L'orgoglio (pre-politico) di sentirsi italiani

Written by Paolo Segatti Thursday, 01 January 2004 02:00 Print

Forse è tempo che si riconosca anche a Bossi qualche merito. Tra un’invocazione e l’altra all’identità padana e intermittenti proclami secessionisti, la Lega ha costretto molti a chiedersi chi siamo noi italiani e perché siamo così. Ne è prova il numero di libri, articoli e saggi sull’identità nazionale usciti negli anni Novanta, in crescita rispetto al passato. I meriti della Lega andrebbero però equamente divisi anche con altri. Il cambiamento politico del decennio scorso ha proiettato gli ex-fascisti verso una nuova centralità politica.

 

Forse è tempo che si riconosca anche a Bossi qualche merito. Tra un’invocazione e l’altra all’identità padana e intermittenti proclami secessionisti, la Lega ha costretto molti a chiedersi chi siamo noi italiani e perché siamo così. Ne è prova il numero di libri, articoli e saggi sull’identità nazionale usciti negli anni Novanta, in crescita rispetto al passato.1 I meriti della Lega andrebbero però equamente divisi anche con altri. Il cambiamento politico del decennio scorso ha proiettato gli ex-fascisti verso una nuova centralità politica. Poiché in Italia, come altrove del resto, è soprattutto la politica che accende e spegne i riflettori sul passato, si è ripreso a discutere con accanimento sulle pagine «non scritte», «buie», «rimosse» della memoria nazionale e della necessità di riscoprire una «nuova» unità nazionale dopo la lunga «guerra civile calda e fredda» del secolo scorso. In particolare una di queste pagine, le vicende del confine orientale, sembra destinata a rimanere una delle più frequentate da AN, anche dopo il recente strappo di Fini. Niente di male, se questo volesse dire che quella pagina verrà letta sino in fondo, per esempio aprendo una riflessione serena sul nesso tra le leggi razziali e l’idea di nazione coltivata dal fascismo, oppure sulle politiche, ispirate da quella idea e attuate ben prima delle leggi del 1938, nei confronti dei cittadini italiani che in varia misura si sentivano parte di altre culture nazionali. Fino ad ora non vi sono segnali in questa direzione. Il dibattito continua invece a ruotare attorno a due problemi. Anzitutto, che la nostra identità nazionale era ed è particolarmente debole e fragile. E poi che a renderla tale, oltre che la sua memoria strabica, era ed è il fatto che il «noi» degli italiani era da sempre ed è ancora oggi un «noi» verticalmente diviso tra opposte lealtà partigiane.

Così per alcuni il tentativo perseguito dalla Lega di inventarsi addirittura una nazione altra da quella italiana è «anche» la conseguenza estrema di un male antico, lo spirito di fazione degli italiani. Per altri, le vicende del confine orientale sono «solo» un capitolo delle divisioni tra gli italiani, quelli che rimasero dalla parte del nazi-fascismo, perché «costretti» a difendere l’italianità di quelle terre, e quelli «traditori», perché volevano cederle ad altri per accecamento ideologico.2

In effetti, l’Italia ha incontrato nel suo percorso di costruzione nazionale intensi conflitti sociali, che hanno segmentato la sua società in diverse e antagoniste culture politiche; ha attraversato il deserto di un regime illiberale che ha trasformato l’amor di patria in un simbolo di parte; è infine approdata su sponde democratiche per vivere poi una lunga stagione di radicale polarizzazione politica, di diverse definizioni dell’interesse nazionale e anche, dagli anni Settanta in poi, di silenzio pubblico sui temi della nazione, come ricorda spesso Roberto Cartocci.3

Con questo passato alle spalle non ci sarebbe da stupirsi se, udendo parlare di sentimento nazionale da restaurare e vedendo quello che si vede nell’arena politica, l’uomo della strada fosse giunto alla conclusione che si diceva poco sopra: la nostra coscienza nazionale è debole e lo è perché siamo politicamente divisi.

