Cambiare per governare

Written by Vittorio Campione Tuesday, 01 June 2004 02:00 Print

Il ministro Letizia Moratti, intervenendo al secondo congresso di Forza Italia svoltosi ad Assago alla fine di maggio, ha imputato ai precedenti governi la responsabilità del degrado della scuola italiana e dei ritardi accumulati rispetto ai partner europei e mondiali più sviluppati. Al di là dell’ovvia considerazione secondo cui, in questa chiamata di correità sono evidentemente coinvolti, non solo i due o tre ministri che l’hanno immediatamente preceduta, ma anche i governi che per molti lustri hanno presumibilmente beneficiato del voto e dell’apprezzamento di molti degli attuali esponenti della Casa delle Libertà, c’è un altro punto che non può essere taciuto.

Il ministro Letizia Moratti, intervenendo al secondo congresso di Forza Italia svoltosi ad Assago alla fine di maggio, ha imputato ai precedenti governi la responsabilità del degrado della scuola italiana e dei ritardi accumulati rispetto ai partner europei e mondiali più sviluppati.

Al di là dell’ovvia considerazione secondo cui, in questa chiamata di correità sono evidentemente coinvolti, non solo i due o tre ministri che l’hanno immediatamente preceduta, ma anche i governi che per molti lustri hanno presumibilmente beneficiato del voto e dell’apprezzamento di molti degli attuali esponenti della Casa delle Libertà, c’è un altro punto che non può essere taciuto.

Nell’inverno del 2000 il ministro dell’istruzione Luigi Berlinguer portava a compimento l’iter parlamentare di un complesso di leggi che: a) prolungavano l’obbligo scolastico e istituivano l’obbligo formativo sancendo così, e non a parole, il diritto-dovere all’istruzione; b) prevedevano a diciotto anni il completamento del corso degli studi, ponendo i nostri giovani al livello dei loro coetanei europei quanto a durata del percorso educativo; c) istituivano il sistema nazionale di istruzione, riconoscendo il contributo di quanti, enti o privati, avevano istituito scuole e istituti di educazione; d) si ponevano l’obiettivo di qualificare e valorizzare docenti e dirigenti impegnati in una crescita della loro professionalità. Quelle leggi erano certo migliorabili e nessuno pensa di farne un manifesto per il futuro, ma rappresentavano il punto di arrivo di un confronto importante e lungo, non solo fra le forze politiche ma anche nelle scuole e con i cittadini.

Ebbene, quelle stesse forze politiche che oggi esprimono il ministro, seppero saldarsi con la parte più conservatrice del mondo della scuola, timorosa di veder crescere responsabilità e doveri e diminuire certezze, garantite nel tempo da governi più preoccupati del controllo sociale che non della crescita culturale e professionale dei giovani. Autorevoli parlamentari, oggi membri del governo, andarono sotto il ministero a garantire il loro appoggio a manifestanti che si opponevano ai processi di riforma e all’avvio di percorsi di carriera per i docenti basati sul merito anziché sugli automatismi. Grazie anche al credito acquisito in quei giorni (e all’errore di non portare a termine, nell’ultimo anno della legislatura, il cammino intrapreso) il centrodestra ha capitalizzato fino alle elezioni del 2001 il consenso ottenuto, promettendo di mantenere quel patto stipulato in viale Trastevere, e mescolandolo poi con il suo contrario e cioè innovazione e crescita, le famose tre «i».

Il giro di boa dei primi tre anni della legislatura e la crescente disillusione di parti consistenti dell’elettorato nei confronti dell’attuale coalizione di governo, obbligano quanti guardano all’opposizione come punto di coagulo di una diversa prospettiva, a riflettere sui contenuti di una piattaforma alternativa, sui modi della sua definizione, e sulle procedure per la costruzione, attorno ad essa, di un consenso quanto più ampio possibile.

