «politiche della formazione» senza rischiare di ripetersi, di annoiare, di cadere in un contorto ragionamento o in proposte che si aggiungono a quelle già fatte negli anni passati; se non si inserisce nel dibattito quel quid capace di coagulare dell’interesse che abbia la reale possibilità di diventare politica attiva e programma di governo. La natura stessa del soggetto nuovo che si è affacciato sullo scenario europeo, noto come lifelong learning, non concede deroghe alle azioni da intraprendere. Ma il tempo che scorre incessantemente senza produrre leggi e riforme degne di questo nome ci induce a riflettere sulla effettiva volontà di promuovere non solo la formazione, ma anche la cittadinanza attiva.

 

È difficile scrivere di «politiche della formazione» senza rischiare di ripetersi, di annoiare, di cadere in un contorto ragionamento o in proposte che si aggiungono a quelle già fatte negli anni passati; se non si inserisce nel dibattito quel quid capace di coagulare dell’interesse che abbia la reale possibilità di diventare politica attiva e programma di governo. La natura stessa del soggetto nuovo che si è affacciato sullo scenario europeo, noto come lifelong learning, non concede deroghe alle azioni da intraprendere. Ma il tempo che scorre incessantemente senza produrre leggi e riforme degne di questo nome ci induce a riflettere sulla effettiva volontà di promuovere non solo la formazione, ma anche la cittadinanza attiva.

Per capire cosa è accaduto nell’ambito dell’educazione degli adulti in Italia e in Europa occorre fare un po’ di cronistoria, consapevoli che questi temi, per quanto strategici e a detta di tutti irrinunciabili per lo sviluppo economico e sociale, di fatto non sono mai entrati tra le priorità dell’agenda politica italiana. Ecco dunque la necessità di ripercorrere le tappe del lavoro politico, ma anche concettualmente pedagogico, svolto dall’Unione europea.

L’Unione europea a partire dal 1996, anno di pubblicazione del Libro bianco di Edith Cresson,1 (erano gli anni di Jacques Delors alla presidenza della Commissione europea) ha coniato un nuovo concetto di formazione, lanciato con la proclamazione dell’anno europeo. Il lifelong learning viene ufficializzato e celebrato con la valorizzazione della società della conoscenza, dell’informazione e del valore cognitivo, tutti elementi che in realtà da tempo coesistevano. Un ribaltamento vero e proprio del concetto di formazione: da quel momento infatti non si parla più di educazione, ma di apprendimento. E l’apprendimento assume i connotati, che ora conosciamo meglio, di quel lifelong learning, ovvero dell’apprendimento durante tutto il corso della vita, come fattore di riscossa per chi non ha potuto studiare, di riqualificazione personale e professionale per chi lavora, di aggiornamento concettuale e informativo per quel cittadino che intende dare il suo contributo alla crescita della democrazia. Il 1996 è stato un anno di misunderstanding, specialmente in Italia. In alcuni convegni si disquisiva di «educazione durante tutto il corso della vita», intendendola «dalla vita alla morte», mentre l’attenzione del Libro bianco era centrata su un’età che non superava i 45 anni! L’Unione europea da allora ha dedicato programmi comunitari (ad esempio Socrates e Grundvigt), documenti come «Istruzione e formazione 2010», il «Memorandum» ecc., sempre con la sola finalità di rinnovare il ruolo centrale dell’apprendimento nella società della conoscenza. Un modo per includere e allo stesso tempo per ridurre le discriminazioni; un modo per riconoscere ancora una volta le specificità nazionali e il valore dell’Europa. A un’Europa così attiva e tenacemente ottimista non sempre hanno corrisposto le azioni degli Stati membri. L’Italia è stata capace fino a pochi anni fa di mantenere un buon profilo con alcuni interventi e accordi che hanno preso spunto dalle spinte europee.

Basti ricordare momenti quali: il cosiddetto «Patto di Natale» del 1996,2 il documento della Conferenza unificata Stato-regioni-città e autonomie locali del 2 marzo 20003 e tutta una serie di iniziative, che sulla carta hanno sempre evidenziato il ruolo del lifelong learning in Italia e in Europa. Anche il «Patto per l’Italia» del 2002,4 tra il governo Berlusconi e una parte dei sindacati, sottolineava proprio l’importanza dell’apprendimento durante tutto l’arco della vita, indicando l’obiettivo di 700.000 persone in formazione. Nel frattempo, una ricerca dell’ISFOL del 20035 ha evidenziato, sia sul fronte dell’offerta che su quello della domanda, la grande attrattiva del settore dell’apprendimento, percepito come essenziale per lo sviluppo personale e professionale.