A me pare che questa conclusione sia solo in parte vera. Se chiediamo direttamente agli italiani di dirci in che misura essi si sentono tali, il quadro che otteniamo è diverso. Come si vedrà dall’analisi che segue, gli italiani non hanno per niente una limitata coscienza del noi nazionale. Inoltre, non esiste un legame tra l’intensità di questa e l’ideologia politica. È invece il modo in cui gli italiani intendono la loro identità nazionale, a costituire il cuore del problema.

 

Un noi debole e diviso politicamente?

Misurare il sentimento individuale di appartenenza a una nazione è un compito di non facile soluzione. Anzitutto perché il senso di appartenenza a una nazione è come l’aria che si respira. Non ce ne rendiamo conto in condizioni normali. Diventiamo più sensibili quando qualcosa altera sensibilmente le sue componenti fondamentali, facendo superare ai loro parametri la soglia di normalità. Secondo Billig, uno psicologo sociale, sentiamo la nostra identità nazionale come un aspetto secondario della nostra identità individuale e pensiamo magari di avere un sentimento nazionale debole, non perché ne siamo privi, ma solo perché nessuno sta minacciando veramente l’identità delle istituzioni politiche di cui siamo cittadini.4 Ciò vuole dire che chi misura il sentimento nazionale in situazioni in cui non è reso saliente da qualche minaccia o da qualche drammatico evento, si espone al rischio di sottovalutare la sua vera intensità e soprattutto la sua capacità di condizionare atteggiamenti e comportamenti. In secondo luogo, pretendere di misurare l’identità nazionale in un individuo vuole dire dover fare i conti con una molteplicità di dimensioni, delle quali l’intensità è solo una. Possiamo tuttavia convenire che sentirsi parte di una nazione implica sentire che tale appartenenza è anche una fonte del senso di dignità personale. Ed è questo che si è tentato di misurare in più occasioni in Italia, in Europa e in altri paesi, chiedendo a campioni rappresentativi della popolazione con più di 18 anni in che misura essi si sentissero orgogliosi del loro paese. Gli intervistati potevano scegliere nel modo consueto tra quattro diversi livelli di orgoglio (molto, abbastanza, poco o per nulla).

Nella tabella 1 è stata inclusa la percentuale di chi ha dichiarato di sentirsi «molto» e «abbastanza» orgoglioso di essere italiano in vari anni dal 1981 al 2002. Al fine di effettuare un confronto sono stati anche inclusi altri popoli europei.

Tabella 1

Sono tre le cose che risultano evidenti. La prima è che, se prestiamo fede a questi dati, gli italiani non paiono affatto caratterizzati da un livello di orgoglio nazionale poco elevato. La percentuale di orgogliosi in venti anni non scende mai sotto il 78%. La seconda è che la percentuale di orgogliosi non è nemmeno la più bassa rispetto a quella degli altri europei. La percentuale dei tedeschi orgogliosi di esserlo è, per esempio, molto più bassa di quella degli italiani. Questi ultimi si collocano tra i francesi e i britannici, due popoli che, specie il primo, vengono sempre additati come esempi di una spiccata coscienza nazionale. Infine, sino al 1997 le variazioni del livello di orgoglio degli italiani sono di modesta entità (forse al di sotto della soglia statistica). Se comunque le prendiamo per reali cambiamenti, ci suggeriscono che né le escursioni di Bossi alle sorgenti del Po, né le reazioni ai proclami della Lega sono riuscite a rendere molto più o molto meno saliente tra gli italiani il livello di amore di patria. Sia ben chiaro, questo non vuole dire che né le une né le altre siano state prive di conseguenze sul modo in cui noi ci sentiamo italiani, ma sull’intensità del sentimento di appartenenza quegli eventi sembrano non avere lasciato traccia, per il semplice fatto che gli italiani traggono dal fatto di essere italiani motivo di orgoglio a prescindere dalle dispute politiche e dalle ideologie politiche. Detto ciò, dal 1997 al 2002 il livello di orgoglio in Italia, ma anche in altri paesi, mostra una significativa crescita (effetto Ciampi?). Consideriamo ora il rapporto tra l’orgoglio e l’ideologia politica.