Nel caso delle tematiche dell’istruzione e della formazione (ma probabilmente anche in altri ambiti) questo comporta un confronto molto aperto all’interno dello schieramento che si candida a governare. Sfuggendo espressamente e programmaticamente alla tentazione di assemblare i molti no alla politica dell’attuale governo nell’illusione che possano automaticamente trasformarsi in sostegno a una diversa piattaforma i cui punti fermi vanno indicati nell’educazione lungo tutto l’arco della vita, nell’aumento del numero e della qualità dei diplomati e dei laureati, nella riduzione a livelli fisiologici del danno recato al paese dagli abbandoni e dalla dispersione scolastica e, conseguentemente, nella piena integrazione fra istruzione e formazione professionale. Tale integrazione si costruisce intanto con l’impegno a operare un riequilibrio degli investimenti e con l’incentivo per i migliori fra docenti e dirigenti a scegliere un canale finora considerato di serie B per contribuire alla sua trasformazione. Forse anziché protestare per l’orientamento dei «figli dei poveri» verso la formazione professionale bisognerebbe operare per modificare struttura e contenuto di un percorso formativo essenziale per il paese e comunque imboccato da un consistente numero di giovani.

Indicare questi obiettivi comporta rispondere ad alcune domande preliminari, correggere, anche sensibilmente, talune impostazioni del passato, impegnarsi in un confronto anche aspro per definire priorità e risorse necessarie per realizzare gli impegni. Paradossalmente alcuni fra gli strumenti più importanti per muovere lungo questa strada, e cioè l’autonomia delle istituzioni scolastiche e la diffusione delle tecnologie, sono già stati in parte messi a punto (tra l’altro ciò è avvenuto con nostro merito nella passata legislatura), ma sono oggi fortemente decontestualizzati sia rispetto alla povertà della visione strategica dell’attuale governo sia rispetto alle posizioni dell’opposizione.

Il governo infatti, che pure a parole assume una parte di questi obiettivi, risulta ormai chiaramente prigioniero dell’esigenza (questa sì strategica) di non scontentare quel vasto mondo conservatore quando non schiettamente reazionario che ha vissuto il successo della destra nel 2001 non come una normale alternanza di governo ma come una rivincita. L’opposizione, specularmente, in tante sue parti ha avuto una regressione difensiva anziché contrastare il governo sui temi di una maggiore modernità. Non avere incalzato a sufficienza il governo in questi tre anni sul terreno dei parametri di Lisbona è probabilmente il limite maggiore di un’opposizione troppo incerta sulla strada da prendere.

A questo punto della legislatura, però, al centro della discussione non può più stare il rapporto fra protesta e proposta, né tanto meno l’impegno richiesto da alcuni di rispondere alle abrogazioni della Moratti con altrettante abrogazioni uguali e contrarie: bisogna costruire ipotesi basate sulla corrispondenza fra le proposte relative al sistema educativo e la strategia generale indicata per il governo e lo sviluppo del paese. Anche perché, essendo il sistema educativo un grande servizio pubblico che risponde a domande decisive per lo sviluppo, ma anche per la sopravvivenza della società, la sua crisi rischia di coinvolgere lo stesso tessuto sociale.

Da questo punto di vista ci sono alcune questioni in qualche modo preliminari: vanno mantenuti inalterati gli obiettivi che l’Unione europea si è data a Lisbona per il 2010; va stabilita con serietà e precisione la quantità di investimenti che possono essere destinati a questo settore; va indicato e argomentato l’ordine di priorità degli interventi necessari.

Purtroppo su questi tre punti la discussione, fino ad ora, o è stata generica o ha messo in luce opinioni contrastanti. Di Lisbona non si parla se non per riferirsi a un’Europa astratta, gli investimenti sono rivendicati spesso in modo scollegato dalle proposte di merito, e quanto alle priorità la frammentazione e l’autoreferenzialità regnano sovrane.

L’insieme delle scelte adottate dall’UE è finalizzato a fare dell’Europa la società della conoscenza più competitiva e più dinamica del mondo. La visione che i governi europei posero nel 2000 alla base delle decisioni comunitarie non si limitava a ispirarsi, come forse qualcuno ha creduto, a un generoso egualitarismo vagamente progressista che puntasse a maggiore occupazione e a livelli più elevati di istruzione. Il senso generale di quegli obiettivi derivava da una tempestiva previsione sulla competizione futura fra i maggiori paesi del mondo e quindi dalla conseguente necessità di elevare la capacità dei paesi dell’Unione europea di moltiplicare la propria ricchezza principale fatta di conoscenza e specializzazioni qualificate.

