Kerry e la potenza americana

Written by Tony Blinken Wednesday, 01 September 2004 02:00 Print

Chi spera in una vittoria di John Kerry dovrebbe stare bene attento a ciò che si augura. Un’Amministrazione Kerry esigerebbe moltissimo non solo dalla popolazione americana, ma anche dagli amici e alleati in tutto il mondo. E non si avrebbe più la scusa del governo Bush per criticare stando ai margini del campo. L’Amministrazione Kerry mirerà a costruire un nuovo consenso su tre tematiche: 1) l’esigenza di alleanze e di organizzazioni internazionali forti ed efficaci; 2) l’importanza di una strategia di prevenzione comune per disinnescare le minacce contro la nostra sicurezza assai prima che si arrivi alla soglia dell’esplosione; 3) l’impegno a sostenere gli Stati in dissesto e promuovere la democrazia.

Chi spera in una vittoria di John Kerry dovrebbe stare bene attento a ciò che si augura. Un’Amministrazione Kerry esigerebbe moltissimo non solo dalla popolazione americana, ma anche dagli amici e alleati in tutto il mondo. E non si avrebbe più la scusa del governo Bush per criticare stando ai margini del campo.

L’Amministrazione Kerry mirerà a costruire un nuovo consenso su tre tematiche: 1) l’esigenza di alleanze e di organizzazioni internazionali forti ed efficaci; 2) l’importanza di una strategia di prevenzione comune per disinnescare le minacce contro la nostra sicurezza assai prima che si arrivi alla soglia dell’esplosione; 3) l’impegno a sostenere gli Stati in dissesto e promuovere la democrazia. Questo nuovo consenso richiederà importanti cambiamenti nella politica estera statunitense; ma impegnerà anche molti dei nostri amici e alleati a procedere a una revisione complessiva del loro approccio e dei loro riflessi. Vorrei spendere qualche parola su ciascuno degli elementi di questo nuovo ordine di concetti.

 

Alleanze e organizzazioni internazionali forti

L’Amministrazione Bush si è mostrata scarsamente interessata alle organizzazioni e alle alleanze internazionali, e non ha fatto molti sforzi per riformarle. Ciò non può destare sorpresa, considerando il modo in cui la maggior parte dei suoi protagonisti concepisce il potere degli USA e i suoi obiettivi. Per loro la potenza militare è il più importante tra gli strumenti della politica estera americana. E dato che questa potenza supera di gran lunga quella di qualsiasi altro paese – gli Stati Uniti spendono per la difesa più di tutti gli altri Stati del mondo messi insieme – le alleanze e i trattati sarebbero, dal loro punto di vista, più un onere che un beneficio. In altri termini, l’Amministrazione Bush vede le istituzioni e le alleanze internazionali come i lillipuziani che incatenavano Gulliver a terra. Di fatto, però, nell’attuale Amministrazione c’è anche chi crede che gli Stati Uniti dovrebbero rivedere questo atteggiamento di «rigetto» dell’aiuto altrui, dimostrando al mondo di poter fare ciò che vogliono e dove vogliono, senza essere assistiti da nessuno; e di poter portare la propria potenza, già straordinaria, a livelli ancora più alti. Si tratta di una visione del mondo da cui dissento profondamente, per motivi probabilmente condivisi da molti.

Pensiamo ai pericoli che dobbiamo fronteggiare: il terrorismo, la diffusione delle armi di distruzione di massa, gli Stati canaglia che si fanno beffe di ogni regola, la criminalità internazionale e il narcotraffico, i conflitti etnici, le malattie infettive quali l’HIV/AIDS, l’instabilità economica, il deterioramento ambientale. Tutte minacce che non si fermano alle frontiere, e non possono essere affrontate con la sola forza militare.

Gli amici e gli alleati tenuti in dispregio da questa Amministrazione, o le organizzazioni internazionali e i trattati che il governo ha snobbato non tarpano le ali all’America. Al contrario, la aiutano a suddividere il rischio e a ripartire gli oneri della leadership. L’attuale Amministrazione ha assicurato che non avrebbe dovuto pagare alcun prezzo per la scelta di andare avanti per la sua strada. Ma così non è stato. Dato che siamo entrati in guerra con l’Iraq virtualmente da soli, siamo stati virtualmente i soli responsabili per la pace. E il prezzo è anche troppo facile da calcolare: in Iraq, dove gli USA hanno fornito quasi il 90% delle truppe e i caduti sono al 90% americani.