Le politiche nazionali e regionali sul lifelong learning si fanno però attendere, anche se in alcune regioni esistono tentativi di integrare i sistemi di istruzione, formazione professionale ed educazione degli adulti. È il caso della regione Toscana, che ha varato un piano articolato di integrazione di tutto il settore formazione su scala provinciale e locale, con punte di innovazione e di originalità (come i circoli di studio), ma con risultati più di immagine che di reale concretezza (il primo ciclo dei circoli di studio ha contato qualche centinaio di frequentanti in tutta la regione).

Nonostante la differente velocità tra le decisioni dei consigli dei ministri dell’Unione europea e l’Italia, è l’Europa stessa a sottolineare che: «Tutte le relazioni e gli indicatori disponibili inducono a formulare la stessa conclusione: se le riforme continuano al ritmo attuale l’Unione non sarà in grado di raggiungere i suoi obiettivi in materia di istruzione e di formazione. Continuano a esservi troppi punti deboli che limitano le potenzialità di sviluppo dell’Unione».6 Il destino di tante raccomandazioni e risoluzioni dell’Unione europea sembra essere perennemente la revisione dei parametri e degli obiettivi stabiliti dalla cosiddetta Strategia di Lisbona. Infatti, il Consiglio europeo del 4-5 novembre 2004 ha predisposto una conferenza di metà tempo per la primavera 2005, ribadendo la necessità di proseguire il lavoro e spronando ancora una volta i paesi membri a fare di più, segno che forse non si sta facendo quanto promesso!

 

Cosa si intende per apprendimento continuo?

Per comprendere a pieno la portata concettuale del lifelong learning occorre risalire alla definizione di apprendimento continuo, ripresa in più documenti dell’Unione europea. Infatti, l’Unione attraverso varie consultazioni nei singoli paesi, tra le quali il Memorandum,7 ha ribadito che la definizione generale dell’apprendimento permanente non deve limitarsi a una visione puramente economica o alla mera istruzione degli adulti. L’apprendimento permanente inteso nella fattispecie della continuità cronologica, da prima della scuola a dopo la pensione, dovrebbe coprire l’intera gamma di modalità dell’apprendimento formale e non solo del non formale e informale. Il processo messo in atto dal Memorandum ha evidenziato tra gli obiettivi dell’apprendimento: la cittadinanza attiva, l’autorealizzazione e l’inclusione sociale, nonché gli aspetti legati all’occupazione. I principi che presiedono all’apprendimento permanente e che ne orientano la concreta attuazione valorizzano la centralità del discente, l’importanza delle pari opportunità e la qualità e pertinenza delle opportunità di apprendimento. Quindi, nonostante il gran parlare di educazione degli adulti in Italia, in effetti il concetto espresso dall’Unione europea ne è anche il suo superamento. Conclusione avallata ancora di più dalla recentissima decisione del Consiglio d’Europa di proclamare il 2005 come anno europeo della «Cittadinanza attraverso l’educazione», attribuendo ancora una volta all’educazione il valore di formazione civica per il rafforzamento della democrazia e della partecipazione attiva dei singoli.

La comprensione del concetto di apprendimento continuo non sarà mai chiara se non si ricordano le tre diverse categorie fondamentali di apprendimento finalizzato:

  • l’«apprendimento formale», che si svolge negli istituti d’istruzione e di formazione e porta all’ottenimento di diplomi e di qualifiche riconosciute;
  • l’«apprendimento non formale», che si svolge al di fuori delle principali strutture di istruzione e di formazione e, di solito, non porta a certificati ufficiali. L’apprendimento non formale è dispensato sul luogo di lavoro o nel quadro di attività di organizzazioni o gruppi della società civile (associazioni, Università popolari, sindacati o partiti politici). Può essere fornito anche da organizzazioni o servizi istituiti a complemento dei sistemi formali (quali corsi d’istruzione artistica, musicale e sportiva o corsi privati per la preparazione degli esami);
  • l’«apprendimento informale» è il corollario naturale della vita quotidiana. Contrariamente all’apprendimento formale e non formale, esso non è necessariamente intenzionale e può pertanto non essere riconosciuto, a volte anche dallo stesso interessato, come apporto alle sue conoscenze e competenze.

