Dove va l'America? Interpretazioni e conseguenze delle elezioni del novembre 2004

Written by Sergio Fabbrini Monday, 01 November 2004 02:00 Print

Le elezioni del novembre 2004 hanno registrato un successo «generalizzato» del Partito repubblicano e l’affermazione di una filosofia politica neo-conservatrice in vaste aree del paese. Generalizzato perché, come si sa, le elezioni del novembre 2004 riguardavano il rinnovo della presidenza, dell’intera Camera dei deputati (435 seggi) e di 1/3 dei seggi del Senato (33 su un totale di 100). Inoltre, le elezioni riguardavano anche il rinnovo di molte istituzioni statali, cioè governatorati e legislativi statali. Peraltro, tale successo del Partito repubblicano è avvenuto in presenza di una crescita sensibile della partecipazione elettorale. Nelle elezioni presidenziali ha votato il 60% degli aventi diritto, cosa che non avveniva dalle elezioni del 1968.

 

Le elezioni del novembre 2004 hanno registrato un successo «generalizzato» del Partito repubblicano e l’affermazione di una filosofia politica neo-conservatrice in vaste aree del paese. Generalizzato perché, come si sa, le elezioni del novembre 2004 riguardavano il rinnovo della presidenza, dell’intera Camera dei deputati (435 seggi) e di 1/3 dei seggi del Senato (33 su un totale di 100). Inoltre, le elezioni riguardavano anche il rinnovo di molte istituzioni statali, cioè governatorati e legislativi statali. Peraltro, tale successo del Partito repubblicano è avvenuto in presenza di una crescita sensibile della partecipazione elettorale. Nelle elezioni presidenziali ha votato il 60% degli aventi diritto, cosa che non avveniva dalle elezioni del 1968. Come interpretare il successo repubblicano? Si può dire che esso segnali la formazione di un nuovo regime politico neo-conservatore capace di fornire un orientamento omogeneo e unitario alla politica nazionale, oppure che rifletta una realtà politica assai più disomogenea e divisa?

 

I risultati elettorali

Cominciamo da una disamina dei risultati elettorali. La vittoria elettorale di George W. Bush e dei candidati repubblicani al Congresso è stata inequivocabile. Il baricentro istituzionale dell’America di oggi si è spostato a destra. I repubblicani hanno ri-conquistato la presidenza con George W. Bush, sia sul piano del voto popolare (59.459.765 voti rispetto ai 55.949.407 voti del candidato democratico John F. Kerry) che del voto elettorale (286 voti contro i 252 del candidato rivale), e hanno incrementato la loro maggioranza sia alla Camera dei rappresentanti (da 229 a 231) che al Senato (da 51 a 55 seggi). Inoltre, continuano a mantenere il controllo della maggioranza dei governatorati (28 contro 21 democratici, con 1 governatore che si dichiara indipendente), oltre che della maggioranza dei legislativi statali. Dunque, il Partito repubblicano è il nuovo partito di maggioranza del paese. Per di più, questo partito è passato attraverso un formidabile processo di rafforzamento organizzativo negli ultimi venticinque anni, il cui esito è un’organizzazione di mobilitazione di massa, radicata e diffusa territorialmente, collegata a comunità religiose e gruppi di interesse, dotata di efficienti strumenti di comunicazione politica, beneficiaria di uno straordinario portafoglio di risorse finanziarie.

Tuttavia, a ben vedere, i dati mostrano una realtà un po’ più complessa. La maggioranza repubblicana coesiste con un paese diviso, come non avveniva dagli anni Sessanta. Si tratta di una divisione multipla che contrappone Stati e aree regionali, gruppi razziali, ceti sociali e comunità religiose. Se ci basiamo sui dati delle elezioni presidenziali, possiamo vedere che i democratici hanno la maggioranza negli Stati delle coste e dei laghi (gli «Stati dell’acqua»), mentre i repubblicani ce l’hanno negli Stati centrali e meridionali (gli «Stati della terra»). I democratici hanno la maggioranza in due dei tre Stati più popolosi (California e New York, mentre il Texas è repubblicano), cioè quelli che hanno 30 o più voti elettorali, mentre i repubblicani hanno la maggioranza negli Stati meno popolosi (22 contro i 12 democratici), cioè in quelli che hanno 10 o meno voti elettorali. In termini di voto popolare, i repubblicani hanno una maggioranza netta (57%) negli Stati del Sud, che sono quelli che registrano una più sensibile crescita demografica, e una più risicata negli Stati del Mid-West e dell’Ovest (52%). Mentre la maggioranza democratica è inequivocabile negli Stati dell’Est (58%).