Tabella 2

Nella prima parte della tabella 2, relativa al 1982, sono presentate due misure che si riferiscono all’Italia e ad altri quattro paesi europei (Francia, Germania Ovest, Gran Bretagna e Spagna). La prima riga mostra la differenza in punti percentuali tra la percentuale di molto e abbastanza orgogliosi che si collocano a destra sulla scala sinistra-destra (a cinque posizioni) e quella di coloro che si collocano a sinistra. Nella seconda riga viene presentato un coefficiente statistico, l’eta quadro, che indica in che misura la scala sinistra-destra è associata al livello di orgoglio nazionale. Il coefficiente può variare da 0 a 1. Se è prossimo allo 0 vuole dire che le differenze di orgoglio nazionale tra gli individui rispetto alla media generale sono maggiori delle differenze tra le posizioni. Il che significa che all’interno di queste c’è una grande eterogeneità individuale. Se invece il valore è prossimo all’1, ciò significa che le varie posizioni ideologiche sono molto omogenee al loro interno quanto al livello di orgoglio nazionale; cioè essere di sinistra o di destra fa molto differenza quanto al livello di orgoglio nazionale. La scelta del 1982 non è casuale. Il 1982 è un anno a ridosso di un grande scontro politico sui temi internazionali (la questione degli euromissili) e si colloca in un periodo in cui gli elettorati dei due più grandi partiti di allora (DC e PCI) avevano ancora opinioni alquanto diverse sulla collocazione del nostro paese nel sistema di alleanze internazionali. Ebbene, come il lettore può agevolmente notare, in quell’anno le differenze tra chi si colloca a destra e chi si colloca a sinistra sono in Italia minori di quelle che intercorrono in altri paesi, con l’eccezione della Francia. Inoltre i valori dell’eta quadro sono così piccoli che ci costringono a rigettare l’ipotesi che la posizione ideologica sia associabile al livello di orgoglio nazionale, tanto in Italia che negli altri paesi.

La seconda parte della tabella mostra le stesse misure per il 2002. La differenza in punti percentuali tra chi si colloca a destra e chi si colloca a sinistra indica che dopo venti anni la situazione non è radicalmente cambiata per l’Italia e neanche per gli altri paesi, tranne che per la Gran Bretagna. Il punto più importante è tuttavia il fatto che, come nel 1982, il valore dell’eta quadro rimane sempre molto vicino allo zero. Quindi dobbiamo concludere che l’orgoglio nazionale aveva e ha poco a che fare con le scelte ideologiche. Con ciò non si vuole sostenere che gli italiani non fossero allora, e non siano oggi sotto alcuni aspetti, profondamente divisi nelle loro opinioni politiche. Si vuole invece sottolineare che le divisioni politiche in cui siamo coinvolti non paiono associabili all’intensità con cui ci sentiamo italiani, né lo erano venti anni fa.5 Tutto bene dunque? Non proprio. Poco sopra si è detto che l’intensità del sentimento nazionale è solo una delle dimensioni dell’identità nazionale. È utile quindi chiedersi come gli italiani si raffigurano la propria nazione. Possiamo farlo chiedendoci le ragioni per le quali così tanti italiani si sentono orgogliosi di essere italiani.

 

Le ragioni dell’orgoglio nazionale degli italiani

Nel 1959 due studiosi americani, Almond e Verba, chiesero ad un campione di italiani, tedeschi occidentali, britannici, americani e messicani le ragioni per le quali erano orgogliosi della loro comunità nazionale.6 Le risposte che ottennero sono presentate nella tabella 3 (i dati sui messicani non sono presentati).