 

La facile confusione tra la formazione professionale e l’educazione degli adulti8

Con l’introduzione del concetto di lifelong learning tutti si sono sentiti in dovere di intervenire nel processo riformatore del mercato formativo della cittadinanza (lavoratrice e non). Nel dibattito corrente italiano sui processi di formazione si passa, senza soluzione di continuità, dalla formazione professionale, offerta agli inoccupati e ai disoccupati, attraverso la formazione continua degli occupati, alle Università popolari e della terza età. La cosa, anche se non sbagliata in linea di principio, contribuisce a creare equivoci in virtù dei quali ognuno è legittimato a interpretare il lifelong learning come meglio crede e a tutela dei propri interessi corporativi, mentre è dato per acquisito che il nuovo sistema di apprendimento includa tutti in ottemperanza delle sue finalità di integrazione. Vale a dire che se il lifelong learning è un elemento unitario e unificante che cambia la prospettiva formativa dell’individuo e della società, per il raggiungimento di tal fine l’educazione degli adulti non può limitarsi alla formazione libera dal momento che già nella sua espressione include le categorie sociali dell’intera cittadinanza, indipendentemente dalla condizione occupazionale. Eppure, mantenendo separati i sistemi ci troviamo di fronte a differenti letture della formazione che, proprio perché mantenuta in uno stato confusionale, non produce quella trasferibilità indispensabile alla crescita di un sistema formativo. La mancanza di concetti comuni determina un uso cicero pro domo sua del lifelong learning, dell’educazione degli adulti e della formazione professionale, con il rischio di un assorbimento di quanto vi è di più innovativo nella burocratica e formale amministrazione della formazione professionale. Basti pensare alle modalità di accredito delle strutture, atte a favorire chi è impresa e chi è ricco di suo, penalizzando le iniziative formative nuove che nascono dai cittadini.

 

La Strategia di Lisbona e i dati (impietosi) EUROSTAT

«Il Consiglio europeo di Lisbona (marzo 2000) ha fissato come obiettivo strategico che l’UE diventi entro il 2010 l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo. Per raggiungerlo, il Consiglio europeo di Stoccolma (marzo 2001) ha stabilito gli obiettivi concernenti i sistemi di istruzione e formazione europei».9 Ricordiamo che l’obiettivo strategico minimo (non massimo, come invece si tende a sostenere) da raggiungere è la partecipazione di almeno il 12,5% della popolazione dai 25 ai 64 anni a una forma di apprendimento. Recentemente con la pubblicazione del Rapporto EUROSTAT10 si è appreso che nella rilevazione della primavera 2003 gli Stati dell’Unione hanno raggiunto una partecipazione media del 9%, a fronte dell’8,5% registrato nel 2002. I dati riassumono gli indicatori europei ed evidenziano che l’Italia nella graduatoria UE-25 si trova al quart’ultimo posto. Gli Stati dell’Unione che vedono una partecipazione massiccia di persone in formazione sono nell’ordine la Svezia (34,55%), l’Islanda (24,0%), il Regno Unito (21,3%). Germania e Francia (importanti locomotive economiche) sono rispettivamente al 6% e al 7,4%.

In valori assoluti, l’Italia ha al momento solo 1.517.000 partecipazioni (attenzione, non partecipanti!), con l’obiettivo di superare nel 2010 i quattro milioni, che se ponderate al tasso di invecchiamento di questo gruppo di età, si avvicineranno a cinque milioni! Ovviamente da questa rilevazione si evince un dato che era sfuggito già nel 1995, ovvero che le statistiche europee sono limitate alla popolazione adulta attiva e ignorano il percorso formativo dei pensionati e delle persone anziane in generale, mentre sono tante le persone che in tutta Europa non solo lavorano oltre i 65 anni, ma frequentano corsi di formazione e partecipano a una articolata e intensa attività culturale.

Tabella 1

 

Dati non rilevati dell’apprendimento non formale in Italia

I metodi di rilevazione europei seguono criteri di omogeneità sovrapponibili nei vari paesi, per cui alcuni dati di carattere nazionale non sono affatto considerati e anzi sono a priori esclusi dalle statistiche. Ad esempio, questo metodo esclude a priori le attività formative del cosiddetto «mondo del non formale», fatto di migliaia di attività diffuse capillarmente sul territorio, che sono difficilmente riconducibili alle burocrazie dei sistemi di accredito delle regioni o delle province.