Inoltre, se si considerano le aree di residenza, i repubblicani hanno la maggioranza tra gli elettori delle aree sub-urbane e rurali (che insieme rappresentano il 72% dell’elettorato complessivo), mentre i democratici hanno la maggioranza tra gli elettori delle aree urbane (che rappresentano, però, il 28% dell’elettorato complessivo). La maggioranza repubblicana negli Stati in crescita demografica ha favorito inevitabilmente i loro candidati nelle elezioni per la Camera. Infatti, la crescita demografica degli Stati del Sud ha portato a una redistribuzione (o re-apportionment) dei (435) seggi a favore di questi ultimi. Per di più, poiché il disegno dei nuovi distretti elettorali (o re-districting) è spettato ai legislativi di quegli Stati (già controllati dai repubblicani), è stato inevitabile che i nuovi distretti finissero per confermare ed estendere la maggioranza repubblicana esistente. Naturalmente, ciò ha avuto conseguenze anche sul Collegio elettorale, nel senso che gli Stati del Sud, con una solida maggioranza repubblicana (come Florida, Arizona, Georgia, Texas e North Carolina) hanno visto crescere il numero dei Voti elettorali di loro spettanza (l’unica eccezione è stata la California, che ha registrato una vittoria dei democratici, seppure più limitata di quella dell’elezione presidenziale precedente).

Ma l’America è divisa anche socialmente. Il 57% dei bianchi ha votato per il candidato presidente repubblicano, mentre l’83% dei non-bianchi (e il 93% degli afro-americani) ha sostenuto il candidato democratico rivale. Oppure, il 60% degli elettori sposati hanno sostenuto il candidato repubblicano, mentre il candidato democratico è stato votato da un’identica percentuale di elettori non sposati. O ancora, il 63% di coloro che frequentano una chiesa settimanalmente ha votato per il candidato repubblicano, mentre il 60% di coloro che non vanno mai in chiesa o ci vanno raramente ha votato per il candidato democratico. Il 62% degli elettori di fede protestante ha votato a favore del primo, mentre soltanto il 52% degli elettori di fede cattolica ha sostenuto il secondo. E, soprattutto, il candidato repubblicano ha ricevuto una maggioranza sicura (intorno al 55%) di voti tra gli elettori che si collocano tra un reddito annuo di 50-75.000 dollari e uno di 150-200.000 dollari (giungendo ad avere il 62% di voti di coloro che guadagnano 200 mila dollari o più all’anno). Mentre il candidato democratico ha ricevuto il sostegno di una maggioranza (sia pure decrescente) di elettori tra coloro che guadagnano meno di 15.000 dollari all’anno (63%), tra coloro che guadagnano tra i 15 e i 30.000 dollari all’anno (58%) e tra coloro che guadagnano tra i 30 e i 50.000 dollari all’anno (51%). Tenendo presente che, se gli elettori delle classi di reddito favorevoli a Kerry hanno rappresentato il 45% dell’elettorato, quelli delle classi di reddito favorevoli a Bush hanno rappresentato il 55% di quest’ultimo. Insomma, ciò che è emerso dalle elezioni è una maggioranza repubblicana certa nel contesto, però, di un paese diviso.

 

Un nuovo ri-allineamento?

