L'Europa divisa

Written by Carlo Pinzani Thursday, 01 January 2004 02:00 Print

Il fallimento della Conferenza intergovernativa dello scorso dicembre è giunto a conclusione di una serie di eventi che, per quanto prevalentemente negativi, hanno visto il processo d’integrazione europea al centro del dibattito politico internazionale, in un modo che non si era mai verificato in passato. Anche soltanto per denunciarne i limiti o deplorarne l’insufficienza degli sviluppi, il sistema mediatico mondiale ha dedicato all’evento un’attenzione inusitata e senza precedenti nel cinquantennale processo di costruzione di un’entità politica europea.

 

Il fallimento della Conferenza intergovernativa dello scorso dicembre è giunto a conclusione di una serie di eventi che, per quanto prevalentemente negativi, hanno visto il processo d’integrazione europea al centro del dibattito politico internazionale, in un modo che non si era mai verificato in passato. Anche soltanto per denunciarne i limiti o deplorarne l’insufficienza degli sviluppi, il sistema mediatico mondiale ha dedicato all’evento un’attenzione inusitata e senza precedenti nel cinquantennale processo di costruzione di un’entità politica europea.

Questa constatazione permette di avviare un tentativo di individuazione di possibili futuri sviluppi del processo di costruzione dell’Europa, con una valutazione positiva: mai come quest’anno, neppure al momento delle grandi discussioni innescate dalle diverse visioni di Charles de Gaulle e di Margaret Thatcher, le questioni europee sono state al centro degli interessi dei popoli europei e, forse per la prima volta, hanno coinvolto strati della popolazione diversi dalle élites più o meno ristrette che nei paesi membri seguivano tradizionalmente il dibattito europeo. È appena il caso di precisare che quest’attenzione non è di per sé garanzia di un maggior gradimento popolare del processo di unificazione dell’Europa: ma anche l’euroscetticismo o, addirittura, l’euroavversione sono da preferirsi all’indifferenza e all’ignoranza (che rimane elevatissima).

Vi è, in questa conclusione, una notevole dose di ottimismo dal momento che, come si è accennato, gli eventi del 2003 che hanno riguardato l’Europa hanno avuto una connotazione prevalentemente negativa, con l’importante e significativa eccezione della tempestiva conclusione dei lavori della convenzione incaricata di predisporre il progetto di costituzione della nuova Europa.

È vero che a Bruxelles i capi di Stato e di governo dei venticinque paesi che, a partire dal primo maggio 2004, faranno parte dell’Unione non sono stati in grado di raggiungere un accettabile compromesso che rendesse definitivo il progetto costituzionale elaborato dalla Convenzione. Questo, a sua volta, era il prodotto di altri numerosi compromessi, ma complessivamente introduceva importanti novità istituzionali che potrebbero ancora consentire progressi sostanziali sul cammino dell’unificazione.

1. Nel nostro paese l’esito della Conferenza intergovernativa non poteva che essere risentito in maniera particolarmente negativa, visto che all’Italia, in quanto incaricata del turno di presidenza semestrale dell’Unione, incombevano responsabilità particolari. Quest’aspetto è apparso evidente nel sistema mediatico italiano, che, ancora inguaribilmente provinciale, ha troppo enfatizzato gli aspetti di politica interna italiana. Vero è che, in parte, questa insistenza era ineliminabile (tanto che la questione ha avuto un più misurato eco anche nella stampa internazionale), dal momento che alla guida delle due principali istituzioni dell’Unione erano i capi dei contrapposti schieramenti politici italiani.

Tuttavia, fondare soltanto su questi elementi il giudizio complessivo sulla vicenda sarebbe stato estremamente fuorviante e avrebbe significato trasferire sul piano europeo quella visione pettegola e riduttiva della politica che prevale nel sistema delle comunicazioni di massa nella società contemporanee, e non certo soltanto in quella italiana. E – va aggiunto – nella misura in cui è effettivamente avvenuto, quel trasferimento non è stato del tutto negativo, visto che sino a tempi assai recenti la politica a livello europeo era ben lontana dall’esser considerata un possibile «teatrino» sul quale far recitare come marionette gli uomini politici.

Data questa impostazione, sono da respingere tutti i tentativi che fanno ricadere sulla presidenza italiana, e in particolare sulle spalle di Silvio Berlusconi, la responsabilità principale dell’esito negativo dell’incontro di Bruxelles. Al massimo, al presidente del consiglio italiano può essere addebitato un eccesso di baldanza e di fiducia in se stesso e nelle proprie capacità; ma questa è una caratteristica fondamentale del suo modo di comunicare, assieme a uno stile che ricorda fastidiosamente la cultura, lo humour e l’affidabilità di un dirigente commerciale d’azienda degli anni Cinquanta del secolo scorso; tratti che probabilmente anche i suoi interlocutori politici diretti percepiscono.

Purtroppo, le cause della battuta d’arresto nel processo di costruzione dell’Europa sono assai più profonde e risalgono molto addietro nel tempo. Questa convinzione non presenta soltanto il risvolto negativo di considerare assai grave l’episodio, ma anche quello, di segno opposto, di considerarlo, appunto, un episodio che ha avuto precedenti di gravità comparabile (si pensi soltanto alla prima trattativa per l’adesione della Gran Bretagna alla Comunità economica europea, nella quale, come oggi, si mischiavano problematiche relative all’estensione del processo d’integrazione a problematiche istituzionali o alla politica della «sedia vuota» praticata dalla Francia nel 1965 in risposta all’iniziativa della Commissione per dotarsi di «risorse proprie» per il finanziamento della politica agricola comune).

Senza pretendere di ripercorrere neppure sommariamente le vicende europee, si deve ricordare che fin dagli inizi, ancor prima che venissero fondate le prime istituzioni europee e nel quadro delle diverse concezioni del sistema delle relazioni internazionali postbelliche, si manifestarono posizioni divergenti sul futuro assetto europeo. E, come avviene solitamente in qualsiasi organizzazione che sia sede di dibattito politico, le diverse tesi si contrapponevano a proposito della collocazione internazionale della futura Europa e dell’assetto istituzionale da dare ai nuovi rapporti tra gli Stati europei, considerati comunque indispensabili dopo i due tremendi conflitti che avevano sconvolto il continente in un breve volgere di anni.

Su questi due filoni, da oltre cinquant’anni, si affannano in Europa le forze politiche per trovare soluzioni condivise, che consentano di trasferire sul piano politico quello che è stato sin qui un successo prevalentemente economico. Filoni sui quali si è discusso all’infinito, sia considerandoli separatamente, sia affrontandoli insieme.

Il processo di aggregazione degli Stati dell’Europa occidentale all’indomani del secondo conflitto mondiale assunse fin dall’inizio un carattere di ambiguità, collegato con il rapido processo di disgregazione dell’eterogenea alleanza che aveva sconfitto i regimi fascisti. In questo contesto, le visioni della nuova Europa sono sostanzialmente riconducibili a due varianti, che prendono entrambe le mosse dall’esigenza di evitare la ripetizione di nuovi episodi della guerra civile europea del Ventesimo secolo. Giova anche avvertire che le varianti furono formulate entrambe anteriormente alla rottura dell’alleanza antifascista e, mentre la prima muoveva dall’assunto che l’instabilità europea non potesse essere superata senza l’intervento equilibratore di una potenza esterna, vale a dire degli Stati Uniti, la seconda riteneva che i paesi europei, ammaestrati dalle tragedie vissute, sarebbero stati da soli in grado di elaborare forme di aggregazione capaci di superare l’instabilità continentale.