Per mostrare cosa si perde in termini di dati, ma anche di differente qualità di formazione, indicheremo i due principali pilastri di questo settore. È da sottolineare a priori che le rilevazioni seguenti si riferiscono solo alle attività corsuali (qualunque sia la loro durata), trascurando le migliaia di attività di apprendimento non formale e informale, espresse soprattutto nelle Università popolari (UP) e nelle Università della terza età (UTE) attraverso conferenze, presentazioni di libri, viaggi e visite culturali, seminari, workshop e altre forme espresse nei singoli territori con grande originalità e creatività. Il primo fa riferimento alla partecipazione presso i CTP (Centri territoriali permanenti) e il secondo alle Università popolari e della terza età. Mentre per i primi esiste una rilevazione del MIUR, fatta annualmente e della quale si pubblica un rapporto, della seconda si sa poco e si possono dare delle indicazione sui partecipanti solo con una stima resa possibile da una recente ricognizione che ha fissato il numero delle sedi legali e di quelle didattiche. Proveremo a mettere insieme alcuni dati, per fornire un quadro più completo.

Tabella 2

I dati in nostro possesso mostrano una nuova realtà di partecipazione alle attività formative finalizzate soprattutto all’apprendimento non formale ed evidenziano una condizione ben radicata sul territorio nazionale da parte di enti pubblici e di enti privati. Gli enti pubblici denominati Centri territoriali permanenti (CTP), istituiti nel 1997 con l’ordinanza n. 455 dell’allora ministro Berlinguer, sono progressivamente cresciuti, anche se vivono in un continuo stato di precarietà, per cui all’entusiasmo di alcuni periodi sono seguite le depressioni e le incertezze di altri. Per l’anno in corso, il MIUR ha incrementato il finanziamento dell’anno precedente nella misura del 45%, dando però ai CTP nuove finalità (e forse più ristrette). Ovviamente, nulla è stato fatto nei confronti delle Università popolari in termini sia di finanziamenti sia di riconoscimenti, se non in maniera episodica e locale.

I dati di cui disponiamo permettono di evidenziare le seguenti questioni di primaria importanza per la comprensione e lo sviluppo dell’apprendimento permanente dei cittadini: a) nei CTP la popolazione straniera è molto rappresentata; b) nei CTP e nelle UP i partecipanti hanno un titolo di studio medio alto.

Per contro, si osserva che la popolazione delle fasce deboli – fatta eccezione per quella straniera nei CTP – è difficilmente coinvolta dall’apprendimento permanente. Lo è certamente di più nelle sedi periferiche delle Università popolari o della terza età, costituendo il target specifico di queste. Ma pensionati e donne che frequentano i corsi lo fanno quando sono già in possesso di un titolo di studio superiore o del diploma di laurea.

I dati sulle attività delle Università popolari e della terza età rappresentano il sommerso dell’educazione permanente italiana. Esse sono relegate a un fenomeno di assistenza sociale piuttosto che a un contributo importante dell’apprendimento permanente nel nostro paese. Tra l’altro, il fatto che esistano delle reti tematiche quali la FIPEC di Roma, la Federuni di Vicenza, la Unitre di Torino, la CNUPI e recentemente l’Edaforum di Firenze, fa pensare che esista una volontà di rappresentazione in ambito nazionale non trascurabile. Queste realtà promuovono convegni, incontri, momenti di riflessione che mirano a diffondere valori, ma soprattutto a rafforzare la crescita delle attività delle associazioni sul territorio. Infine, il Forum permanente del Terzo settore ha al suo interno un Coordinamento tematico sulla formazione permanente al quale partecipano realtà che normalmente non dichiarano attività di educazione degli adulti (ne fanno parte tra gli altri, oltre alla FIPEC, anche Legambiente, FIVOL, Focsiv, la Compagnia delle opere, le ACLI, l’Arci ecc.), rafforzando l’idea dell’esistenza di un mondo misconosciuto che amplia notevolmente i confini dell’educazione permanente, ma che forse per primo non si riconosce. Questo fenomeno di misconoscimento è stato rilevato anche dalla citata indagine dell’ISFOL del 2003, che ha evidenziato l’ampia offerta presente sul territorio, ma anche la difficoltà da parte degli attori dell’offerta stessa a riconoscerla come tale. È il caso delle biblioteche (che fanno indubbiamente formazione) e di molte associazioni, le quali rispettivamente ritengono di fare cultura e politica, prima ancora di educare.12