Tale complessità del risultato elettorale giustifica, inevitabilmente, interpretazioni molteplici del suo «significato». Due in particolare. Si potrebbe argomentare che la politica americana è un cantiere aperto, dove il pendolo si è spostato a destra ma potrebbe ritornare a sinistra. Oppure che essa è una casa che si sta costruendo sulla base di solide e nuove fondamenta repubblicane. Cominciamo dalla seconda possibile interpretazione. Per essa, in America sta prendendo corpo un nuovo regime politico (che potrebbe essere chiamato «neo-conservatore») che sta sostituendo il precedente regime politico (noto come New Deal). Tale interpretazione è ovviamente ispirata dalla letteratura che ha cercato di mostrare come la storia politica americana sia passata attraverso regolari (o cicliche) elezioni di «ri-allineamento», a loro volta seguite da lunghi periodi di «de-allineamento» elettorale, conclusi da nuovi ri-allineamenti.1

Si può parlare di elezioni di ri-allineamento quando si vengono a formare maggioranze relativamente omogenee nelle varie istituzioni che costituiscono il governo separato del paese (presidenza, Camera e Senato e corrispettivi organismi nei singoli Stati). Così è avvenuto dopo la guerra civile del 1861-65, con l’affermazione del Partito repubblicano di Abraham Lincoln come il nuovo partito nazionale (con la ovvia esclusione degli Stati del Sud, dove quel partito non ha potuto a lungo, nei fatti, presentare i propri candidati alle elezioni). Al periodo di predominio repubblicano è succeduta quindi una fase di de-allineamento elettorale, incentivata anche da acute divisioni all’interno del partito di maggioranza. Questa fase si è conclusa con un nuovo ri-allineamento intorno al Partito democratico di Franklyn D. Roosevelt a partire dagli anni Trenta del secolo successivo. Ri-allineamento entrato in crisi nel corso degli anni Sessanta e quindi sostituito da un lungo periodo di de-allineamento elettorale tra gli anni Settanta e gli anni Novanta. Un de-allineamento elettorale rappresentato dalla formazione di maggioranze distinte all’interno delle istituzioni di governo. Infatti, tra il 1968 e il 2000, in America si è verificato un quasi-permanente «governo diviso», cioè una situazione in cui un partito controllava la presidenza e un altro partito controllava le due camere del Congresso o almeno una di esse (con l’unica eccezione dei periodi 1977-80 e 1993-94, entrambi con maggioranze democratiche sia nell’esecutivo che nel legislativo).

Dunque, ogni ri-allineamento è stato guidato da un singolo partito politico (che ha potuto trasformarsi in un partito di governo), è stato sostenuto da una identificabile coalizione sociale e culturale ed è stato finalizzato a realizzare una precisa filosofia pubblica. Necessariamente, questi ri-allineamenti si sono realizzati in periodi di crisi o di cambiamento, come quelli che hanno seguito la guerra civile o la grande crisi economica del 1929. In tali condizioni, un sentimento maggioritario si è venuto a formare nel paese a favore di un dato corso dell’azione pubblica. Si è cioè creato un consenso nazionale trasversale alle classi, ai gruppi etnici e ai territori, un consenso capace di ricomporre politicamente le istituzioni separate del governo del paese. Si può parlare di «regime politico»2 quando si viene a determinare una consonanza d’intenti tra le istituzioni governative e la maggioranza degli elettori, una consonanza finalizzata a realizzare un programma di politiche pubbliche che si ritiene l’unico in grado di rispondere alla situazione di crisi o di cambiamento. Ad esempio, l’ultimo regime politico riconosciuto come tale (quello del New Deal tra gli anni Trenta e gli anni Sessanta) è stato caratterizzato da un programma di intervento regolativo nell’economia di mercato, finalizzato a dare una risposta al dramma della sua instabilità esploso alla fine degli anni Venti, e di intervento multilaterale nel sistema internazionale, finalizzato a dare una risposta alla tragedia della seconda guerra mondiale.

Da questo punto di vista, è certo che le elezioni del novembre del 2004 hanno interrotto la lunga fase di «governo diviso» dell’ultimo quarto di secolo. Maggioranze neo-conservatrici si sono formate nelle varie istituzioni governative, centrali ma anche locali. Tali maggioranze sembrano essersi formate intorno a una precisa filosofia pubblica e a un organizzato partito politico. La nuova maggioranza politica è nelle condizioni di determinare l’agenda pubblica, sia attraverso la legislazione ordinaria che attraverso le sentenze del potere giudiziario (e in particolare della Corte Suprema). Peraltro, nei prossimi quattro anni, la presidenza di George W. Bush e il Senato repubblicano potrebbero avere la possibilità di influenzare la composizione stessa della Corte, se uno dei suoi nove giudici decidesse (come pare farà) di ritirarsi. Così, attraverso leggi e sentenze giudiziarie di orientamento neo-conservatore, la nuova maggioranza elettorale potrebbe essere ulteriormente consolidata ed estesa, trasformando la sua filosofia in un orientamento comune del paese. Insomma, il Partito repubblicano è divenuto il nuovo partito di governo.