Tabella 3 

Una semplice scorsa ai dati ci fa subito capire che per spiegare il loro orgoglio nazionale gli italiani indicavano soprattutto ragioni pre-politiche, ragioni culturali e fattori attinenti al carattere del popolo italiano. Allora anche i tedeschi dell’Ovest tendevano a privilegiare tali ragioni. Per gli italiani poi le istituzioni politiche e le altre ragioni di tipo politico erano fonte di orgoglio nazionale in misura minore di quanto lo fossero per gli americani e per i britannici.

Nel 1995 un’indagine comparata internazionale (International Social Survey Program) relativa a ventitre paesi, europei e non, ha rivolto una domanda simile a quella del 1959, anche se con un formato diverso di risposta. Per agevolare il confronto con il passato, nella tabella 4 sono stati considerati solo i risultati relativi ai quattro paesi del 1959.

Tabella 4

Come si può vedere, gli italiani continuano ad essere orgogliosi dell’Italia soprattutto per ragioni pre-politiche. L’opposto accade nei due paesi anglosassoni. Qui le ragioni che attengono alle caratteristiche politiche della loro nazione ottengono il favore di un numero cospicuo di intervistati. I tedeschi occidentali sono più simili ai britannici e agli americani. Il profilo della loro idea di nazione è ora prevalentemente caratterizzato in senso politico-civico. Si è poi osservato, in un’analisi relativa alla gran parte dei paesi inclusi nell’indagine, che chi è orgoglioso per il modo in cui funziona la democrazia, è anche orgoglioso del successo economico del proprio paese, del suo sistema sociale, dell’influenza internazionale di cui gode e dell’equo trattamento dei gruppi sociali. Chi invece è orgoglioso del successo artistico, lo è anche del successo sportivo, della storia e delle Forze armate del suo paese. Se replichiamo la stessa analisi a livello dei singoli paesi, emergono alcune piccole differenze. Per esempio in Italia chi è orgoglioso delle Forze armate tende ad esserlo anche per gli altri aspetti politici dell’orgoglio nazionale. Ma nonostante ciò, possiamo dire che in un numero elevato di paesi i cittadini concettualizzano in due modi diversi la loro nazione. Alcuni mettono più in risalto gli aspetti politici della loro comunità. Altri quelli culturali. Se poi mettiamo a confronto i diversi paesi sulla base dell’intensità in cui gli individui che ne sono membri sentono queste due modalità di rappresentarsi la nazione, il quadro è molto netto. Gli italiani sono gli unici tra gli occidentali a privilegiare gli aspetti culturali della loro comunità nazionale. In questo siamo più simili a polacchi, bulgari, cechi, slovacchi, sloveni e ungheresi. Mentre britannici, tedeschi, olandesi, norvegesi, belgi e anche spagnoli tendono a privilegiare di più gli aspetti politici.7 Intendiamoci, le differenze non sono tali da costituire dei veri e propri tipi diversi di identità nazionale. Piuttosto si deve parlare di accentuazione di una dimensione rispetto a un’altra.

In definitiva, gli italiani sembrano avere un elevato orgoglio nazionale, ma per tutti i passati cinquanta anni esso ha trovato le sue ragioni meno nelle dimensioni politiche dell’idea di nazione, e più in quelle pre-politiche, di natura culturale (la storia, l’arte, la bonomia della gente, se si vuole il grande passato di questo paese). Qualcuno potrebbe osservare che l’idea di nazione condivisa dagli italiani tende a mettere in risalto le componenti pre-moderne dell’idea di nazione. In effetti, sotto questo profilo si potrebbe parlare di sentimento nazionale debole, perché riesce ad esprimersi, meno degli altri popoli occidentali, nell’orgoglio per le istituzioni che fanno di un popolo un popolo di cittadini. D’altra parte, questa conclusione è un po’ stravagante. Sarebbe come affermare che il sentimento nazionale in Slovenia, oppure in Ungheria o in Polonia è debole perché anche lì, come in Italia, prevale un po’ di più la dimensione culturale su quella civica. Forse allora è meglio parlare di un’idea di nazione ambigua, irrisolta nei suoi contenuti civici. Del resto, la pedagogia nazionale che ispira l’operato di Ciampi parte proprio da queste premesse, più che da una generica constatazione che il sentimento nazionale è debole o addirittura inesistente.