Qualche considerazione sulle Università della terza età va fatta per tentare di farle rientrare in un discorso omnicomprensivo e scongiurare la loro definitiva ghettizzazione. Alcune federazioni di Università della terza età difendono orgogliosamente la propria origine dando lettura delle proprie azioni con un nostalgico monologo che le pone al centro di un mondo che nel frattempo è cambiato ed evoluto. Sognano una «legge quadro sulle Università della terza età» e attraverso una propria lobby presentano proposte che giungono al parlamento. Non si capisce che tipo di status intendano avere, considerato che dal punto di vista civilistico è ben definito ormai quello di associazione, fondazione, cooperativa. «Sognano», perché il consenso che riescono a strappare è legato più all’idea di Università della terza età che al bisogno popolare. In realtà le Università della terza età sono inserite a pieno titolo nell’ambito culturale, formativo e sociale dalle regioni sia attraverso leggi specifiche che attraverso le nuove attività di educazione degli adulti. Si differenziano le Università popolari, come quelle della FIPEC, le quali, rientrando nel Forum permanente del Terzo settore si riconoscono a pieno titolo nella formazione permanente e dell’educazione degli adulti. La formazione non dovrebbe avere età, questo si intende quando si parla di «apprendimento per tutto l’arco della vita».

I CTP, che sono una estensione di precedenti attività del MIUR, si sono inseriti nel mondo dell’educazione degli adulti, a volte con una specifica mission scolastica (fornire opportunità per conferire titoli di studio), a volte con innovazioni formative capaci di attirare una popolazione di età variabile tra i 35 e i 55 anni. Godono di molta considerazione nel mondo politico, tanto è vero che sono inseriti sempre in tutti i piani territoriali dell’Eda. I CTP, benché siano di recente istituzione, sono comunque ben conosciuti dalla gente, anche se per anzianità di servizio le Università della terza età sono decisamente più popolari. Potremmo paragonare la popolarità delle Università popolari e della terza età alla trasmissione di Alberto Manzi «Non è mai troppo tardi», che a distanza di 40 anni è ancora viva nel ricordo degli italiani!

 

Alla ricerca di una legge italiana sul lifelong learning

La delicata materia delle leggi sulla formazione e sull’istruzione è sempre terreno di scontro piuttosto che di incontro. Nonostante ciò, quando si tratta di stanziare risorse, in genere i governi (e in misura maggiore quelli di centrodestra) ne concedono sempre poche, o per lo meno insufficienti a fare sistema. Attualmente non ci sono proposte di legge sull’apprendimento lungo il corso della vita, ma solo indicazioni e materiale per giungere a una legge cornice. Nel giugno 2004 i DS, insieme alla Margherita, hanno predisposto una proposta che, sebbene non ancora articolata, chiarisce la loro posizione sulla materia.13 In realtà la proposta, sebbene parta dalla ormai acquisita consapevolezza della necessità di attuare la Strategia di Lisbona e dalla presa di coscienza del cronico ritardo italiano, è centrata sul concetto di lifelong learning finalizzato soprattutto al lavoro, diretta conseguenza dell’orientamento dei proponenti. In effetti, la Strategia di Lisbona è finalizzata soprattutto al raggiungimento di nuove condizioni di lavoro, sia in termini di conoscenza che di nuovi posti. La proposta italiana che ne è scaturita appare più che altro una armonizzazione tra politiche scolastiche e di formazione (professionale e continua) e le raccomandazioni dei vari Consigli europei. Manca, o non è esplicitato apertamente, il ruolo del Terzo settore (comprendente associazioni, Università popolari ecc.), che ha fatto e fa la differenza nella formazione italiana. Manca un riconoscimento del ruolo della cosiddetta «cittadinanza attiva». Gli estensori hanno però dichiarato di voler accogliere suggerimenti in materia, per cui occorre proporre delle novità onde evitare di portare avanti una legge fortemente sbilanciata verso il mondo del lavoro, a discapito del riconoscimento del ruolo della «cittadinanza attiva».