Ma il messaggio di John Kerry non si esaurisce in queste considerazioni, che pure ne costituiscono il nucleo centrale. Kerry è anche convinto che per quanto grande sia l’importanza delle alleanze, dei trattati e delle organizzazioni internazionali ai fini del successo dell’America, la loro credibilità non dipenda solo dalla volontà di ottemperare alle regole, ma anche da quella di farle applicare. È questa la ragione di principio che ha indotto molti esponenti democratici di spicco – compresi i senatori Kerry, Biden e Clinton – a votare al Congresso per autorizzare il presidente all’uso della forza in Iraq. Non è stato per l’azione preventiva – quella preemption di cui parlerò in seguito – bensì in nome della volontà di far applicare le regole che, di fatto, l’Iraq ha sistematicamente violato per dodici anni.

Ovviamente, anche altri paesi disattendono le risoluzioni dell’ONU, ma pochi lo hanno fatto in maniera così chiara e sistematica. Se a ciò si sommano i precedenti dell’Iraq nell’uso di armi di distruzione di massa, il rifiuto di fare chiarezza sui propri arsenali, gli abusi commessi da Saddam contro il popolo iracheno e la minaccia che questo paese continuava a rappresentare per gli Stati vicini, il quadro appare completo.

Molti democratici credevano che avremmo potuto convincere il mondo a parlare a Saddam con una sola voce: procedi al disarmo o sarai disarmato. In tal caso la guerra sarebbe stata meno probabile. Se Saddam non avesse ascoltato l’avvertimento e ci avesse costretti ad agire, avremmo avuto il mondo al nostro fianco. Questa strategia ha prodotto la risoluzione 1441 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Ma successivamente, l’attuale Amministrazione e i nostri alleati europei hanno sprecato le opportunità di una situazione vincente. E hanno avuto la meglio, da entrambe le parti, le posizioni estreme. A Washington ha vinto il gruppo che non prendeva neppure in considerazione d’idea di evitare la guerra, qualunque fosse stata la risposta di Saddam; e in Europa ha prevalso chi rifiutava la guerra comunque, a prescindere dalle mosse di Saddam.

Molti ricorderanno che Kofi Annan si era mostrato critico sull’intervento militare degli USA e della NATO in Kosovo, deciso senza l’approvazione dell’ONU. Ma criticava anche il Consiglio di Sicurezza per non aver agito a fronte di «crimini contro l’umanità (...) e aver tradito così gli ideali stessi che ispirarono a suo tempo la fondazione delle Nazioni Unite». Più recentemente, nel contesto iracheno, Annan ha detto: «Non basta denunciare l’unilateralismo se non si affrontano a tutto campo le preoccupazioni che si presentano a noi, dimostrando come questi problemi possano e debbano essere fronteggiati in maniera efficace attraverso un’azione collettiva».

In breve, dobbiamo tendere verso un sistema internazionale basato sulle regole, in cui l’ONU giochi un ruolo centrale. Ma senza la volontà di far rispettare queste regole il sistema sarebbe destinato al tracollo. Spero che i nostri amici e alleati facciano propria questa verità.

 

Una strategia di prevenzione

Il fatto che questa Amministrazione si sia impegnata a trasformare la prevenzione militare da opzione di lungo periodo in dottrina «a taglia unica», applicabile a tutti, ha creato più problemi di quanti ne abbia risolti e renderà meno sicura la vita di tutti noi. Una dottrina del genere sembra fatta per dire agli Stati canaglia che il modo migliore per loro di garantirsi contro un cambiamento di regime sia quello di dotarsi di armi di distruzione di massa il più rapidamente possibile. In questo modo si dà via libera all’India e al Pakistan, a Israele e agli Stati arabi, alla Russia e alla Georgia, alla Cina e a Taiwan, per ricorrere alla forza in prima istanza e rinviare a dopo eventuali domande. E si richiedono standard di prove che potrebbero rivelarsi impossibili da raccogliere, a meno di ritagliare gli angoli – come si è fatto in Iraq.