Se fino a ieri in questo campo i diversi paesi hanno proceduto in modo diseguale e con risultati che derivavano soprattutto dalle tradizioni consolidate, l’accelerazione dello sviluppo delle tecnologie e l’interdipendenza dei diversi sistemi nazionali obbliga a mutare registro. Per un paese come l’Italia, che ha ritardi e difformità rilevanti rispetto ai maggiori partner europei, far proprie (e non solo con dichiarazioni formali) le scelte di Lisbona è indispensabile se si vuole continuare a stare nel gruppo di testa dell’UE.

Le scelte strutturali compiute nel passato (la mancanza di un canale di formazione professionale e la centralizzazione del governo del sistema in ogni suo aspetto) hanno sempre più impedito di fornire un servizio di istruzione che corrispondesse alle necessità del paese e alle esigenze dei cittadini. Finché il sistema si è integrato con le grandi organizzazioni sociali (dalla famiglia ai partiti, alla chiesa, con tutte le loro articolazioni) oppure ha potuto riferirsi a segmenti relativamente ristretti (tecnici qualificati in singoli settori produttivi in cui le aziende italiane conquistavano rilevanti posizioni di nicchia) esso ha raggiunto gli obiettivi generali di erogazione di conoscenze atte alla formazione dei cittadini e alla preparazione al lavoro e alla vita professionale. Tuttavia, dinanzi alle esigenze derivanti dall’integrazione sovranazionale, e di cui gli obiettivi di Lisbona sono l’esplicitazione, i limiti del sistema implodono.

Colmare il divario che si è consolidato nel tempo può avvenire solo in presenza di scelte assai impegnative, e comporta l’abbandono di impostazioni che privilegiano risolutive messe a punto dell’ordinamento e ingegnerie raffinate tese a far convivere una tradizione ricca di contenuti culturali (e carica di malfunzionamenti) con esigenze di innovazione e una domanda sociale che, anche se in modo impreciso, chiede con forza crescente un rapporto più stretto fra formazione e lavoro.

È qui anzitutto che va ricercato il motivo dell’inutilità dello scontro propagandistico sul mantenimento o meno delle leggi approvate in questa legislatura. È ovvio che andranno corretti o annullati tutti quei provvedimenti odiosi e punitivi nei confronti dell’organizzazione del sistema o quelli che con dubbia legittimità tendono a ripristinare varie forme di centralismo o addirittura indicazioni cogenti sui programmi di studio che violano le norme sull’autonomia; ma sarebbe sbagliato pensare a una improbabile nuova riforma di ambizione gentiliana. Tra l’altro chi metterebbe d’accordo in tempi ragionevoli i disegni alquanto diversi che sono presenti anche a sinistra? Per rendere concreta la priorità della formazione l’obiettivo deve viceversa essere quello indicato da Ciampi lo scorso dicembre: apparentemente modesto ma certo urgente e realistico, il messaggio del presidente suggeriva infatti di impegnarsi per «dimezzare il tasso di abbandono degli studi elevando così il numero dei giovani con un livello di istruzione superiore».

Un ulteriore passo in questa direzione è poi certamente la destinazione di attenzione e risorse a quelle fasce di popolazione adulta che negli ultimi anni non ha completato alcun percorso formativo (o lo ha fatto in modo sostanzialmente inefficace) per risolvere il problema del suo reinserimento in circuiti formativi accelerati e di qualità. Ciò può avvenire (come era stato già proposto in passato e ripreso recentemente) mediante il lancio di un programma nazionale di recupero che si rivolga prioritariamente a questi cittadini per rimotivarli in specifici percorsi finalizzati a un inserimento lavorativo e professionale qualificato. Questo programma è oggi realistico anche grazie alla possibilità di utilizzare tecnologie che consentono di non riprodurre puramente e semplicemente l’ambiente scolastico. Prendere in mano il libro lasciato cadere a sedici anni è difficile, riagganciare quei contenuti attraverso un percorso agevolato dalle tecnologie è possibile, è più semplice ed è una strada che deve essere tentata.