È da quel momento che si può parlare della contrapposizione tra un’Europa atlantica e un’Europa europea, formulazioni entrambe utilizzate espressamente da de Gaulle. L’evoluzione postbellica del sistema delle relazioni internazionali privilegiò la prima delle due concezioni: l’integrazione europea nelle sue primissime fasi fu considerata soprattutto uno strumento della politica di containment nei confronti della minaccia sovietica, percepita in Occidente come gravissima e immediata.

E, tuttavia, la prima concreta attuazione del progetto di costruzione di una nuova Europa derivava espressamente dalla concezione autoctona del processo d’integrazione: la Comunità europea del Carbone e dell’Acciaio non era solo la realizzazione delle idee di Jean Monnet (arbitrariamente accomunato nell’agiografia europeistica a Konrad Adenauer e ad Alcide De Gasperi, che furono, invece, tra i principali esponenti della concezione atlantica dell’Europa), ma anche lo strumento per eliminare uno dei principali motivi di attrito tra Francia e Germania nel periodo tra le due guerre mondiali. Si trattava certamente di una realizzazione assai parziale, di un inizio complessivamente modesto, ma che doveva ben presto assumere un valore paradigmatico.

2. Una prima inversione di tendenza nella prevalenza della visione atlantica dell’Europa si registrò nel 1954 con il rifiuto dell’Assemblea nazionale francese di ratificare il Trattato istitutivo della Comunità europea di difesa. Questa era fortemente voluta dall’Amministrazione Eisenhower per una serie di motivi, che andavano dall’esigenza di consentire il riarmo della Germania federale e di rafforzare così il contenimento antisovietico, alla volontà – tipica delle Amministrazioni repubblicane anche dopo il superamento dell’isolazionismo – di ridurre il livello del coinvolgimento militare americano all’estero e in particolare in Europa.

Il dibattito che allora si svolse, seppure in un contesto radicalmente diverso da quello attuale, presenta qualche affinità con quello che oggi accompagna i tentativi di costruzione di una difesa autonoma europea. Le principali motivazioni della mancata ratifica francese del Trattato CED appaiono ora del tutto superate, in quanto si alimentavano di una persistente diffidenza nei confronti del riarmo tedesco e della volontà di uscire con il minor danno possibile dalla vicenda vietnamita dopo la sconfitta di Dien Bien Phu, ottenendo in materia la collaborazione dei sovietici, risolutamente ostili alla difesa europea. Non si può tuttavia dimenticare che tra le questioni aperte c’era anche il rapporto tra la nuova organizzazione europea e la NATO, che, proprio in quel torno di tempo, veniva strutturandosi in modo pienamente dipendente dalla politica americana. Non sono certo estranee a queste tematiche le sottili distinzioni e gli articolati compromessi che caratterizzano il dibattito e le trattative attualmente in corso sull’istituzione di un quartier generale europeo e sul suo livello di autonomia rispetto al sistema della NATO, in modo da distinguersi dall’intricatissima rete di comitati e organismi che non sono soltanto un tratto distintivo dell’organizzazione militare americana, ma anche uno strumento per l’esercizio dell’egemonia all’interno dell’Alleanza.

Certo, il fallimento della CED precluse ogni possibilità di sviluppo del processo d’integrazione europea sul piano politico, confinandolo rigidamente a quello economico, tanto più dopo l’ulteriore fallimento del tentativo franco-inglese di mantenere un’influenza europea in Medio Oriente con la disastrosa spedizione di Suez. I Trattati di Roma del 1957, che istituivano la Comunità economica europea e quella per l’Energia atomica, segnarono una forte ripresa della concezione autoctona dell’Europa, che si avvalse anche del benign neglect degli Stati Uniti.

3. Per quanto l’europeismo aux couleurs de la France sostenuto da de Gaulle appaia oggi decisamente vecchio, intriso com’era di un nazionalismo tanto superato quanto, purtroppo, duro a morire, non v’è dubbio che il ritorno del generale al governo della Francia abbia determinato una ripresa della visione autoctona dell’Europa, pur se ormai durevolmente confinata al piano economico.

D’altra parte, de Gaulle tendeva, sul piano politico, a fare argine all’egemonia americana ricavando alla Francia sia una relativa autonomia sul piano militare, con lo sviluppo di una limitata capacità di deterrenza atomica indipendente, sia un proprio spazio nel quadro del mondo bipolare, attraverso il mantenimento di buoni rapporti tanto con l’Unione Sovietica quanto con la Repubblica popolare cinese. Corollario di questa impostazione era la profonda diffidenza gaullista nei confronti della visione atlantica dell’integrazione europea, che indusse la Francia a opporsi lungamente – fino al 1972 – all’ingresso nella Comunità europea della Gran Bretagna, dati gli speciali rapporti che questa manteneva e intendeva continuare a mantenere con gli Stati Uniti. Sarebbe tuttavia far torto alla sagacia politica del generale de Gaulle ritenere che la sua concezione dell’Europa fosse antiamericana e che, conseguentemente, ignorasse i vincoli che al sistema delle relazioni internazionali derivavano dalla contrapposizione globale. L’obiettivo era quello di mantenere una limitata ma reale sfera di autonomia nell’ambito dell’alleanza occidentale (e anche della NATO), in un modo che – si veda il caso del Vietnam – avrebbe potuto tornare utile agli stessi Stati Uniti.

Sempre dal nazionalismo francese, tanto fiero nei toni quanto moderato nella sostanza, derivava, oltre che la rigorosa limitazione della costruzione europea all’ambito economico, anche la concezione rigorosamente intergovernativa dell’assetto comunitario: nella visione gaullista il metodo per procedere all’integrazione doveva limitarsi alla collaborazione tra gli Stati, escludendo ogni forma di sovranazionalità o, quanto meno, accettandola nella misura minima possibile. Per quanto impostata e sostenuta da de Gaulle questa visione gli è sopravvissuta a lungo e, sostanzialmente, la politica francese nei confronti dell’Europa ha continuato a seguire queste direttrici, pur in presenza di oscillazioni anche assai ampie, legate, fra l’altro, all’alternanza delle forze politiche francesi alla guida del paese.

Tuttavia, non si può certo sostenere che l’integrazione europea si sia mantenuta in questi decenni nei limiti della concezione gaullista, soprattutto per quanto riguarda lo sviluppo di limitate forme di sovranazionalità. Le motivazioni di questa evoluzione sono piuttosto complesse e vanno ricercate, anzitutto, nell’andamento complessivo del sistema delle relazioni internazionali, con il graduale attenuarsi della contrapposizione globale, abbastanza continuo a partire dal 1962, con la transitoria eccezione del periodo del primo mandato di Reagan.