 

L’affermazione di un nuovo conservatorismo

«Quale» Partito repubblicano è divenuto maggioritario in America? La destra che è divenuta predominante in America è una destra nuova e per molti versi originale. Viene chiamata (e si fa chiamare) neo-conservatrice perché ha poco o nulla a che fare con il vecchio conservatorismo patrizio della tradizione americana.3 Un conservatorismo, quest’ultimo, tradizionalmente moderato nella politica interna e realista nella politica estera. Un conservatorismo, per di più, non privo di quei tratti aristocratici che spingono i ricchi o i fortunati a sentirsi «obbligati» verso i poveri o gli sfortunati. Il neo-conservatorismo costituisce la reazione al carattere elitario del vecchio conservatorismo. Esso è espressione di un sentimento populista che guarda con diffidenza agli individui e ai gruppi della classe dirigente. In particolare di quella classe dirigente di estrazione politica e amministrativa che si era formata nel lungo predominio post-bellico del Partito democratico.

Sin dalle sue origini, la vicenda politica americana è stata caratterizzata da una tensione permanente tra populismo ed elitismo. Il preambolo della Costituzione (con quel suo «We the people of the United States») ha introdotto il populismo nel discorso democratico del paese,4 mentre il testo che segue quel preambolo rappresenta la più formidabile celebrazione della cultura elitista.5 Il populismo vuole che il potere sia vicino alla «gente», l’elitismo invece diffida di quest’ultima e richiede che il potere possa essere esercitato al riparo dagli umori mutevoli degli elettori. In un paese che non ha mai conosciuto un’interruzione autoritaria, il populismo e l’elitismo si sono bilanciati a vicenda, mantenendosi sempre all’interno del perimetro democratico. Tuttavia, se storicamente il populismo è stato lo strumento della sinistra per criticare i privilegi delle élite (economiche) di destra, da un po’ di tempo le cose sono cambiate radicalmente. La rivoluzione neo-conservatrice avviata da Reagan negli anni Ottanta ha trasformato la sinistra (il Partito democratico) nel campione delle élite (politiche) e la destra (il Partito repubblicano) nel difensore della gente comune. George W. Bush ha portato ulteriormente avanti questa rivoluzione, trasformando se stesso (cioè un miliardario erede di una autentica dinastia politico-finanziaria) nel rappresentante dell’uomo della strada.

Come è stato possibile tutto ciò? Le ragioni sono diverse. Basti qui ricordare che i neo-conservatori sono riusciti a individuare quelle problematiche che potevano mobilitare i sentimenti religiosi o morali o identitari della gente comune. Quest’ultima, sfidata dalle trasformazioni comportamentali degli anni Sessanta e soprattutto spaventata dall’odio anti-americano del terrorismo islamico, ha finito per avvertire un’insopprimibile esigenza di sicurezza e di rassicurazione. Nei momenti di paura, la «gente» pensa con il «cuore», prima ancora che con la «testa». E comunque, tende a fidarsi delle proprie emozioni ancora più che dei propri interessi. Ciò vale soprattutto per l’America, un paese di una religiosità diffusa e radicale. Un paese che è passato attraverso cicli regolari di «risveglio religioso» o di riscoperta della coscienza. Dopo tutto, l’America è l’unico paese al mondo che ha una fondazione religiosa, essendo nata dalle comunità di eretici dell’eresia fuggite da un (vecchio) continente in preda a terribili guerre religiose.6 Se non come «la città sulla collina», sicuramente l’America si percepisce come il rifugio inevitabile dell’umanità che ha voluto e vuole ascoltare la parola divina. In un paese come questo, «se riesci a convincere Dio a stare dalla tua parte» è difficile perdere le elezioni. Con l’11 settembre questa America ha finito per interpretare il sistema internazionale come l’arena di un conflitto mortale tra i paesi della luce e i paesi delle tenebre, un conflitto che non consente disimpegni o neutralità. Chi non è con noi è contro di noi. Va da sé che, se il sistema internazionale è ritornato a essere una giungla dove si lotta per la sopravvivenza, allora non vi sono più opportunità per la diffusione di una qualche legalità internazionale. Quando c’è in gioco la vita o la morte della libertà, non vi è altra alternativa all’uso unilaterale del potere militare. Tutto ciò che è utile per salvare la libertà, va utilizzato. E poiché la libertà viene fatta coincidere con l’America stessa, tutto ciò che è necessario per salvare quest’ultima va utilizzato con ancora più determinazione.