Anche le ACLI hanno presentato una loro proposta di legge,14 centrata soprattutto sul concetto chiave del diritto-dovere alla formazione individuale, ma con la presentazione di un quadro oltremodo esteso delle opportunità formative. Dal mondo delle Università popolari della FIPEC è invece scaturita una proposta di legge cornice strutturata secondo una pragmaticità rappresentativa delle esigenze della «cittadinanza attiva»15 e capace di mettere al centro dell’educazione degli adulti il lifelong learning esteso a tutti, lavoratori e non.

Il governo, dopo aver assicurato di volersi fare promotore di una normativa in materia nel marzo 2004 (una legge cornice snella, nel rispetto del Titolo V della Costituzione), ha successivamente abbandonato l’idea dichiarando lo scorso ottobre che i tempi non sono maturi. 

 

Conclusioni

La Strategia di Lisbona e il percorso ormai inarrestabile del lifelong learning impongono una seria riflessione sul ruolo della formazione dei cittadini. Le idee, pur chiare in teoria, nella loro applicazione non riescono a interpretare in modo esaustivo, completo, democratico e fattivo le attese di tutti i cittadini. Il lifelong learning è una concezione nuova della formazione, non è la formazione dei lavoratori realizzata negli anni Sessanta o Settanta. Le nostalgie del passato vanno abbandonate, ma i risultati ottenuti devono essere valorizzati continuando nel percorso che si è intrapreso e nella direzione di una piena interpretazione della necessità di «cittadinanza attiva» presente nel processo formativo. Ricordiamoci che prima di tutto dobbiamo rimuovere il concetto della «cattiva scuola» e della «cattiva formazione» e avanzare una proposta che renda la formazione non solo «accattivante», ma anche commisurata alle esigenze della persona. Una consultazione più ampia, che coinvolga maggiormente gli addetti ai lavori, si profila come necessaria per poter accogliere istanze ed esperienze che non possono andar perdute. Non possiamo immaginare una legge che riguardi veramente tutti senza consultare gli attori principali, ovvero gli operatori che fanno formazione. Occorre con coraggio dire che le parti sociali tradizionali non possono pensare di escludere la rappresentanza del Terzo settore (e soprattutto della sua principale e più rappresentativa organizzazione: il Forum) a livello nazionale e a livello regionale e territoriale. Ora come ora, i Comitati regionali sull’educazione degli adulti istituiti non hanno contemplato questa rappresentanza, che è stata oggetto di una esclusione anacronistica e contraddittoria rispetto alle dichiarazioni e ai precedenti riconoscimenti. Il lifelong learning all’italiana è attualmente un concentrato di nostalgie sindacali (le 150 ore), di revanscismo imprenditoriale (sull’impegno oneroso della formazione), di accordi imprenditori-sindacati (fondi interprofessionali) e di restaurazione dello statalismo (a volte sostituito dal regionalismo). Questo mondo però, esprime la diffusione di best practices, che forse proprio perché buone vengono messe da parte. È la logica del gattopardismo nostrano, che auspica un sovvertimento totale delle condizioni esistenti affinché in realtà nulla cambi. Rischiamo di essere ingenerosi nei confronti di chi ha dedicato anni della propria vita al tentativo di dotare il paese di opportunità formative idonee e funzionali alla crescita di un cittadino maturo e pronto ad affrontare le sfide del mondo moderno. In effetti, lo iato esistente tra politica e società civile testimonia non solo l’incapacità di comunicare o di saper ascoltare, ma anche la scarsa considerazione di una necessità percepita profondamente come urgenza ed esplicitata dall’impegno profuso dal singolo nella formazione per migliorare complessivamente la propria vita. L’educazione degli adulti, o meglio l’apprendimento continuo, non riesce a diventare materia della politica e non entra nella sua agenda, e la confusione tout court con cui la si assimila alla formazione professionale o all’intrattenimento culturale non riesce ad assicurarle un’autonoma fisionomia. In realtà, l’idea del «Sistema integrato di apprendimento» è l’unica che raccoglie la sfida della modernità imposta dai bisogni formativi dei singoli e della comunità. Poter entrare e uscire dalla formazione personale e professionale, crescere e avanzare nell’acquisizione delle competenze, comporta la necessità di dotare il paese di un efficiente ma flessibile sistema di certificazione che, constatando e valutando quanto è stato assimilato attraverso processi di formazione ma anche di esperienza diretta, conceda alla persona quel credito universalmente riconosciuto che gli permetta di competere nel mondo del lavoro e nella vita. Il dato straordinario della rivoluzione attuata dal lifelong learning è la contaminazione tra le competenze acquisite attraverso la formazione e quelle dell’esperienza quotidiana di vita. Questo concetto è oltremodo enunciato in alcuni documenti della Commissione europea; il lifelong learning ha una sua estensione e una naturale conclusione, rappresentata dal lifewide learning (istruzione e formazione che abbraccia tutti gli aspetti della vita), che completa il quadro e sottolinea l’estensione «orizzontale» della formazione che può aver luogo in tutti gli ambiti e in qualsiasi fase dell’esistenza. Ma mentre si elabora questo neologismo è forte la sensazione di trovarsi in una fase di stallo. Se da un lato è possibile constatare un progresso che deve agire come spinta a osare di più, dall’altro è forte il rischio di rimanere imprigionati nell’illusione di una formazione di qualità per tutti piuttosto che emendare e riformare un sistema «ingessato» come quello della formazione in genere. Il lavoro da svolgere riguarda la costruzione di una nuova fase di progetti della formazione permanente e la sua liberazione dai laccioli degli interessi conservatori (di rendite di posizione non più accettabili). La condizione italiana attuale non è negativa, anzi mostra un certo fervore creativo, ma affinché non si perisca per eccesso di creatività (come nella finanza) occorrerà rileggersi la Strategia di Lisbona e fidarsi di più dell’Europa (almeno di quella che si è espressa fino a questo momento).