In secondo luogo, le tendenze verso la sovranazionalità furono incoraggiate da un’interpretazione non certo scontata della normativa dei Trattati di Roma. Questi avevano istituito un organo ibrido, la Commissione europea, le cui competenze oscillavano tra l’indirizzo politico e l’alta amministrazione. A spingere nel senso della dilatazione dei poteri della Commissione verso l’alto e, quindi, nel senso della sovranazionalità, fu soprattutto la rapida formazione di una nutrita e influente burocrazia multinazionale che, con discrezione e continuità, evitando per quanto possibile la contrapposizione con le istanze e le concezioni intergovernative, provvide a elaborare una serie di norme e di prassi politico-amministrative che hanno esteso la loro efficacia a lato e al di sopra degli ordinamenti nazionali, venendo a formare il cosiddetto acquis communautaire. Questo costituisce, in realtà, un grande patrimonio per il processo d’integrazione, ma anche un pesante fardello: è soprattutto grazie a esso che esiste un quadro di norme e di procedure che danno corpo a una reale sovranazionalità. Ma è anche attraverso l’acquis communautaire che la costruzione europea viene spesso percepita come espressione di un potere burocratico, lontano dai cittadini e non adeguatamente sottoposto a controlli.

La considerazione si applica anche alla tecnostruttura europea, che ha costituito e costituisce un grande elemento propulsore verso la maggiore integrazione, ma che, al tempo stesso tendendo a estendere la propria azione alla politica, presta sempre più il fianco alla critica di esercitare poteri senza corrispondenti responsabilità, critica sollevata a suo tempo con eccessiva veemenza, ma non senza fondamento, da Margaret Thatcher.

In terzo luogo, è stato grazie alla perdurante intesa franco-tedesca che il processo d’integrazione è potuto proseguire con il graduale e lento incremento del tasso di sovranazionalità, che è riuscito a superare anche successivi allargamenti che hanno portato i membri della Comunità prima e poi dell’Unione dai sei paesi firmatari dei Trattati di Roma agli attuali quindici e ai prossimi venticinque.

Le motivazioni di questa evoluzione del sistema internazionale europeo, durata così a lungo da aver assunto un carattere strutturale, è da ricercarsi a sua volta nella comunanza degli interessi dei due maggiori paesi continentali: se la Francia poteva, anche nel pieno della contrapposizione globale, difendere un margine di autonomia dall’egemonia americana, la Germania, sconfitta e divisa, non aveva certo le stesse possibilità. Tuttavia, specialmente dopo la costruzione del muro di Berlino, anche nella Repubblica federale si cominciò a prendere coscienza del fatto che l’interesse nazionale, che non andava certo nella direzione dell’approfondimento e del consolidamento della divisione del paese, non poteva essere affidato esclusivamente agli Stati Uniti. Così, almeno, l’esperienza del muro fu vissuta dall’allora borgomastro di Berlino e futuro cancelliere Willy Brandt. Condivisa con sfumature diverse nel tempo e nei contenuti tanto dai cristiano-sociali quanto dai socialdemocratici e dalle forze politiche minori, l’intesa con la Francia rappresentava per la Repubblica federale una potenziale via d’uscita dalla condizione d’inferiorità politica nella quale si era venuta a trovare.

D’altra parte, i vantaggi che venivano a entrambi i paesi – e al resto dell’Europa occidentale – dalla tutela militare nei confronti della potenziale minaccia sovietica erano troppo evidenti perché vi si potesse rinunciare. Grazie agli Stati Uniti gli europei avevano potuto procedere in tempi rapidi alla ricostruzione postbellica e, successivamente, mantenere nei loro paesi un costoso livello di protezione sociale – secondo il modello elaborato dai laburisti inglesi nell’entre deux guerres e durante il conflitto – utilizzando risorse che, altrimenti, avrebbero dovuto essere dedicate alla spesa militare, senza alcuna garanzia di adeguatezza rispetto alle dimensioni, della potenza sovietica.

Il discorso vale in particolare per la Germania, non solo per la sua collocazione geografica, ma anche per il fatto che la Francia pagò anche all’egemonia americana, oltre che a un’altra serie di fattori, il rapido smantellamento del proprio impero coloniale africano, in un processo complessivamente pacifico, specialmente se confrontato con l’esperienza indocinese e quella algerina, la cui conduzione costituisce probabilmente, assieme alla scelta della resistenza all’aggressione hitleriana nel 1940, il maggior merito storico di Charles de Gaulle.

 

4. Anche se alla Gran Bretagna si applicano con poche varianti le stesse considerazioni fatte a proposito della Francia, la risposta inglese doveva essere di segno diametralmente opposto: la tradizione storica (fattore probabilmente sopravvalutato), l’alleanza bellica, i legami finanziari a questa conseguenti condussero i governi inglesi a privilegiare in ogni occasione il legame con gli Stati Uniti. La sola eccezione a questa linea di condotta fu la spedizione di Suez, il cui esito sciagurato indebolì durevolmente le possibilità di una politica europea autonoma.

Così la Gran Bretagna tese costantemente a porsi come fattore alternativo alla visione dell’Europa europea. Dopo un iniziale tentativo di istituire un’unione doganale contrapposta a quella istituita dai Trattati di Roma, la Gran Bretagna, beninteso con l’avallo americano, ritenne di richiedere l’adesione alla CEE, in modo da far valere all’interno di questa la concezione atlantica dell’integrazione e incontrando per ben due volte il diniego gaullista: furono questi momenti di scontro clamoroso tra le due confliggenti visioni del processo d’integrazione continentale. Uscito de Gaulle dalla scena, le velleità antiamericane dei governi francesi si attenuarono, e la costruzione europea procedette con un rafforzamento delle tendenze intergovernative, a favore delle quali si è sempre schierata la Gran Bretagna.

Sarebbe certamente eccessivo considerare la presenza inglese nelle istituzioni comunitarie come puro strumento della politica egemonica degli Stati Uniti: si può però considerare assodato che l’interesse britannico è stato permanentemente quello di ottenere consenso a Washington perché si è ascoltati a Bruxelles e viceversa. Sta però di fatto che l’allargamento della Comunità, soprattutto con l’inclusione della Gran Bretagna, è in qualche misura andato a discapito dell’approfondimento del processo d’integrazione, in un modo che anticipava le attuali problematiche dell’Unione.

 

5. La fine della contrapposizione globale, con il fallimento del comunismo, e la scomparsa dell’Unione Sovietica hanno avuto certamente ripercussioni enormi a livello planetario, andando a incidere sulle situazioni più disparate, sui conflitti più marginali, anche se, alla resa dei conti, è finito per risultare abbastanza chiaro che il rapporto conflittuale tra Stati Uniti e Unione Sovietica era, il più sovente, l’aspetto superficiale di conflitti radicati autonomamente, finendo per contribuire più alla stabilità che alle turbolenze della politica internazionale. Ma lo scacchiere nel quale il rapidissimo crollo della potenza sovietica ha avuto le ripercussioni maggiori è stato sicuramente quello europeo. E non si allude qui tanto alle straordinarie vicende che hanno sconvolto l’area dei paesi ex-comunisti, vicende che hanno avuto nell’ex-Jugoslavia il loro drammatico acme, quanto proprio all’Europa occidentale e al suo processo d’integrazione. Finita la minaccia comunista, anche la riunificazione della Germania, pur con qualche passeggera perplessità anglo-francese, è avvenuta in modo sostanzialmente indolore e ha finito per rafforzare anch’essa le tendenze centripete della nuova Europa. All’inizio degli anni Novanta poteva sembrare che fossero riunite tutte le condizioni perché l’integrazione acquisisse nuovo slancio e che, finalmente, potesse essere definitivamente superata la contrapposizione tra la visione atlantica e quella autoctona dell’Europa.