Se si esaminano però gli atteggiamenti e le domande diffuse in materia di istruzione e formazione da parte dei cittadini vengono subito all’occhio alcune contraddizioni anche molto forti. La generale osservazione sulla insufficienza delle istituzioni formative rispetto a quelle che sono percepite come le esigenze del paese o anche soltanto dei propri figli, è spesso accompagnata da proposte in qualche modo restauratrici, come se la distanza fra scuola e realtà potesse essere colmata tornando alla scuola dei bei tempi andati. Mentre tutti convergono ormai sull’importanza dello studio dei due veri e propri nuovi alfabeti (inglese e informatica) raramente il loro inserimento viene ipotizzato come qualcosa in più della pura e semplice aggiunta di nuove discipline. La condanna (che ha un forte orientamento di sinistra ma è condivisa certamente anche da cittadini di diverso orientamento) del carattere largamente aprioristico e ottusamente classista dell’orientamento precoce degli studenti socialmente e culturalmente più svantaggiati non si traduce quasi mai nella richiesta di una qualificazione dei percorsi di istruzione tecnica e professionale per farli essere competitivi e vincenti sul piano della qualità. La richiesta è sempre (e irresponsabilmente) quella di rinviare il momento della scelta.

Partire da Lisbona (e confermarne la validità dell’approccio pur rimodulando, se necessario, i tempi) da questo punto di vista aiuta moltissimo: da una parte diventa prioritario, come già accennato, l’intervento sugli adulti e su tutti i segmenti che riguardano il rapporto con il lavoro, dall’altra diventa fondamentale progettare percorsi che, fin dall’infanzia, comincino a rivedere l’intera organizzazione del lavoro scolastico incentrandolo sull’apprendimento, sullo studente, sulla flessibilità dei percorsi, sull’attenzione al territorio, sull’innovazione.

È questo il modo (e non la sostituzione di un modello a un altro) per far essere la scuola di tutti e di ognuno, per formare dei cittadini, per far scegliere fra diverse opportunità da esplorare. E per far scegliere sempre, o almeno più volte. Il sistema educativo a canne d’organo non è meno sbagliato se le biforcazioni avvengono più tardi. Va data al paese la possibilità di usare la scuola come una rete di nodi collegati che possono consentire una molteplicità di percorsi egualmente validi e da costruire, a partire dalle proprie vocazioni, con una continuità che non è necessariamente verticale.

Discutere di riforme scolastiche ha significato di solito dare per scontato che esisteva una sorta di età dell’innocenza nella quale ai bambini e ai ragazzi doveva essere trasferita una cultura disinteressata fatta di saperi generali buoni per lo sviluppo della cittadinanza sociale. Dopo e solo dopo i saperi dovevano specializzarsi, divenire funzionali a un percorso che portava al lavoro o a studi più complessi, e quindi da quel momento i saperi potevano differenziarsi. Avendo questa differenziazione anche un carattere gerarchico (saperi per lavori importanti e redditizi accanto a saperi per lavori subordinati o precari) la richiesta costante è stata quella di decidere il più tardi possibile. Viceversa il cambiamento necessario deve essere finalizzato (facendo finalmente piazza pulita delle fumisterie di tante discussioni del passato) a darci una maggiore qualificazione individuale (competenze per il lavoro e lo sviluppo professionale, educazione alla cittadinanza, ecc.) e generale (meno dispersione scolastica, maggior numero di diplomi e di qualifiche professionali superiori, più laureati, più ricerca e innovazione di sistema). Ciò non può avvenire se non grazie a una diversa organizzazione del lavoro, alla piena valorizzazione dell’autonomia delle istituzioni scolastiche e del loro rapporto con le istituzioni del territorio, a un significativo e selettivo investimento di risorse pubbliche.

Una diversa organizzazione del lavoro scolastico passa, come abbiamo detto più volte, attraverso l’introduzione delle tecnologie didattiche che rendono possibile moltiplicare le esperienze, visualizzare le conoscenze, ricostruire gli scenari e sperimentare le ipotesi scientifiche. La sperimentabilità delle conoscenze diviene così il gran miscelatore dei saperi generali e specialistici, strumento di flessibilità e di personalizzazione dei percorsi educativi.