Quali sono gli effetti che i modi diversi di intendere la nazione a cui si appartiene possono avere sulle opinioni e sui comportamenti individuali?

 

Le conseguenze di un’idea prevalentemente culturale di nazione

Questo è un tema su cui poco o nulla si discute, almeno da noi, nonostante offra spunti di un certo interesse. Per esempio, si è notato in diversi paesi europei che gli individui che appuntano il loro orgoglio soprattutto sugli aspetti culturali e non su quelli civici tendono ad essere più ostili verso gli immigrati.8 In Italia, secondo i dati del 1995 dell’ISSP, accade lo stesso. Battistelli e Bellucci9 hanno poi mostrato che in Italia coloro che hanno un punteggio più alto sulla dimensione culturale dell’orgoglio nazionale tendono ad essere meno favorevoli al processo di integrazione europea. Infine, gli individui inclini a valorizzare soprattutto gli aspetti pre-politici della loro identità nazionale tendono a manifestare identità esclusivamente nazionali, mentre chi enfatizza gliaspetti civici tende ad esprimere identità duali, identità cioè nelle quali si combinano in varia intensità identità nazionali e identità europea. Da questo punto di vista, alcuni studi mostrano che le identità esclusivamente nazionali riducono fortemente il sostegno al processo di integrazione europea, molto più di altri fattori, come quelli relativi alla posizione socio-demografica, al reddito oppure agli orientamenti politici. Tutto questo sembra divenire più probabile quando nell’arena politica è presente un’offerta populistica. Questo accade, per esempio, in molti paesi europei, tra cui l’Italia e per certi versi anche in Europa orientale, come nel caso della Polonia.10 Dunque, se questi risultati verranno confermati, possiamo dire che non solo l’intensità del sentimento nazionale,11 ma anche il modo di intenderlo possono avere conseguenze di un certo peso sul piano degli atteggiamenti politici e forse anche su quello dei comportamenti di voto. Allora, sotto questo profilo, bisogna dire che nel nostro paese potrebbe esserci un potenziale di opposizione al processo di integrazione europea e nei confronti degli immigrati, che non ha ancora trovato modo di divenire un issue politico centrale, perché o gli imprenditori politici che vorrebbero sfruttarlo non sono credibili sul piano della «difesa della nazione» (vedi Bossi), o quelli che potrebbero farlo sino a qui non hanno voluto farlo (vedi Fini). Vedremo cosa accadrà alle prossime elezioni europee e quali scelte farà il leader che possiede le risorse per farlo in modo «dolcemente» persuasivo. Ma torniamo sul punto messo in mostra da questi studi.

Perché l’inclinazione a valorizzare gli aspetti culturali e non civici nella propria identità nazionale, per quanto innocente possa sembrare, produce questi effetti? Per due ragioni di fondo. In primo luogo, immigrazione e integrazione europea sono processi che inevitabilmente rappresentano una sfida al modello culturale con il quale siamo «naturalmente» portati a identificarci. In secondo luogo, i modi di intendere l’identità del gruppo a cui apparteniamo tendono a influenzare la definizione dei criteri di appartenenza allo stesso gruppo. Così, a proposito dell’immigrazione, è probabile che chi enfatizza la dimensione culturale si aspetti anche che gli altri, se vogliono integrarsi, debbano condividere una parte ampia del suo modello culturale.