L’accelerazione e l’approfondimento del processo d’integrazione ricevettero un impulso rilevante, anche se non decisivo, con il Trattato di Maastricht. Pur senza voler attribuire un valore determinante alla circostanza, il salto di qualità compiuto in quell’occasione dal processo si verificò con perfetto sincronismo rispetto alla definitiva scomparsa dell’Unione Sovietica, proprio a sottolineare la diffusione della coscienza che il nuovo quadro complessivo del sistema delle relazioni internazionali poneva una sfida decisiva anche all’Europa occidentale.

Nonostante il risultato principale del trattato di Maastricht – la decisione di procedere all’unificazione monetaria su basi volontarie e in relazione a parametri macroeconomici predefiniti – operasse ancora sul piano economico, il problema politico della creazione di un soggetto europeo capace di inserirsi autonomamente nel sistema delle relazioni internazionali fu posto con chiarezza con l’istituzione dell’Unione europea. Questa doveva contare, oltre che su quello dell’economia, anche sugli altri due «pilastri» della Politica estera e di sicurezza comune e della cooperazione in materia di polizia e di giustizia. Ma, mentre l’unificazione monetaria è proceduta speditamente, seppur non senza inconvenienti, almeno nei paesi che fin dall’inizio vi avevano aderito, gli altri due «pilastri» non hanno fatto registrare progressi clamorosi e, negli ultimi tempi, si è registrato un vistoso calo di tensione nella tendenza alla creazione di una nuova Europa.

E ci si riferisce qui non soltanto all’incapacità dimostrata dall’Eurozona di esercitare un’attrazione sufficiente (come dimostrano sia l’esito negativo del referendum svedese sull’adesione all’euro, sia la decisione britannica di rinviare ogni decisione in materia), ma anche e soprattutto dalla mancata elaborazione di una politica estera comune, nonostante l’istituto del rappresentante speciale per la Politica estera e di difesa comuni previsto a Maastricht abbia cominciato a operare.

Se a tutto questo si aggiunge, nei tempi più recenti, una certa ripresa dell’euroscetticismo che comincia a diffondersi anche in paesi che, come l’Italia, ne erano stati sempre immuni, si comprende come la delusione per il fallimento della Conferenza intergovernativa del dicembre 2003 abbia ingenerato forti e perduranti preoccupazioni per il futuro, anche perché hanno posto in discussione il risultato dei lavori della Convenzione istituita nel 2000 al vertice di Nizza. Qui si ritenne che un nuovo assetto istituzionale costituzionalmente garantito fosse un prerequisito indispensabile per procedere al nuovo allargamento senza rischiare di bloccare il funzionamento delle istituzioni. Ed è proprio a questo punto che è ritornata in primo piano la contraddizione tra le due concezioni tradizionali dell’Europa: anche indipendentemente dalle relazioni speciali tra Gran Bretagna e Stati Uniti, ogni allargamento di un efficace processo d’integrazione europea costituisce un potenziale pericolo per l’egemonia americana nel Vecchio continente, in quanto può aumentarne il peso politico ed economico.

Avendo dunque perduto, almeno nelle proclamazioni, la sua funzione di tutela nei confronti della minaccia militare proveniente da est, l’Alleanza atlantica ha continuato a seguire l’evoluzione della politica americana, tendendo a divenire prevalentemente lo strumento della proiezione globale della potenza degli Stati Uniti, dilatando il proprio raggio d’azione fuori dai propri confini e anche dal continente europeo e, soprattutto, tendendo a espandersi verso est e a ricomprendere il maggior numero possibile di paesi già sottoposti all’influenza sovietica. È appena il caso di sottolineare che questa decisione fu adottata dall’Amministrazione Clinton già alla metà dello scorso decennio e, quindi, è del tutto indipendente dalle successive evoluzioni della politica internazionale degli Stati Uniti.

 

6. Per quanto taluni, invero assai incautamente, si siano spinti a immaginare che la stessa Russia possa un giorno far parte dell’organizzazione atlantica, non sembra azzardata l’ipotesi che in questa politica di allargamento della NATO verso est continui a pesare qualche dubbio residuo sul potenziale ruolo geopolitico dell’Armata, non più rossa ma pur sempre russa, cioè di un apparato militare che, per quanto mal ridotto e a dispetto degli ormai innumerevoli trattati sulla limitazione degli armamenti strategici, dispone di strumenti di distruzione di massa in grado di colpire in qualunque punto del pianeta e appartiene a un grande e potenzialmente ricchissimo paese, con tradizioni di tutto rispetto sul piano della politica di potenza. Questi inespressi e tuttavia evidenti timori sono andati incontro alla sacrosanta esigenza dei paesi dell’ex-blocco socialista di tutelarsi in ogni possibile modo nei confronti di ogni eventuale ripresa della politica russa di espansione verso ovest.

Quest’ultimo aspetto è in realtà degno di piena considerazione, dal momento che la sovrastruttura ideologica comunista non può nascondere la sostanziale oppressione nazionale che l’Unione Sovietica esercitava nei Paesi dell’est. Una politica che tenda in qualche modo a risarcire le sofferenze subite e a far recuperare il ritardo accumulato per effetto dell’influenza sovietica appare dunque pienamente giustificata. È invece assai dubbio che questi risultati possano essere conseguiti con l’inserimento in un’alleanza esclusivamente militare e che introduce i paesi coinvolti nell’ambito dell’egemonia americana che, a questo punto, è diventata il contenuto principale dell’Alleanza atlantica.

Non per nulla la visione più acuta della nuova politica americana elaborata ai tempi di Clinton prevedeva il «doppio allargamento», vale a dire quello contemporaneo della NATO e dell’UE, affidando alla prima il compito di allargare le possibilità d’intervento americano, anche fuori dal teatro europeo, e alla seconda quello di far recuperare il gap di democrazia e di sviluppo dei paesi dell’est europeo.

I paesi membri dell’Unione non potevano subire passivamente questa evoluzione, né, al tempo stesso, opporsi semplicemente al disegno americano con un atteggiamento che avrebbe potuto comportare la crisi definitiva dell’Alleanza. Le guerre jugoslave dovevano ulteriormente rafforzare questa esigenza: l’Europa occidentale fu sostanzialmente paralizzata dalle apprensioni anglo-francesi, condivise anche dall’Italia, nei confronti di una possibile egemonia della riunificata Germania sull’Europa danubiano-balcanica. Alla paralisi europea, che ridusse la vicenda jugoslava a una mera guerra civile nella quale far intervenire le Nazioni Unite per mantenere una pace che non c’era, pose provvisoriamente rimedio l’Amministrazione Clinton, con un intervento militare che doveva divenire paradigmatico della nuova capacità globale assegnata alla NATO e al quale gli europei non poterono far altro che acconciarsi, anche perché, in fondo, era facile schierarsi contro il nazional-comunismo di Milosevic.