Insomma, una maggioranza elettorale si è creata intorno al Partito repubblicano. Questa maggioranza ha ricomposto politicamente le istituzioni separate del governo, e tale ricomposizione politica è stata giustificata da una chiara filosofia pubblica. Una filosofia pubblica che ha connesso, con una relativa coerenza, la politica interna e la politica estera del paese. La critica dello Stato federale, la decentralizzazione delle istituzioni e la deregolamentazione del mercato (in nome della capacità degli individui a «farcela da soli») hanno avuto il loro corrispettivo in una politica estera unilateralista e diffidente verso le organizzazioni della legalità internazionale (in nome della necessità di «fare da soli» per garantire la sicurezza e la libertà americane). Questa filosofia pubblica esprime i valori e gli interessi di una coalizione sociale che ha le sue base negli Stati del Sud, nelle aree sub-urbane e rurali, tra elettori con un’istruzione media e tra i gruppi economicamente anti-statali (cioè favorevoli a una riduzione drastica del carico fiscale). Si tratta di una maggioranza populista che ha reagito alla liberalizzazione dei costumi degli anni Sessanta, alla crisi di reputazione del conservatorismo tradizionale degli anni Settanta, alle sfide del mondo unipolare dei decenni successivi e, infine, al terrorismo fondamentalista del nuovo secolo, «ritornando alle radici dell’eccezionalismo americano».7 Le comunità evangeliche (molto attive negli Stati del Sud) rappresentano la spina dorsale di questo populismo, fornendo a esso risorse simboliche e finanziarie, organizzazione e capacità di mobilitazione e, soprattutto, un discorso pubblico che ha profonde radici in quell’eccezionalismo. E cioè che l’America «è un posto speciale» e ha «una missione speciale» da perseguire nel mondo.8

 

Ri-allineamento o contingenza?

Se è vero che è plausibile interpretare le elezioni come la spia di un riallineamento elettorale in corso a favore del neo-conservatorismo repubblicano, è anche vero che esse potrebbero essere viste semplicemente come l’esito contingente di una competizione elettorale che è stata condizionata da fattori contingenti (e, prima di tutti, dall’attacco terroristico dell’11 settembre). Tanto è vero che l’America del «fare da soli» rappresenta una maggioranza contenuta del paese. L’altra America è minoritaria, ma poi non così tanto. Questa America rappresenta settori e ceti rilevanti della società nazionale. Il baricentro si è spostato a destra, ma il Partito democratico continua a rappresentare (ancora) quasi il 49% dell’elettorato. E per di più vi è un’opinione pubblica assai meno marziale di quanto ritengono i neo-conservatori. Una maggioranza (quasi il 60%) continua a essere a favore dell’uso della forza militare del paese solamente all’interno delle deliberazioni delle Nazioni Unite (oppure della NATO). E una maggioranza ancora più alta (oltre il 65%) sostiene la necessità che l’America usi la forza solamente con l’accordo dei suoi tradizionali alleati europei.9 Naturalmente, la possibilità di ri-equilibrare il neo-conservatorismo dipenderà da cosa sapranno fare i neo-progressisti democratici. Certamente non potranno limitarsi a perseguire «il liberalismo dei gruppi di interesse», senza fare i conti con il sentimento di insicurezza collettiva del dopo 11 settembre e con la necessità di elaborare una prospettiva (se non una visione) che unifichi il paese. Comunque sia, in questa prospettiva è poco o per nulla plausibile parlare di nuovo ri-allineamento, in quanto la maggioranza repubblicana è assai più incerta e instabile, anche nelle aree e negli Stati che ne costituiscono il retroterra.10 Probabilmente, le teorie del ri-allineamento tendono a enfatizzare i valori assoluti (l’esito) della competizione elettorale, piuttosto che i margini del successo elettorale.11 Se si considerano questi ultimi, invece, allora si potrebbe argomentare che essi sono stati così ridotti in alcuni Stati e distretti che una diversa leadership democratica (o una maggiore capacità di mobilitazione del Partito democratico o l’assenza della mobilitazione neo-conservatrice contro il matrimonio tra omosessuali) avrebbe potuto fare la differenza.