Un’Amministrazione Kerry adotterebbe una dottrina preventiva molto più completa, atta ad affrontare i problemi assai prima che siano arrivati al punto di esplodere. In questo modo eviteremmo di trovarci davanti a un bivio, costretti a scegliere tra l’uso della forza all’ultimo momento o la totale inazione. Una dottrina preventiva comporterebbe un’attenzione molto maggiore ai programmi di «riduzione delle minacce», per tenere al sicuro o distruggere le armi di distruzione di massa in tutto il mondo. E richiederebbe nuove norme internazionali per il sequestro in alto mare di carichi sospetti; nuove alleanze per imporre il rispetto delle leggi; l’impiego di agenti finanziari e di intelligence per sradicare i terroristi e prosciugare i loro finanziamenti; nuovi e più rigorosi controlli sulle armi; strategie di non proliferazione, con ispezioni senza preavviso sui siti, in base a un trattato riformato di non proliferazione. E inoltre una miglior diplomazia pubblica, per spiegare le nostre politiche e denunciare le menzogne e le distorsioni. Infine, un impegno costante nello sviluppo e nella democratizzazione, per dimostrare alle popolazioni di tutto il mondo che noi siamo portatori di speranze, mentre i nostri nemici non offrono altro che odio e disperazione.

Ma per i nostri amici all’estero è anche molto importante comprendere che sotto un’Amministrazione Kerry l’impegno militare americano continuerà a non essere secondo a nessun altro. E John Kerry non esiterà ad usarlo – senza chiedere il permesso a nessuno – qualora le circostanze lo richiedano. Non cercherà guai, ma non recederà quando ci sarà da affrontarli.

Di fatto, siamo tutti a confronto con una serie di guai e problemi di natura sempre più aggressiva. Dobbiamo affrontare un complesso di nuove minacce – il terrorismo, gli Stati canaglia, le armi di distruzione di massa – che richiedono una risposta nuova. Il contenimento e la deterrenza ci hanno consentito di superare la guerra fredda; e il più delle volte conservano la loro validità. Ma potrebbero rivelarsi insufficienti a fronte di un nemico privo di legami con uno Stato o un territorio, senza una popolazione da difendere, che non prepara eserciti visibili ma armi segrete.

Ecco il perché della grande importanza della strategia preventiva, brevemente descritta. Ma questo è anche il motivo per cui tutti noi – compresi gli amici e gli alleati dell’America – dobbiamo essere disposti ad assumere un atteggiamento molto più duro nei confronti degli Stati canaglia che danno riparo ai terroristi o cercano di dotarsi di armi di distruzione di massa. E accrescono così non solo il rischio di proliferazione, ma anche quello dell’uso diretto di queste armi.

Spero che gli sforzi della Francia, della Germania e del Regno Unito per convincere l’Iran a trattare sul suo programma nucleare siano una prova dell’emergere di un nuovo consenso. Gli europei vedranno nel successo di questi sforzi una conferma della validità della loro strategia di impegno sulla questione dell’Iran. Ma siamo onesti: qualcuno crede davvero che due o tre anni fa i ministri degli esteri avrebbero assunto una linea dura con l’Iran, senza le pressioni esercitate dall’Amministrazione Bush? Dopo l’Iraq, gli europei sanno di avere un modo per evitare l’uso unilaterale della forza da parte degli USA: quello di accelerare il loro passaggio a una posizione più dura. E il presidente Kerry li manterrà ai livelli più elevati di questo standard.

Anche sull’uso della forza in quanto tale abbiamo bisogno di un nuovo consenso. Il dibattito sui limiti del diritto d’intervento è in corso fin dal Trattato di Westfalia del 1638. È necessario cambiare i termini di questo dibattito, per concentrarci sulla comune responsabilità di proteggere i nostri cittadini dalle aggressioni, sia dei tiranni che dei terroristi. Abbiamo già compiuto parte di questo percorso negli anni Novanta, quando – non senza grandi difficoltà – ci siamo accordati nel dichiarare che uno Stato decade dalla sua sovranità quando commette abusi sistematici nei confronti della propria popolazione. Come considerare allora uno Stato privo di qualsiasi controllo democratico, che cerchi di accumulare armi di distruzione di massa, o dia riparo ai terroristi? Anche in queste circostanze uno Stato dovrebbe decadere dalla propria sovranità, dando adito al diritto d’intervento. Ovviamente, prima di ricorrere alla forza dobbiamo usare ogni possibile strumento per convincere un Milosevic, un Saddam o i talebani ad attenersi a uno standard minimo di responsabilità. Ma qualora questi tentativi di persuasione falliscano, dobbiamo essere pronti ad esercitare la coercizione.