Da queste esperienze derivò la necessità di aprire le porte ai paesi che già avevano espresso la loro volontà di adesione e di affrettare il più possibile i tempi del processo di allargamento dell’Unione, che nel marzo del 1994 aveva già registrato l’ingresso di Austria, Finlandia, Svezia, paesi del tutto estranei alle problematiche qui sopra enunciate, ma la cui adesione fornì un esempio illuminante delle difficoltà che qualsiasi ampliamento avrebbe necessariamente comportato.

Ci si riferisce ai contrasti che si dovettero superare per stabilire la nuova ponderazione del voto nelle decisioni da assumere a maggioranza, il cui ambito, peraltro, non veniva ampliato. Si trattava, in prima approssimazione, esattamente dello stesso problema che è stato alla base del fallimento della Conferenza intergovernativa di Bruxelles. La questione del voto a maggioranza era anch’essa assai annosa e aveva assunto rilievo assieme alla crescente esigenza di rafforzare l’aspetto politico del processo d’integrazione, sempre meno compatibile con il metodo del consenso, che è invece lo strumento essenziale attraverso il quale si è sempre realizzato il principio della natura interstatuale prima della Comunità e poi dell’Unione. Già il fatto che la questione tornasse a presentarsi ogni volta che nuovi soggetti venivano a partecipare alla costruzione dell’Europa era di per sé testimonianza dei progressi, lenti ma indiscutibili, del principio di sovranazionalità. Questi, a loro volta, erano dovuti sia all’oggettiva constatazione di una maggiore efficacia dei processi decisionali non fondati sull’unanimità, sia alla costante crescita del peso politico della Commissione e della burocrazia europea, principali espressioni della sovranazionalità.

In realtà, in entrambi i casi, il vero scoglio era ancora una volta rappresentato dal contrasto tra concezione atlantica e concezione europea del processo d’integrazione. Ma, al pari delle proclamazioni più o meno superficiali sulla fine delle ideologie o, addirittura, della storia, anche quella della facile realizzazione dell’ideale europeista doveva rapidamente rivelarsi una pia illusione, anzitutto perché il crollo del comunismo venne percepito in modo assai diffuso in termini ideologizzanti. A prescindere da ogni considerazione circa il modo in cui in Occidente si assistette passivamente al disperato e tardivo tentativo di Gorbaciov di condurre in porto una riforma del socialismo reale, l’atteggiamento che continuò a prevalere nei confronti della Russia, sprofondata nel caos e nella corruzione, fu quello di una malcelata soddisfazione di chi vede un vecchio e mortale nemico dibattersi nelle difficoltà più gravi e non solo evita di fornirgli ogni aiuto reale, ma anche ne incoraggia le tendenze più negative.

Primo corollario di questo atteggiamento generalmente diffuso fu quello di cercare di recepire con la massima sollecitudine le aspirazioni di sicurezza dei paesi sottrattisi all’influenza sovietica, desiderosi tanto del benessere quanto della libertà dell’Occidente. Se quelle aspirazioni erano effettivamente giuste, è anche vero che l’atteggiamento occidentale non era espressione soltanto di generosità, ma tendeva a consacrare il distacco dall’influenza russa e a renderlo quanto prima possibile definitivo. In fondo, si continuava a prendere sul serio la retorica di Winston Churchill, che nel 1946 aveva proclamato la divisione dell’Europa ad opera di una «cortina di ferro».

Con questo non si intende minimamente contestare il fatto che il sistema sovietico fosse in larga misura una «prigione dei popoli», ma soltanto negare che l’esistenza di governi comunisti a Praga, a Budapest o anche a Mosca, tanto per citarne alcune, ponesse queste città e i rispettivi paesi fuori dall’Europa, come se il socialismo, anche nella sua aberrante variante leninista, non facesse parte della tradizione e della cultura europea e fosse, invece, pura e semplice manifestazione del dispotismo asiatico.

Il risultato di questa situazione è stato l’innescarsi di una sorta di competizione tra NATO e UE nell’allargamento verso est, soprattutto ma non soltanto sul piano temporale. Da questo punto di vista è evidente che la competizione doveva essere vinta dalla NATO. Il risultato era scontato in partenza non soltanto perché è molto più semplice, qualora sussista un sufficiente accordo politico, operare un’integrazione sul piano militare che non estendere un’intesa destinata a investire tutta una serie di ambiti, a cominciare da quello politico, ma anche perché, per i paesi dell’est, la tutela della superpotenza americana nei confronti di una possibile ripresa d’influenza da parte della Russia appare molto più efficace di quella che può offrire un’Unione europea ancora in formazione.

 

7. In queste condizioni, è venuta meno la possibilità di un processo assai più graduale di accoglimento dei nuovi paesi membri nell’Unione europea, dilatato su tempi comparabili a quelli dei precedenti processi di allargamento, che per giunta vedevano coinvolti paesi a livello di sviluppo assai meno squilibrati. Di qui il tardivo senso di urgenza che ispirò le decisioni prese a Nizza, ove il riconoscimento più o meno sincero della necessità che l’Unione si dotasse di un assetto istituzionale formalizzato e più cogente dei precedenti trattati, rimasti largamente inattuati, condusse a elaborare le linee di un percorso costituente, nel quale l’esigenza della rapidità e dell’efficacia prevaleva su quella della partecipazione democratica.

Così, la scadenza per i lavori della Convenzione per il futuro dell’Europa fu stabilita in termini assai ristretti e le personalità che furono chiamate a guidarne l’attività seppero elaborare un metodo di lavoro (quello che sottoponeva al consenso del plenum il lavoro istruttorio del presidium) che ha consentito di rispettare i tempi del mandato. Né si deve dimenticare che questo fu impartito dal Consiglio dei capi di Stato e di governo, cioè dall’organo nel quale si esprime formalmente la sovranità degli Stati: che in quella sede si giungesse concordemente a ritenere opportuno un formale e profondo riassetto istituzionale è sufficiente a far capire quanto acuta fosse la coscienza dell’impossibilità che l’Unione allargata funzionasse con le vecchie procedure e i vecchi strumenti.

Da questa caratterizzazione del momento iniziale dell’attuale processo costituente si possono far derivare alcune importanti conseguenze.

Anzitutto, la decisione non comportava in sé alcuna necessità che ci si orientasse verso uno sviluppo istituzionale di tipo federalista e, comunque, favorevole all’incremento del tasso di sovranazionalità, come invece subito ritennero molti, con in testa la potente burocrazia europea, compresa la maggioranza della Commissione e anche il suo presidente.