Se la maggioranza elettorale ha basi incerte, incerta è anche la sua capacità di istituzionalizzarsi. È probabile che l’America del «fare da soli» incontrerà resistenze all’interno del sistema governativo della separazione dei poteri. Intanto perché essa non dispone delle risorse finanziarie per sostenere le sue politiche unilateraliste e, contemporaneamente, per poter soddisfare le esigenze del suo elettorato con una politica di radicale de-fiscalizzazione. I vasti impegni all’esterno e la riduzione delle tasse all’interno sono destinati a entrare in rotta di collisione. È difficile pensare che una super-potenza possa rimanere a lungo un super-debitore.12 Naturalmente, la via di uscita è rappresentata da un ridimensionamento dell’intervento pubblico, fino al punto di intaccare i programmi di welfare (come «Medicare» e «Medicaid») di cui beneficiano principalmente i ceti medi. Ma questi ultimi rappresentano ancora oggi la quota più consistente di elettorato attivo e la loro reazione avrebbe immediate conseguenze politiche. Infatti, il sistema di separazione dei poteri, esonerando il Congresso dal fornire la fiducia al presidente, è destinato a incentivare comportamenti e scelte dei suoi membri non coerenti con le preferenze di quest’ultimo. Non solo da parte di rappresentanti e senatori democratici, ma anche da parte degli esponenti moderati del Partito repubblicano che sono stati finora messi ai suoi margini. È bene non sottovalutare i vincoli della separazione dei poteri. In America, nonostante il rafforzamento del Partito repubblicano, i suoi candidati vengono eletti individualmente, da elettorati locali e statali che guardano ai propri interessi, prima ancora che all’ideologia del partito. E le elezioni del 2006 sono dietro l’angolo.

Inoltre, l’America del «fare da soli» probabilmente incontrerà resistenze anche da parte dei suoi alleati europei.13 E tali resistenze sono destinate ad avere un eco inevitabile all’interno del paese. Infatti, la maggioranza delle opinioni pubbliche dei paesi europei ha preferenze e predisposizioni molto simili a quelle dell’altra America, l’America che ha votato per i candidati democratici.14 Per quanto l’Europa abbia visto ridimensionata la propria importanza strategica con la fine della guerra fredda, nondimeno essa continua a rimanere l’unica area del mondo stabilmente e diffusamente democratica, insieme all’America. È impensabile che quest’ultima possa a lungo procedere unilateralmente, senza prendere in considerazione le posizioni europee. Potrà anche essere vero che l’America «guarda ormai a Oriente» e non più a Occidente, che la sua priorità è rappresentata dalla Cina e non più dall’Europa, e che quindi l’Europa è destinata ad assumere un ruolo secondario nella strategia americana, ma è anche vero che l’America è una grande democrazia e non solo una grande potenza. E una democrazia non può agire a lungo senza il sostegno delle altre democrazie. La Cina rappresenterà di sicuro un mercato di enormi potenzialità economiche, ma le chiavi della legittimazione internazionale continuano ad essere nelle mani degli europei.15 Per di più, in un mondo interdipendente, è impossibile per l’America «fare da sola». L’America ha la forza per vincere la guerra, ma non ha la legittimità per imporre la pace.16

 