Un’attesa perfettamente legittima. Ma sarebbe meglio che fosse anche realistica. Per renderla tale bisognerebbe riflettere sul fatto che una parte degli immigrati probabilmente coltiva un suo progetto di identità che riguarda anche il paese che lo ospita, senza che perciò intenda abbandonare del tutto quello originario. Se si vuole favorire la formazione di identità duali, e non conflittuali con la nostra, è allora necessario chiedersi quanto ampio debba essere il modello culturale che intendiamo proporre agli altri.12 Al riguardo, pare evidente che in molti paesi vi sono settori politici che spingono nella direzione opposta, dal momento che puntano ad etnicizzare le tradizioni culturali della maggioranza. In tal modo si ottiene l’effetto di innalzare la soglia di accettabilità del diverso, rendendo arduo lo sviluppo di identità duali. Tendenze non dissimili sono presenti del resto anche nelle minoranze; tendenze, per esempio, a dare della diversità un’interpretazione esclusivista. Non esistono quindi soluzioni facili, come dimostra quello che accade in molti paesi europei. Qui però chi si pone il problema delle condizioni facilitanti un processo di aggiustamento reciproco spesso sa che può contare anche sulla presenza di un patrimonio di fiducia nelle capacità integrative delle istituzioni. Ma è esattamente tale risorsa che risulta meno disponibile in Italia, come i dati qui esposti e altri indicano.13

In realtà, i problemi posti dai rapporti con estese minoranze non sono nuovi per il nostro paese. Nel corso del Ventesimo secolo l’Italia liberale e poi quella fascista si trovò dinanzi al problema di integrare un numero non piccolo di nuovi cittadini italiani che volevano in misure diverse sentirsi parte anche di altre nazioni o culture. Fu un fallimento e i metodi impiegati aggravarono il conflitto nazionale in quelle terre. Ora, è ovvio che tra oggi e quei tempi tutto è diverso, dalla natura dei regimi politici alla legittimità del ricorso a politiche attive di nazionalizzazione di massa da parte degli Stati, per cui ogni confronto è improprio. Eppure sarebbe bene recuperare nel discorso pubblico sulla nazione anche il ricordo di quei tentativi catastrofici. Anzittutto perché è giusto ricordare le conseguenze che da ciò derivarono per tutti, che si sentissero o meno italiani. Per coloro poi che si sentivano italiani, quelle politiche furono anche l’inizio della fine. Ma è utile tornare su quelle lontane vicende perché potremmo pensare da una parte che l’inclinazione verso un’idea non civica di nazione rappresenti un sostrato culturale precedente al fascismo e che il regime ha cercato di etnicizzare, e dall’altra che entrambi questi tratti hanno contribuito a rendere impossibile la formazione di identità duali. Caduto poi l’aspetto etnico, la tendenza a pensarsi come comunità più di italiani che di cittadini italiani è giunta sino a noi. Da questo punto di vista, la Resistenza avrebbe potuto rappresentare un punto di svolta, come ha ricordato Rusconi aprendo il dibattito sul tema della nazione più di dieci anni orsono.14 Ma le cose sono andate diversamente. Sarebbe utile chiedersi perché, consapevoli però che il problema da risolvere non è la semplice debolezza del sentimento nazionale, ma ben altro.

 

 

 

Bibliografia

1 Non dobbiamo però pensare che l’aumento dell’interesse scientifico per il tema della nazione e del nazionalismo sia solo italiano. Secondo Jones e Smith, negli anni Settanta gli articoli riguardanti il tema della nazione e citati dai Sociological Abstracts erano 107, negli anni Ottanta erano 241, negli anni Novanta 859. In trenta anni si è avuta dunque una crescita di otto volte. Cfr. F.L. Jones e P. Smith, Individual and Societal Bases of National Identity, A Comparative Multi-Level Analysis, in «European Sociological Review», vol. 17, 2/2001, pp. 103-118.