È comprensibile che, all’interno di un processo costituente, le forze politiche e sociali decisamente orientate in senso federalista debbano fare ogni sforzo per portare avanti in tutte le sedi possibili le loro richieste; ma visto il tipo di mandato e, soprattutto, l’orientamento prevalente nel consiglio dei ministri, si poteva anche intuire non ci sarebbero stati eccessivi margini di manovra in quella direzione. Per questo le istanze federalistiche continuamente reiterate durante i lavori della Convenzione e anche nell’imminenza e durante la Conferenza intergovernativa erano e sono (e con ogni probabilità saranno anche nel prossimo futuro) destinate a rimanere insoddisfatte, generando così nell’opinione filoeuropea un senso di frustrazione complessivamente ingiustificato.

Non si può infatti dimenticare, che tanto a livello di cittadini quanto a quello dei governi, le concezioni dell’Europa fondate sulla cooperazione intergovernativa sono largamente prevalenti. La costruzione di un federalismo efficiente è opera di lungo periodo, che postula la costruzione di un consenso largo e profondo e non può certo fondarsi soltanto sulla spinta di gruppi sociali limitati ancorché influenti, tanto più in quanto il principale di questi – la burocrazia europea – sarebbe il più avvantaggiato da un’accentuazione della sovranazionalità. È infatti difficile sottrarsi alla sensazione che talune delle proposte avanzate per correggere in senso sovranazionale lo schema predisposto dalla Convenzione abbiano un contenuto corporativo almeno pari a quello politico. Così, tanto per fare un solo esempio, dietro all’idea che nella nuova Unione a venticinque la Commissione debba essere composta da rappresentanti di tutti i paesi membri non sembra troppo malizioso scorgere l’obiettivo di rafforzare e aumentare la burocrazia europea.

In secondo luogo, sarebbe necessario approfondire e chiarire il rapporto tra federalismo e sovranazionalità, dal momento che i due concetti non sono affatto coincidenti. Così, nello sviluppo dell’integrazione sin qui verificatasi, il tasso di sovranazionalità è decisamente prevalente rispetto a quello di federalismo. Per quanto i poteri d’indirizzo e di controllo del Parlamento europeo nei confronti della Commissione siano venuti progressivamente aumentando, la crescente diversificazione degli ambiti di competenza dell’Unione ha consentito una ben maggiore dilatazione dell’azione politica della Commissione stessa, dando luogo alla già ricordata situazione di poteri senza adeguate responsabilità.

La soluzione federalista presuppone l’esistenza di istituzioni nelle quali la funzione di governo è pienamente politica, nel senso che è suffragata o direttamente dal voto popolare o da un rapporto di fiducia con un organismo parlamentare con poteri di indirizzo e di controllo, anch’esso necessariamente elettivo. In uno schema di questo tipo la  rappresentanza popolare prevale o, quanto meno, si equilibra con quella degli Stati. Questa può trovare espressione in un apposito organo, in qualche modo collegato con quello che esprime la rappresentanza popolare, con il quale può condividere anche la funzione legislativa primaria.

Contrapposta a questa è la visione che dà netta prevalenza alla rappresentanza degli Stati, attribuendo i poteri più rilevanti all’organo che ne è l’espressione massima, vale a dire il Consiglio dei ministri, sottoponendo al massimo possibile di controlli l’organo espressione della sovranazionalità, vale a dire la Commissione, e limitando i poteri della rappresentanza popolare, che si vuole continuare a circoscrivere nei confini nazionali. Per motivi che appaiono non del tutto ragionevoli, si ritiene diffusamente che questa concezione sia meno europeista e, sostanzialmente, anche meno democratica di quella federalista: in realtà, questa è l’opinione prevalente dei governi dell’Unione, i quali sono tutti espressione di maggioranze democraticamente espresse, per cui, fino a prova contraria, è l’opinione prevalente dei popoli europei.

Inoltre, la prevalenza di questa visione ha consentito progressi che non è azzardato definire enormi sulla via della costruzione europea, pur se è indiscutibile che in essa siano evidenti perduranti elementi di un eccessivo ruolo attribuito all’identità nazionale dei paesi membri.

E tuttavia è difficile contestare la maggiore efficienza e coesione di un assetto istituzionale di tipo federalista rispetto a quello che, pur consentendo la presenza anche efficace della rappresentanza popolare, affida prevalentemente le funzioni d’indirizzo e di controllo alla rappresentanza degli Stati. È però almeno altrettanto difficile ritenere che nell’attuale situazione storica e dato il livello di sviluppo del processo d’integrazione europea vi siano le condizioni minime sufficienti per introdurre un assetto istituzionale federalista.

 

8. Sicuramente è già possibile delineare i contorni di un sistema europeo di partiti, articolato attorno a una serie valori condivisi in forme transnazionali e che possono ricondursi a due schieramenti diversamente orientati rispetto all’assetto sociale, alla funzione del mercato, alla struttura dello Stato, ma sicuramente convergenti a proposito della libertà e della democrazia, della tutela universale dei diritti umani, e, quasi certamente, anche della coscienza dell’impossibilità di una guerra tra i paesi dell’Unione. Un risultato, quest’ultimo, che serve a misurare quanto il processo d’integrazione abbia progredito, sia pure con ritmo assai lento, nei quasi sessant’anni che ci separano dalla fine dell’ultimo conflitto tra i paesi dell’Europa occidentale. D’altra parte, nel Parlamento europeo i gruppi politici sono pienamente organizzati e fanno capo a raggruppamenti di partiti transnazionali, che, in termini assai schematici, si possono configurare come due contrapposte coalizioni, l’una liberale e tendenzialmente conservatrice, l’altra genericamente socialdemocratica, con appendici esterne orientate rispettivamente in senso nazionalistico e, dall’altra parte, radicale.

Una volta che si concordi sull’esistenza, almeno a livello iniziale, di un sistema di partiti europeo e che, per definizione, travalica i confini degli Stati nazionali, che cosa dunque impedisce di considerare realistico e nel novero di quelli concretamente raggiungibili l’obiettivo di creare istituzioni che si avvicinino quanto più è possibile al modello federale?

Una prima risposta può essere ricercata nella direzione già accennata della permanenza di forti sentimenti d’identità nazionale, e non v’è dubbio che lo smascheramento della falsa utopia internazionalista strumentalmente utilizzata dal socialismo reale abbia contribuito a ridurre il credito di ogni forma d’internazionalismo e, quindi, a rilanciare i nazionalismi a livello planetario. Si può anche aggiungere, sempre in questo senso, che le identità nazionali dei popoli dell’Unione si sono costruite in processi secolari assai articolati, punteggiati di scontri e di tragedie, culminate nei due grandi conflitti del Novecento. E se, da un lato, questi hanno fatto nascere l’impulso all’unità europea, è anche vero che le passioni da essi scatenate non possono del tutto sopirsi nel volgere di qualche generazione.

Ma questo tipo di argomentazioni non porta molto lontano ai fini del discorso che vuole individuare le cause delle grandi difficoltà che ancora oggi incontra la visione federalista dell’Europa. In questo ambito di considerazioni mantiene tutto il suo valore il motto di Jean Jaurès, secondo il quale beaucoup d’internationalisme éloigne de la patrie; un peu d’internationalisme y ramène: si tratta, cioè, di aver ben presenti gli obiettivi di miglioramento del sistema delle relazioni internazionali, compresa la sua articolazione europea, senza impazienti utopismi e nel pieno rispetto del valore delle identità nazionali.