 

 

Bibliografia

1 Commissione europea, Insegnare e apprendere verso la società conoscitiva, Lussemburgo 1996.

2 Accordo per il lavoro, sottoscritto tra il governo e le parti sociali il 24 settembre 1996.

3 Conferenza unificata Stato-regioni-città e autonomie locali, Documento sul potenziamento dell’educazione degli adulti in Italia, 2 marzo 2000.

4 Patto per l’Italia. Contratto per il Lavoro. Intesa per la competitività e l’inclusione sociale, siglato da governo e parti sociali il 5 luglio 2002.

5 ISFOL, L’offerta di formazione permanente in Italia. Primo rapporto nazionale, settembre 2003.

6 Comunicazione della Commissione delle Comunità europee, Istruzione e formazione 2010. L’urgenza delle riforme per la riuscita della Strategia di Lisbona. (Progetto di relazione intermedia comune sull’attuazione del programma di lavoro dettagliato concernente il seguito dato agli obiettivi dei sistemi d’istruzione e di formazione in Europa), Bruxelles, 11.11.2003. COM (2003) 685 def.

7 Commissione europea, Memorandum sull’istruzione e la formazione permanente, 20.10.2000 SEC (2000)1832 DOC 0015120003.

8 F. Florenzano, L’educazione degli adulti è una cosa, l’educazione per tutto l’arco della vita un’altra, in «Open», 11-12-13/2003, pp. 7-10.

9 2565ª sessione del Consiglio, Istruzione, gioventù, cultura, Bruxelles, 26 febbraio 2004.

10 A. Franco e S. Jouhette (a cura di), European Labour Force Survey. Principal Results 2003, European Communities, 2004.

11 Per i CTP: Rapporto annuale del Ministero dell’istruzione, università e ricerca, 2004; per le UP e le UTE: Rilevazione a cura della FIPEC effettuata nel giugno 2004.

12 P. Nicoletti, L’educazione degli adulti sfonda in Italia?, in «Input», 76/2004, p. 23.

13 Per una legge cornice in materia di apprendimento lungo il corso della vita, elaborata da un gruppo di lavoro composto da Cesare Damiano, Tiziano Treu, Andrea Ranieri, Enzo Carra, Mauro Marino, Gianni Principe e Fiorella Farinelli, giugno 2004. La proposta si trova on line all’indirizzo: www.dsonline.it/aree/formazione/documenti/dettaglio.asp?id_doc=18942

14 ACLI, Diritto di formazione. Riconoscimento, sostegno e promozione dei diritti individuali di formazione, orientamento, certificazione e accompagnamento. La proposta delle ACLI si trova on line all’indirizzo: www.acli.it/Allegato 2 proposta legge diritto formazione.rtf 

15 Istituzione del sistema di educazione degli adulti, in «Open», 14-15/2004, disponibile on line all’indirizzo: www.upter.it/open