L’importanza di questo strumento è tale da giustificare la proposta del varo di un piano nazionale per l’innovazione delle tecnologie didattiche che si prefigga di elevare sensibilmente (almeno fino al rapporto di 1/10) il numero di stazioni di lavoro presenti per la didattica in ogni istituzione educativa, ne garantisca la costante connessione in rete e avvii la riorganizzazione del lavoro in tali istituzioni a partire dalla centralità dell’apprendimento mediante tali strumenti.

La modifica dell’organizzazione del lavoro scolastico però passa anche attraverso la ridefinizione del profilo professionale del docente. Le competenze trasversali devono essere sempre più pari se non addirittura superiori a quelle disciplinari, e pari deve essere la valorizzazione del loro possesso. La figura del docente destinato a far lezione, a trasmettere le sue conoscenze e al massimo a verificarne l’apprendimento da parte degli studenti, non corrisponde più a questa nuova organizzazione. Mettere a punto il profilo di questa nuova figura professionale non sarà compito facile e tanto meno breve. Il suo svolgimento però verrà sicuramente facilitato se si potrà convenire sulla rimozione di molti residui di passati confronti: dalla vecchia mitologia sulla missione dei docenti ai nuovi schematismi che spesso traspaiono nell’enfasi che si pone sull’insegnante come professionista, dalle polemiche sull’impiegato pubblico nullafacente alla richiesta di stipendi europei avanzata spesso da talune organizzazioni senza disponibilità al confronto sulle funzioni e sul profilo reale. La strada maestra è quella che intanto distingue all’interno della funzione docente diversi profili che possono in parte coesistere nella stessa persona, ma anche essere ripartiti. Ed è anche quella che non attribuisce al solo percorso formativo iniziale la possibilità di abilitare a tutti gli aspetti della funzione docente che viceversa devono essere acquisiti in momenti diversi (in servizio, in formazione ricorrente, ecc.) e certificati in modo adeguato e imparziale.

Quindi, a una organizzazione del lavoro del tipo accennato prima non può corrispondere un docente (ancorché bravo e culturalmente preparato) che si limita a far lezione, interrogare e valutare periodicamente i suoi allievi. Docenti e dirigenti scolastici possono aspirare ad avere (almeno in prospettiva) una collocazione professionale e sociale totalmente nuova e un ruolo sociale ricco e polivalente. Il docente a cui pensare è un professionista del lavoro culturale nel senso weberiano del termine (che rifiuta cioè di dar risposte valide sempre e comunque), ed è anche un operatore che progetta azioni educative sulla base di indirizzi centrali e programmi verificati con le comunità. Progetta il suo lavoro a partire dall’analisi sul campo dei fabbisogni degli allievi e del territorio, anziché delle circolari del ministero, e fa del team building il primo obiettivo da perseguire sia con i colleghi sia con gli studenti.

L’ipotesi (che va discussa fino a definire un nuovo e diverso stato giuridico) di prevedere una simile evoluzione della figura del docente mira esplicitamente a ridurre progressivamente la preponderanza degli aspetti strettamente disciplinari a favore della capacità di guidare gli studenti verso il coordinamento dei saperi e le verifiche esperienziali, verso la capacità di lavorare in gruppo e di far emergere abilità specifiche che ciascuno ha. Un docente che ha magari bisogno di controllare ogni tanto l’esattezza di una nozione, ma sa come organizzare il percorso educativo (collettivo e individuale) dei suoi studenti.

Analoga rilevanza ha il tema della valorizzazione e dello sviluppo dell’autonomia. Essa fu pensata, non dimentichiamolo, come una autentica riforma istituzionale, destinata a incidere direttamente sul rapporto di fiducia tra poteri pubblici e cittadini. Ma l’autonomia è stata anche una riforma dell’intero sistema di istruzione, e quindi un radicale ripensamento dell’organizzazione del servizio pubblico di istruzione. Essa suppone, come si diceva già nel 1996 definendo il programma per quelle elezioni, l’abbandono del modello «ministeriale», che è un tipico modello verticale, per sostituirlo con uno formato dall’insieme delle comunità scolastiche, nelle quali si fa istruzione, ricerca, formazione, attraverso modelli flessibili, in vista del raggiungimento di obiettivi generali, secondo standard di qualità, fissati da un «centro» dotato di funzioni strategiche e finalmente liberato da compiti di gestione.