Semmai, dalla considerazione dei processi di formazione di queste ultime, si possono trarre utili indicazioni sull’inevitabile lentezza dei processi di unificazione e sull’inutilità di forzature volontaristiche, che, anzi, possono risultare controproducenti.

L’identità di qualsiasi soggetto, individuale o collettivo, si definisce sempre e soltanto attraverso la relazione di esso con altri soggetti, dotati a loro volta di specifica identità, in un continuo processo di modificazioni e cambiamenti, che, nel caso di specie, costituisce la storia del sistema delle relazioni internazionali.

 

9. In quest’ottica sembra che la causa principale dell’attuale impossibilità di far prevalere in misura decisiva le posizioni federaliste vada ricercata nell’insufficiente definizione di un’identità europea in rapporto al sistema attuale delle relazioni internazionali e ai suoi protagonisti.

Il problema dell’identità europea, oltre che di enorme complessità, è anche di grande rilievo ed è oggi tanto fortemente avvertito che, nei dibattiti successivi alla Conferenza intergovernativa di Bruxelles, anche la stampa periodica ha cercato di affrontarlo, talvolta, (e si veda il caso di un settimanale autorevole come «The Economist») in modo superficiale, se non addirittura grottesco.

Anche se in termini individuali la questione dell’identità europea è abbastanza semplice (in fondo, basta aver ascoltato uno dei concerti brademburghesi in un auditorio di San Francisco o visto un dipinto di Picasso a Singapore per comprendere di che si tratta ), passando al piano culturale e politico il problema si complica enormemente. E, come sempre accade in casi di questo genere, ci si deve preliminarmente chiedere che cosa si intende per Europa e, come al solito, ci si deve porre la questione del limes, dei confini dell’Europa. Si affrontano così problematiche ingestibili: si può partire dall’Impero romano, e, passando per la partizione dioclezianea e quella costantiniana, arrivare a Carlo Magno e alla renovatio imperii, e, proseguendo poi attraverso Carlo V e Napoleone Bonaparte, giungere al Neue Ordnung hitleriano e finire con l’Europa dall’Atlantico agli Urali di Charles de Gaulle. Appare immediatamente evidente che una metodologia del genere, se, con uno sforzo enorme, può portare a soluzioni storiograficamente plausibili, è escluso che abbia una qualche validità sul piano politico e delle relazioni internazionali. Qui il metro principale, anche se non esclusivo, di valutazione è quello della potenza.

È certo legittimo tener conto, nella misura del possibile, anche dei dati storici e culturali. Ma, tanto per limitarsi a due esempi e ragionando in termini grossolani, la Russia è certamente parte dell’Europa da tutti i punti di vista (e questo dovrebbe essere ammesso anzitutto da coloro che si sono battuti e probabilmente continueranno a battersi per inserire nella Costituzione europea il richiamo alle origini giudaico-cristiane): soltanto che le sue dimensioni territoriali, l’enormità delle sue risorse materiali e umane, in definitiva la sua potenza, ne fanno un’entità che non può essere inclusa in nessun contesto regionale (è rendendosi conto di questa realtà che de Gaulle la limitava agli Urali, con un’operazione non dissimile da quella di chi volesse escludere dagli Stati Uniti i territori dell’Ovest).

D’altra parte, ancorché la sua consistenza demografica ne farebbe lo Stato più popoloso dell’Unione, la Turchia potrà difficilmente farne parte, non per motivi legati alla potenza, ma per una troppo diversa identità culturale e religiosa, nonostante le radici bizantine e nonostante il continuo, plurisecolare coinvolgimento dell’Impero ottomano nella storia d’Europa.

A questi principi, del resto, si ispira il sistema delle relazioni internazionali uscito dal secondo conflitto mondiale, pur se la sostanza di esso è rimasta troppo a lungo offuscata dalla contrapposizione globale tra Stati Uniti e Unione Sovietica: la struttura delle Nazioni Unite uscita dalla concezione rooseveltiana dei four policemen (cui l’ostinazione di de Gaulle aggiunse un quinto) si fonda sull’idea che i protagonisti delle relazioni internazionali siano entità statali di dimensioni e di potenza tali da garantire la stabilità del sistema attraverso la loro collaborazione che, come la contrapposizione globale ha dimostrato, può essere anche largamente conflittuale. Anche se composto da un numero di soggetti delle relazioni internazionali più ampio che in qualsiasi altro momento della storia dell’umanità, l’attuale sistema, reso sempre più plausibile dall’estensione planetaria assunta dal mercato capitalistico, distingue nettamente tra i gli Stati nazionali e quelli che, con la terminologia di Carl Schmitt, si possono definire «grandi spazi».

Il problema dell’identità europea, dunque, si riduce alla scelta politica di fondo di stabilire se gli Stati che partecipano all’Unione intendano congiuntamente assurgere al ruolo di «grande spazio», al quale nessuno di essi da solo può assurgere, ovvero si limitino a essere ordinari componenti del sistema delle relazioni internazionali.

Questo assunto è solo apparentemente smentito dal fatto che due di essi – Francia e Gran Bretagna – rientrino nel novero dei «poliziotti» rooseveltiani, e, come tali, siano membri permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. La circostanza è senz’altro da attribuirsi alla proiezione esterna dei due paesi europei che, nel 1945, erano ancora dotati di grandi imperi coloniali, anche se la loro debolezza complessiva all’indomani del conflitto appariva evidente.

E, tuttavia, non sembra corretto attribuire prevalentemente al processo di decolonizzazione della seconda metà del Novecento la perdita dello status di «grande spazio» da parte della Francia e della Gran Bretagna. La motivazione principale di quella perdita, tuttavia, deve essere ricercata nella sostanziale ambiguità insita nell’assetto del mondo postbellico, nel quale era assolutamente evidente lo squilibrio di potenza a favore degli Stati Uniti, a livelli tali che consentivano la realizzazione del disegno rooseveltiano, il quale a sua volta costituiva un’evoluzione realistica di quello di Wilson. Nell’immediato dopoguerra anche l’Unione Sovietica era in condizioni tali da non rappresentare una minaccia globale per gli Stati Uniti, anche se lo era sul teatro europeo. In buona sostanza, il sistema delle Nazioni Unite poteva anche configurarsi come strumento e ausilio dell’egemonia americana per imprimere stabilità al mondo sconvolto dai due conflitti mondiali.

 

10. Nonostante la sfida sovietica abbia impedito la piena realizzazione di questo progetto per qualche decennio, una volta dissoltasi quella minaccia, l’ambiguità è tornata a riproporsi con maggior vigore proprio perché nel frattempo i potenziali «grandi spazi» si sono fatti più numerosi, a cominciare dai due grandi paesi asiatici, Cina e India, e la complessità del mondo contemporaneo è notevolmente aumentata.

Ed è in questa situazione di ambiguità che ha ripreso vigore, spingendosi fino a livelli mai prima raggiunti nel caso della decisione sulla necessità di ricorrere alla guerra in Iraq, la contraddizione tra visione atlantica e visione europea del processo d’integrazione.