 

Sostenere gli Stati in situazioni di dissesto, espandere la democrazia

Infine, vi è la necessità di un nuovo impegno per sostenere gli Stati in condizioni di dissesto e per espandere la democrazia. Gli Stati deboli e disastrati sono crepe nel nostro sistema internazionale. È un imperativo morale dare loro il nostro aiuto. Oggi però dovrebbe essere chiaro a tutti che abbiamo anche un imperativo strategico.

Non è una novità che sul nostro pianeta esistono paesi molto poveri e che spesso le popolazioni di quei paesi soffrono a causa del malgoverno di regimi corrotti e incompetenti. La novità sta negli effetti di tutto questo sulla nostra vita e nel fatto che questi antichi mali all’origine di tante miserie umane sono oggi una minaccia alla sicurezza. Gli stessi simboli del nostro dinamismo tecnologico, dal telefono cellulare a internet o ai jet, oggi si trasformano in armi nelle mani dei nemici dichiarati del progresso e della libertà. E di fatto, consentono ad attori senza uno Stato d’appartenenza di proiettarsi fuori dall’ombra, o dal territorio di qualche paese debole e dissestato, per attaccarci nelle nostre città e nelle nostre case. E data la potenziale diffusione delle armi di distruzione di massa, questa minaccia è esistenziale, nel senso letterale del termine.

Gli Stati in dissesto sono anche terreno fertile per la produzione di droghe e per il narcotraffico, i cui profitti vanno ai signori della guerra e ai tiranni, e servono a seminare instabilità e ad aggravare il problema della droga nei nostri paesi. Infine, quei paesi possono essere luoghi di incubazione di malattie infettive, quali l’Aids, che non conoscono frontiere.

Un’amministrazione Kerry si rivolgerebbe agli americani e agli altri paesi in condizioni di relativo benessere, facendo appello a tutti noi per chiederci di ricentrare la nostra attenzione, di riallocare le nostre risorse e di riformare le nostre istituzioni per raccogliere questa sfida. Dobbiamo tutti insieme affrontare seriamente il compito dello sviluppo economico: impegnarci per un più ampio e profondo alleggerimento del debito; attutire i traumi economici cui sono esposti i singoli paesi; offrire loro strumenti di lotta contro la corruzione; espandere in maniera drastica i nostri investimenti per un’educazione globale, e riorientare le istituzioni di Bretton Woods in vista del compito specifico di stabilizzare e sostenere gli Stati deboli.

Tutto questo è sintetizzato nell’espressione di nation building. L’attuale Amministrazione, entrata in carica senza tenere in alcuna considerazione questo concetto, si è trovata a confronto con le due maggiori sfide, dai tempi della seconda guerra mondiale, in materia di nation building. E quanto ha fatto finora, in Afghanistan come in Iraq, dovrebbe valerle un pessimo voto. In questi due paesi dobbiamo essere all’altezza della sfida, la quale però non può essere raccolta solo dagli Stati Uniti.

In Iraq, l’Amministrazione Bush si sta muovendo, certo in ritardo e di malavoglia, ma in maniera decisiva, nella direzione indicata dai suoi critici. Ha trasferito la sovranità all’Iraq; si è impegnata per una nuova risoluzione ONU a 360 gradi, con un appello agli Stati membri affinché forniscano truppe, provvedano all’addestramento dei servizi di sicurezza iracheni, costituiscano una brigata di protezione alla missione ONU, offrano contributi finanziari più generosi e concedano un significativo alleggerimento del debito. Dove sono tutti i nostri amici e alleati che avevano firmato quella risoluzione, e per tutti gli anni Novanta hanno compianto la sorte del popolo iracheno assoggettato alle sanzioni? Ora hanno un’opportunità per dare il loro aiuto. Non prendano a pretesto l’attuale Amministrazione per sottrarsi a quest’impegno.

E ovviamente, l’opera di nation building non può attendere la bancarotta di un Stato o la deposizione del suo regime. Dobbiamo attivarci preventivamente. La democratizzazione, o la trasformazione, devono procedere mano nella mano con l’opera di nation building. Un’Amministrazione Kerry darebbe un forte sostegno alle forze del progresso, non con brutali campagne volte a imporre la democrazia dall’esterno con la forza, ma collaborando con i modernizzatori dall’interno per costruire, nel lungo periodo, le istituzioni della democrazia.