Conclusioni

Insomma, le elezioni americane del novembre 2004 possono essere interpretate secondo prospettive diverse. Esse potrebbero rappresentare un ulteriore passo verso l’affermazione di un nuovo regime politico neo-conservatore. Oppure potrebbero essere interpretate come un evento dotato di una sua specificità contingente; dove la contingenza che più ha contato è stata quella dell’11settembre. Così, un presidente che aveva iniziato il mandato sotto il segno dell’incertezza e della scarsa legittimazione, lo ha finito trasformandosi nel baluardo della virtù americana. Se prima di quella data si poteva dubitare sulla sua riconferma, dopo quella data era più difficile farlo. Dopo tutto, l’America si percepisce come un paese in guerra. E in guerra nessun paese sostituisce il proprio comandante in capo. Insomma, in questa prospettiva, più che di fronte a un regime politico nuovo siamo di fronte agli effetti di una contingenza. Se è evidente che entrambe le interpretazioni colgono aspetti reali del risultato elettorale, tuttavia l’interpretazione che enfatizza la contingenza sembra la più plausibile. Nella politica americana (come altrove) vi sono certamente in atto trasformazioni di lungo periodo, ma tali trasformazioni producono determinati esiti solamente quando qualcuno le sa tradurre politicamente. Finora sono stati capaci di farlo solamente i neo-conservatori repubblicani. Non è detto che domani non possano farlo anche i neo-progressisti democratici. Dopo tutto, il neo-conservatorismo ha conquistato il potere grazie al consenso degli elettori e non già con un colpo di Stato. È a quegli elettori che i neo-progressisti farebbero bene a rivolgersi, cercando di capire le loro ragioni e cercando di far loro capire le proprie.

 

 

 

Bibliografia

1 Il pioniere di questo approccio è stato V. O. Key jr.; si veda il suo A Theory of Critical Elections, in «Journal of Politics», vol. XVII, 1/1995. I suoi studi sono stati successivamente ripresi da diversi autori, tra cui in particolare W. D. Burnham, The Current Crisis in American Politics, Oxford University Press, Oxford 1982.

2 Per una discussione del concetto, si veda T. Lowi, The End of Liberalism. The Second Republic of the United States, Norton, New York 1979.

3 Si veda J. Micklehwait e A. Wooldridge, The Right Nation. Conservative Power in America, The Penguin Press, New York 2004. Ma anche il IV capitolo di S. Fabbrini, L’America e i suoi critici. Virtù e vizi dell’iperpotenza democratica, Il Mulino, Bologna (di prossima pubblicazione).

4 M. Kazin, The Populist Persuasion. An American History, Basic Books, New York 1995.

5 B. Ackerman, We the People. Foundations, Harvard University Press, Cambridge 1991.

6 S. M. Lipset, The First New Nation. The United States in Historical and Comparative Perspective, Norton, New York 1979.

7 S. P. Huntington, Who Are We? The Challenges to America’s National Identity, Simon and Schuster, New York 2004.

8 S. M. Lipset, Exceptionalism. A Double-Edged Sword, Norton, New York 1996.

9 Si veda: R. Asmus, P. P. Everts e P. Isernia (a cura di), Transatlantic Trends 2004, German Marshal Fund degli Stati Uniti e Compagnia di San Paolo di Torino, ottobre 2004, p. 15.

10 Come argomenta M. P. Fiorina, Culture War? The Myth of Polarized America, Pearson-Longoman, New York 2005.

11 D. R. Mayhew, Electoral Realignments. A Critique of an Amaerican Genre, Yale University Press, New Haven 2002.

12 Come argomenta R. Tamborini, The economic consequences of Mr. G. W. Bush’s foreign policy. Can the US afford it?, working paper, Dipartimento di Economia, Università degli Studi di Trento, 2004.

13 J. Peterson e M.A. Pollack (a cura di), Europe, America, Bush. Transatlantic Relations in the Twentyfirst Century, Routledge, Londra 2004.

14 Si veda di nuovo: Transatlantic Trends 2004 cit., pp. 24-29.

15 Come riconosce lo stesso R. Kagan, Il diritto di fare la guerra. Il potere di fare la guerra e la crisi di legittimità, Mondadori, Milano 2004.

16 Come ben argomenta B. R. Barber, Fear’s Empire. War, Terrorism and Democracy, Norton, New York 2003.