Questo approccio comporta una trasformazione dei rapporti fra i diversi soggetti istituzionali e di ognuno di essi con i cittadini. Né la confusione derivante dal sovrapporsi a questo percorso delle grossolane enunciazioni della cosiddetta devolution deve far deviare dalla strada intrapresa.

Definire e coordinare gli indirizzi generali e i livelli essenziali delle prestazioni cui ogni cittadino ha diritto è compito dello Stato ma, fatto ciò, è alle comunità scolastiche e ai luoghi di formazione che spetta organizzare autonomamente il modo in cui quegli indirizzi vanno raggiunti e quei livelli essenziali garantiti e ampliati. Le istituzioni scolastiche e gli enti locali devono quindi poter disporre di risorse e di poteri per organizzare il servizio. Che in prospettiva questo comporti la scomparsa totale, tranne che per le funzioni di indirizzo, di un potere centrale sovraordinato è probabilmente inevitabile, ma non è questo il tema del momento. Quello che occorre costruire oggi è una capacità di raccordo fra istituzioni scolastiche e istituzioni del territorio che consenta di programmare l’offerta formativa sulla base delle diverse esigenze. Tradotto in proposte questo significa affidare alle regioni la definizione della programmazione dell’offerta formativa partendo dai fabbisogni accertati sul territorio (numero di giovani in ogni classe di età, attese del sistema produttivo, recettività del sistema di istruzione superiore) e mettendo in campo un sistema di formazione generale e di base teso alla erogazione di saperi essenziali e con una forte componente orientante specie nella fase finale, seguito nei tre anni conclusivi da un percorso propedeutico agli studi superiori ovvero assai caratterizzato in senso professionalizzante.

Come è chiaro, l’insieme di queste ipotesi comporta un investimento consistente di risorse finanziarie e una costante attenzione da parte del governo nel suo complesso. Mentre quest’ultimo aspetto potrà trovare le soluzioni istituzionali idonee soltanto a suo tempo, le scelte di bilancio vanno assunte per tempo anche per tentare di mettere al riparo il futuro ministro dell’istruzione dalle forbici del futuro ministro dell’economia.

In ogni caso la priorità strategica del riordino del sistema educativo comporta la necessità di investire ingenti risorse finanziarie. Accanto alla campagna generale indicata prima e il cui costo richiede un apposito finanziamento aggiuntivo, occorre riorganizzare il bilancio tenendo conto che non ci sono i percorsi professionali e vanno costruiti, qualificati e messi in relazione con le realtà produttive del paese; non c’è una politica delle eccellenze che consenta di sostenere quelle che esistono (e di stimolarne altre) e di far loro avere una influenza positiva su altre istituzioni con cui entrare in rete; non c’è alcun incentivo alla qualità dell’azione educativa dei docenti; manca una politica di investimenti nelle strutture e nei supporti didattici che dia a tutti non l’alfabetizzazione linguistica e tecnologica ma una effettiva padronanza di queste «abilità» che ormai sono divenute essenziali come leggere, scrivere e far di conto.

Per fare tutte queste cose (e anche altre) occorrono molti soldi che si possono trovare solo se vi sarà una forte determinazione prima e dopo il confronto elettorale e la capacità di impostare anche la necessaria azione legislativa in termini di effettiva emergenza nazionale.

Spostare l’1% del PIL a favore del sistema nazionale di istruzione e formazione non è una decisione semplice e comporta la rinuncia o il rinvio di altre urgenze in vari campi. È per questo che è bene cominciarne a discutere per tempo in modo da prendere con gli elettori impegni reali anziché sottoscrivere contratti fasulli o stringere patti fatti solo di propaganda e di riaffermazioni ideologiche.