Il problema, dunque, ha visto modificati i propri termini: conviene ai paesi europei nel loro complesso trasformare la loro quasi cinquantennale cooperazione economica e, in parte, anche sociale, in vera e propria unione politica in grado di partecipare unitariamente e autonomamente al nuovo assetto delle relazioni internazionali? O invece, è più opportuno continuare a rimettersi all’egemonia degli Stati Uniti, ritenuti ancora e in prospettiva in grado di svolgere funzioni di stabilizzazione a livello planetario, continuando a fruire dell’invidiabile condizione di poter utilizzare risorse a scopi diversi da quelli destinati ad assicurare la sicurezza e le capacità di proiezione verso l’esterno?

Diviene dunque decisivo il rapporto tra Unione europea e Stati Uniti, che però, in ogni caso, non può essere percepito e gestito come nel passato. Sono comunque finiti i tempi in cui la convergenza degli interessi ben compresi esistenti sulle due sponde dell’Atlantico era un dato di fatto incontrovertibile: oggi la domanda se l’identità europea debba definirsi anche rispetto agli Stati Uniti è del tutto legittima, e uno dei peggiori errori che si possano fare è di considerarla come inevitabilmente prodromica a forme di contrapposizione.

Il primo dato da cui prendere le mosse è il definitivo prevalere dell’internazionalismo nella politica estera degli Stati Uniti: questo ha come corollario una molto più estesa proiezione della potenza americana e una correlata riduzione dell’interesse strategico del teatro europeo, ove la preoccupazione maggiore è ancora legata alla residua potenza russa. Gli Stati Uniti, ormai, quale che sia il colore e l’orientamento dell’Amministrazione in carica, sono e si sentono a giusto titolo la maggior potenza mondiale, hanno interessi strategici sufficientemente definiti e condivisi dalle forze politiche, quali, tanto per ricordare i principali, la stabilità e il controllo degli approvvigionamenti energetici e quindi il Medio Oriente e l’Asia centrale ex-sovietica, l’equilibrio strategico e l’apertura commerciale in Asia.

Già con la seconda Amministrazione Clinton si denunciava il pericolo di un minore impegno americano in Europa, in quanto si sarebbero così rafforzate le tendenze all’elaborazione di un’autonoma politica di sicurezza europea e alla conseguente creazione di una forza militare potenzialmente sostitutiva di quella atlantica. È a considerazioni di questo tipo che si può ricondurre l’intervento militare americano nella questione del Kossovo, dove, fra l’altro, tornarono a essere visibili le dissimulate tendenze russe a esercitare influenza sul mondo slavo. Non per nulla, il primo accordo franco-britannico in materia militare, quello di Saint Malo, risale al 1998 e l’anno successivo il vertice europeo di Helsinki, preceduto da intensi contatti istruttori dei quattro maggiori paesi dell’Unione, introduceva i primi elementi di un’organizzazione militare europea e decideva la creazione di una forza d’intervento rapido. Nonostante venisse sottolineata la piena compatibilità delle decisioni assunte con gli impegni derivanti dall’Alleanza atlantica, della quale anzi gli europei intendevano rafforzare le capacità, la reazione degli Stati Uniti fu ispirata a una viva preoccupazione.

Una siffatta percezione rischia di aumentare le diffidenze reciproche che, del resto, non erano mancate all’interno delle due componenti della NATO anche durante la contrapposizione globale: basti pensare alle prolungate polemiche sul burden sharing a proposito del costo dell’Alleanza o al fallimento di iniziative come l’anno dell’Europa proclamato da Kissinger nel 1973, durante la fase finale dell’ubriacatura degli Stati Uniti per l’Asia sud-orientale. È però evidente che negli Stati Uniti risulta difficile a tutte le forze politiche comprendere il desiderio di autonomia degli europei, essendo obiettivamente sgradevole prendere atto che, al di là della retorica, la gratitudine è un concetto estraneo alle relazioni internazionali. Occorrerà ancora del tempo, e soprattutto un brusco cambiamento nel clima politico americano con l’avvento dell’Amministrazione Bush e la minaccia del terrorismo islamico, perché atteggiamenti diversi comincino a manifestarsi.

Questi due fattori, in realtà, hanno operato in maniera reciprocamente contraddittoria sulla politica internazionale degli Stati Uniti. Dopo una fase iniziale nella quale la nuova Amministrazione repubblicana aveva cercato di mantenere una certa continuità con gli orientamenti delle Amministrazioni Clinton, affidandosi alla componente più moderata della compagine governativa, questa è stata quasi completamente superata dalla giustificata reazione emotiva e politica agli attentati dell’11 settembre. Hanno viceversa preso decisamente il sopravvento le componenti più accesamente nazionalistiche, che si caratterizzano soprattutto per l’intendimento di portare sul piano della Realpolitik il nuovo internazionalismo della politica estera americana, sulla base dell’erroneo presupposto che quello delle fasi precedenti fosse sostanzialmente utopistico o che si fondasse soltanto sulla minaccia sovietica.

Così, tanto per fare qualche esempio, la scelta europea di avvalersi nella misura massima possibile della protezione militare americana ha finito per diventare una caratteristica essenziale della politica europea, che, secondo un immaginifico esponente del neoconservatorismo, è l’espressione di un continente votato a Venere e alla sua mollezza, contrapposta alla marziale virilità degli Stati Uniti. Un’impostazione, questa, che non può avere altro risultato che quello d’incoraggiare le tendenze europee all’autonomia.

 

11. Altro elemento di novità, collegato al precedente, è quello di valorizzare al massimo la superiorità militare degli Stati Uniti, abbassando il ricorso a quel soft power che era la principale caratteristica dell’egemonia globale americana, a partire dalla decisione di F.D. Roosevelt del 1939 di trasformare gli Stati Uniti nell’«arsenale della libertà». Questo discorso è divenuto particolarmente pericoloso dopo la clamorosa conferma della minaccia terroristica islamica. Pretendere di dare una risposta esclusivamente militare, oltretutto massicciamente fondata sulla tecnologia, a un nemico che non ha una connotazione politicostatuale e rispetto al quale è difficilmente applicabile lo stesso concetto di guerra è impresa assai probabilmente votata al fallimento.

Dal punto di vista delle relazioni interatlantiche anche quest’impostazione neoconservatrice non può che ingenerare preoccupazioni negli europei, che, pienamente consapevoli della minaccia terroristica, non intendono rinunciare agli strumenti della politica e dell’immagine che in un conflitto asimmetrico come quello in corso possono avere un’utilità superiore a quello militare. E, si badi, questa preoccupazione è generalizzata, dal momento che anche l’alleato più fedele degli Stati Uniti, il governo laburista inglese, si è ripetutamente e chiaramente pronunciato a favore dell’integrazione dello strumento militare con quelli politici e propagandistici. Sotto questo profilo è difficile contestare la tesi di un autorevolissimo conoscitore delle diversità tra i popoli come Tzvetan Todorov: sul piano dell’efficacia, il ricorso agli strumenti della politica e anche della coercizione pacifica è sempre da preferirsi alla guerra, anche contro le minacce più gravi alla sicurezza e alla stabilità delle relazioni internazionali.

Un altro aspetto delle tesi neoconservatrici destinato a provocare la diffidenza euro