2 Questa interpretazione, oltre che dimenticare gli antefatti (la politica del regime fascista), non tiene conto che sulla scena, dalla parte italiana, ci stava anche un terzo attore, la Resistenza italiana democratica e patriottica. Fu, per esempio, il CLN di Trieste, presieduto da Don Marzari, a liberare la città il 30 aprile del 1945. Poi il giorno dopo, quando arrivò l’esercito jugoslavo, tornò in clandestinità. Un’azione dunque militarmente poco efficace, ma politicamente decisiva (Cfr. R. Spazzali, L’Italia chiamò, Resistenza politica e militare italiana a Trieste 1943-1947, Libreria Editrice Goriziana, Gorizia 2001). Chi, nel drammatico negoziato con le potenze vincitrici sul destino della Venezia Giulia, rese più credibili ai loro occhi le ragioni degli italiani: i fascisti che combatterono fino all’ultimo con i tedeschi o i patrioti democratici antifascisti?

3 R. Cartocci, Diventare grandi in tempo di cinismo, Il Mulino, Bologna 2002.

4 M. Billig, Banal Nationalism, Sage, London 1995.

5 Un’ulteriore e paradossale prova di ciò ci viene da alcune analisi dell’elettorato della Lega. A metà degli anni Novanta la percentuale di orgogliosi di essere italiani tra gli elettori della Lega era inferiore a quella presente negli elettorati degli altri partiti, ma rappresentava comunque la maggioranza dei sostenitori del partito di Bossi.

6 G. Almond e S. Verba, The Civic Culture, Princeton University Press, Princeton 1963.

7 P. Segatti, Quale idea di nazione hanno gli italiani? Alcune riflessioni sull’idea di nazione in una prospettiva comparata, in G. Bettin (a cura di), «Giovani e democrazia in Europa», Cedam, Padova 1999. I risultati dell’indagine 1995 sulle ragioni dell’orgoglio nazionale tra gli italiani vengono confermati anche da altri studi. Per esempio, da quello del 1999 diretto da Maurizio Cotta, Pierangelo Isernia e Paolo Bellucci, da quello diretto da Roberto Cartocci nel 2002 su un campione di studenti, e infine dalle ripetute indagini Iard sui giovani italiani.

8 M. Hjerm, National identities, National Pride and Xenophobia: A Comparison of Four Western Countries, in «Acta Sociologica», vol. 41, 1998, pp. 335-346.

9 F. Battistelli e P. Bellocci, L’identità degli italiani tra euroscetticismo ed europportunismo, in «Il Mulino», 399/2000, pp. 77-85.

10 C. Mcmanus-Czubin´ska, I.L. Miller, R. Markwoski e J. Wasilewski, Understanding Dual Identities in Poland, in «Political Studies», vol. 51/2003, pp. 121-143.

11 S. Carey, Undivided Loyalties: Is National Identity an Obstacle to European Integration, in «European Union Politics», 3/2002, pp. 387-413.

12 Illuminanti, a questo proposto, sono le analisi di D. Laitin sui fattori che influenzano la possibilità di sviluppare o meno identità duali o identità integrate: D. Laitin, Identità in formation, Cornell University Press, Ithaca 1998. Il suo caso di studio riguarda i milioni di russi residenti nelle repubbliche ex-sovietiche e il loro complicato aggiustamento da gruppo imperiale protetto a minoranza nazionale. Al di là della rilevanza del caso specifico, il valore di questa analisi sta anche nella fecondità del modello teorico adottato. Su questi temi, per altro, è in atto un importante dibattito di cui qualche traccia si trova nel recente volume curato da Kymlicka e Opalski: W. Kymlicka e M. Opalski, Il Pluralismo liberale può essere esportato?, Il Mulino, Bologna 2003. Interessanti al riguardo gli argomenti di Walzer: M. Walzer, Geografia della morale, democrazia, tradizioni, universalismo, Dedalo, Bari 1999.

13 Cfr. Cartocci, op. cit. Anche se forse non solo è carente la fiducia nelle istituzioni, ma è limitata anche la cognizione che le istituzioni sono in sé capaci di integrazione. Da questo punto di vista, l’assenza di un serio dibattito sulla riforma della legge sulla cittadinanza è abbastanza eloquente.

14 G. Rusconi, Se cessiamo di essere una nazione, Il Mulino, Bologna 1993.